LA VC NELLA CHIESA LOCALE

UNA SCUOLA DELLO SPIRITO

 

Ogni comunità deve essere una scuola dello Spirito, dei valori trascendenti, del significato ultimo della vita. Bisogna calare nel cuore ciò che un giorno abbiamo liberamente scelto. Purtroppo a volte rimaniamo molto lontani dalla realtà e invece di rivelare il volto del Padre, lo nascondiamo.

 

Può darsi che ci siano ancora tra di noi alcuni religiosi/e che sono entusiasti dei numeri (“siamo in tanti”), sono affascinati dai titoli e incantati dalla lista interminabile  di attività che realizzano (ciò li fa sentire importanti e prestigiosi). Ma a molti religiosi e religiose l’unica cosa che interessa realmente e a cui mirano non sono le difficoltà; è la loro vita personale fatta di apertura e docilità allo Spirito, di passione per Cristo e per la sua causa, di gratuità, abbandono e fiducia nell’azione dello Spirito. Così hanno vissuto i nostri fondatori, per questo ci sorprendono e ci stupiscono e sono per noi ispirazione, forza e strada da percorrere. Non ci è consentito di agire in altra maniera.1

Per questa ragione penso che la vita religiosa debba essere profondamente radicata nell’incontro fatto di ammirazione e di entusiasmo per Gesù e Gesù incarnato che oggi chiama a seguirlo con tutto il cuore e a tempo pieno, trasformando  coloro che sono chiamati, nella loro fragilità umana, «in memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato davanti al Padre e agli uomini» (VC, 22).

Senza questa esperienza teologale, senza questa relazione personale, ogni volta più esigente e gratificante con Gesù, il Signore, senza questa seduzione non si giustifica neanche una sola iniziativa nella vita religiosa. Bisogna che i religiosi e le religiose si presentino come “un ricordo provocatorio di Gesù; che in essi si veda, si ascolti Gesù, e attraverso di loro si renda presente e operi. Il volgersi radicalmente a Gesù è necessario affinché la vita religiosa recuperi originalità, credibilità e fecondità.

E in un mondo inebriato di tecnica ma anoressico di Dio, i religiosi e le religiose vogliono essere un’offerta gratuita dell’esperienza di Dio, del significato della vita, della gioia di vivere in fraternità, di donarsi senza condizioni e restrizioni. Nel mondo sovrabbondano  esperti in ogni campo, ma ad esso mancano testimoni della misericordia e tenerezza di Dio. Ogni comunità deve proporsi di essere come una scuola dello Spirito, dei valori trascendenti, del significato ultimo della vita. Tutto ciò costituisce una grande sfida per noi. Bisogna passare dal progetto illusorio alla storia concreta di ogni giorno. Bisogna calare nel cuore ciò che un giorno abbiamo liberamente scelto. Purtroppo a volte rimaniamo molto lontani dalla realtà e invece di rivelare il volto del Padre, lo nascondiamo. Ma questo non toglie la verità della nostra missione.

 

FRATERNITÀ

UNA PROFEZIA VIVA

 

La gente ha una grande fame di amore, di comprensione, di solidarietà e di riconciliazione, di pace e di gioia. Quanti volti appassiti per tanta freddezza ed emarginazione! In ogni parte camminano folle solitarie senza orientamento e senza speranza. Il nostro mondo ha bisogno di “anima”, di “cuore”. Se non  vogliamo che la nostra vita si raggeli bisogna che si moltiplichino i focolari, ossia gli spazi di calore umano, di incontro e di accoglienza, di sostegno stimolante, di serenità e perdono, in cui possiamo essere ascoltati senza fretta e in cui condividere con qualcuno ciò che portiamo dentro: inquietudini, speranze, dolori e gioie.

Il nostro mondo lacerato da rivalità e violenze di ogni genere e frammentato per etnie, ideologie e religioni… ha bisogno di un ambiente “ecologico” – quale dovrebbe essere la comunità religiosa –  in cui ossigenare l’anima e dove si vivono relazioni umanizzatrici: calorose e aperte, piene di comprensione, di sofferenza amorosa, di accoglienza dell’altro, del diverso, di perdono e di gioia.

Le persone, pur con le loro particolarità sono il bene più grande che possiedono le nostre comunità, incluse le loro stravaganze.

«Se la comunità religiosa è la matrice da cui nascono e giungono alla loro pienezza persone liberate da se stesse, dalle loro chiusure, egoismi, scoraggiamenti, da ciò che le tiene in schiavitù, unite e serene, gioiose nell’attesa del futuro, fratelli di tutti, quale segno di speranza si aprirebbe per tutto il mondo!

Le gente vedrebbe  che il sogno di un mondo migliore in cui ognuno sia fratello dell’altro, non è un’utopia impossibile, ma può essere un inizio di realizzazione. E tutto questo perché alcuni hanno creduto in Cristo e alle sue promesse, perché hanno accettato  di essere interpellati dallo Spirito e accesi del fuoco che purifica».2

La chiamata evangelica in cui maggiormente si riconoscono i religiosi consiste nella rottura dei modi  abituali di stabilire delle relazioni tra le gente. I vincoli di sangue o i sentimenti spontanei come il sistema di interessi personali, benché legittimi, sono superati dal criterio della fede, dal “per causa mia” di Gesù. La vita religiosa fa una proposta nuova di relazioni umane e consiste nel fatto che uomini e donne, così diversi per cultura, formazione, personalità, età, ecc. si sentono così uniti nell’amore che li convoca a vivere come fratelli, senza riserve né discriminazioni di nessuno. Non c’è qui un contributo profetico enormemente stimolante, come ha riconosciuto con riconoscenza Giovanni Paolo II?

Le nostre comunità dovrebbero essere come quegli spazi verdi nelle città dove si respira aria di Dio e di umanità con cui contagiare l’ambiente che ci circonda e così liberare dal tanto smog dell’individualismo, dalla mancanza di solidarietà e dall’indifferenza le nostre relazioni umane.

 

LA NOSTRA OFFERTA

DAL NOSTRO STILE DI VITA

 

Nel supermercato di un mondo pieno di offerte, la nostra dovrà essere di grande qualità evangelica. Altrimenti si corre il rischio che sia una in più, guardata con semplice curiosità o rispettosa indifferenza.

 

A noi è toccato di vivere in un mondo così bombardato di erotismo da aver bisogno di qualcuno in carne ed ossa, come tutti, che lo aiuti a riscattare l’amore e la sessualità da ogni banalizzazione.  Nella nostra società l’aspetto sessuale è esaltato, fomentato, esibito. I miti attuali hanno spogliato la sessualità del suo aspetto profondamente umano. Essa è diventata un modo di divertirsi, un fatto insignificante e spersonalizzato, una merce di consumo.

Il mondo e la Chiesa hanno bisogno dell’eloquente testimonianza del valore del celibato, vale a dire, di persone celibi per Gesù e il suo Regno che si mostrino integre, mature, armoniose, disponibili e gioiose, i cui rapporti non sono regolati da nessuna paura né repressione, ma dal riferimento effettivo a Qualcuno che forse non conoscono,  uomini e donne aperti, dal tratto semplice ma senza pregiudizi, cordiale ma senza attaccamenti, rispettoso della dignità e della libertà umana e nello stesso tempo caloroso e vicino.

Il celibato per il Regno non porta alla frustrazione poiché non consiste  nel cercare se stessi. La gioia e la pienezza non sono immaginabili senza un cuore pieno di calore verso gli altri e senza un’autentica comunione di persone. La più eloquente testimonianza del nostro celibato sono le relazioni cordiali e fraterne verso tutti coloro che hanno bisogno di noi…

Il mondo e la Chiesa hanno bisogno inoltre della testimonianza gioiosa di una vita semplice e sobria che si accontenta del necessario, che è poco, e lascia il superfluo, che è molto. Questo sorprende e sconcerta in una società di consumismo selvaggio e di tanta menzogna e apparenza. Per il resto, essa esprime un modo di essere senza protagonismo, soprattutto nel tratto di uguaglianza, di ascolto, di rispetto per tutti senza preferenze per i ricchi, per coloro che possono, coloro che sanno, che decidono, e nel lavoro fatto non per denaro o per il prestigio, ma per la promozione integrale della persona e in particolare  per coloro la cui dignità è calpestata e insultata, facendo una decisa opzione preferenziale per i poveri e lottando per la loro promozione affinché vivano nella dignità di figli di Dio che tutti posseggono.

Vedono che siamo capaci di essere presenti là dove la vita è più minacciata, di camminare a fianco dei poveri e degli esclusi, animati dalla forza che deriva dall’incontro unico che genera mistici-profeti, l’incontro personale e comunitario con Cristo vivo che ci chiama a liberare il suo popolo da tante schiavitù antiche e  nuove.

La nostra povertà in chiave di solidarietà e comunione, a partire da una vita sobria e semplice che la renda credibile, è qualcosa che sconcerta, sorprende e suscita ammirazione. È evidente inoltre che la nostra povertà paragonata alla miseria del mondo è più che provocatoria, diventa misteriosa per coloro che ci vengono a vivere vicino.

 

L’obbedienza è una parola svalutata e screditata. L’individualismo è all’ordine del giorno. «Siamo liberi e non  siamo sottoposti a nessuno e a niente».

Questo è ciò che molti dicono. Se alcuni proclamano una libertà crocifissa, molti altri non riescono a vivere come persone libere. Ma l’obbedienza cristiana non si confonde con la sottomissione che mantiene “minorenni” e nemmeno con la passività che ci evita di assumere delle responsabilità. Ma ci sono molti schiavi di se stessi, del denaro, del potere e della sicurezza, di ciò che gli altri diranno, della propria immagine, della religione…

Il mondo e la Chiesa hanno bisogno di un’alternativa nuova nel vivere la libertà che non si confonda con il capriccio, l’anarchia o il libertinaggio perché Dio non vuole degli schiavi, ma dei figli che cercano di compiere in tutto la volontà del Padre. Nell’armonia con la sua volontà e nel vivere come figli sta la nostra felicità. E questo è ciò che vogliono i religiosi: cercare appassionatamente la volontà di Dio che è sempre liberatrice e compierla con passione. E ciò perché vogliono essere veramente liberi: liberi dalle proprie schiavitù e dalla loro dipendenza, liberi dalle strutture paralizzanti, liberi dalle mode che volteggiano sopra il loro capo. E questo perché avvertono che un religioso addomesticato è un progetto frustrato, ma non vogliono nemmeno andare liberi per un sentiero solitario.

 

SCOGLI

DA EVITARE

 

In quanto membri della Chiesa locale dovremmo  conoscerci meglio per stimarci, rispettarci, apprezzarci e desiderarci di più. Le relazioni tra sconosciuti non sono fedeli né profonde. Gli sbagli e le rotture che infrangono o impediscono la comunione ecclesiale sono dovuti in gran parte a una mancanza di conoscenza  reciproca e alla scarsa stima vicendevole.

Credo che non sia azzardato dire che non mancano vescovi, sacerdoti e anche laici che ignorano il significato ecclesiale della vita religiosa. A volte la considerano più per quello che fa che per quello che è. Ma non è la sua funzione profetica, simbolica ed escatologica ciò che veramente sta al cuore della vita religiosa e che costituisce perciò il suo principale e migliore contributo?  Ci sono coloro che la rispettano ma non giungono a scoprire quali sono i valori specifici che questa chiamata ha da offrire al popolo di Dio. Proprio perché non conoscono il carisma caratteristico della vita religiosa, alcuni vescovi non colgono né utilizzano in maniera inadeguata i doni che lo Spirito Santo concede alla Chiesa nelle persone dei religiosi e delle religiose.

Ma anche i religiosi dovrebbero domandarsi: conosciamo e amiamo la nostra chiesa particolare, questa terra madre in cui nasce, si radica e si compie la nostra vocazione e missione? Sanno che il ministero apostolico occupa un posto specifico e strutturante, che garantisce il “concorso” dei diversi carismi nella missione della Chiesa? Abbiamo stima e riconoscenza per questo servizio di conduzione, guida e di presidenza  dei nostri vescovi? (cf. LG 21, 23, 27; CD 15; SC 22, ecc.). Nessun altro ministero svolge nella Chiesa una funzione organica di fecondità (cf. LG 18, 19), di unità (cf. LG 23) e di potestà spirituale (LG 32) così fondamentale e di così grande influsso nell’attività ecclesiale.

È vero che siamo molto lontani dai tempi in cui, a volte, i religiosi  funzionavano come una “chiesa parallela” o, meglio, come un arcipelago di piccole chiese autonome. È vero anche, credo, che in genere (i religiosi) non si considerano oggi superiori al resto dei loro fratelli  e che non si possa affermare realmente ciò che scrisse Lutero, oltre 400 anni fa, ossia che essi si sentono più orgogliosi di essere figli di san Benedetto che di essere dei battezzati.

Ma sarebbe necessario e del tutto desiderabile che i religiosi progredissero maggiormente nella conoscenza e nella stima degli altri, specialmente del carisma e del ministero dei vescovi. Questa mancanza di conoscenza può pregiudicare notevolmente le nostre relazioni e quelle del resto del popolo di Dio. Per questo Mutuae relationes offre  una stringata sintesi  circa il ministero episcopale (6, 8, 20, 34, 44).

D’altra parte l’universalità  inerente alla nostra vocazione non può essere un motivo o un pretesto per sradicarsi dalla chiesa locale in cui si incarna e si sviluppa la nostra disponibilità  universale e la nostra comunione missionaria (VC 47). Anche l’esenzione non costituisce alcun privilegio o scusa per un certo isolamento dalla pastorale di insieme e per un povero incardinamento concreto nella chiesa particolare, ma un dono di disponibilità per tutta la Chiesa. Non costituisce alcun privilegio ma un impegno per un servizio maggiore.

Non c’è mezzo migliore per promuovere la conoscenza reciproca e la comunione ecclesiale di un dialogo costante animato dalla carità (cf. VC 59). Siamo sempre più convinti che le strade del futuro della comunione ecclesiale non passano attraverso il sospetto, la sfiducia e i pregiudizi. Gli atteggiamenti di durezza e di mancanza di trasparenza non portano alla comprensione e alla stima dell’altro. Il dialogo è sempre la miglior medicina preventiva e curativa delle tensioni e dei conflitti. La mancanza e la povertà di dialogo producono abitualmente un indebolimento della comunione ecclesiale per mancanza di conoscenza dell’altro che lo fa diventare un estraneo e rende anonima qualsiasi relazione, oltre a creare vere e proprie situazioni di abbandono degli altri e di solitudine sterile che rendono impossibile la partecipazione attiva e responsabile di tutti in un progetto comune di nuova evangelizzazione.

Questo dialogo deve essere intrapreso a tutti i livelli e con tutti, compresi i laici. È importante che venga favorita ogni istanza di dialogo. Molto importanti sono i consigli pastorali, presbiterali, ecc. Devono non solo funzionare, ma funzionare bene. Sarà di grande aiuto che la Chiesa locale abbia un  progetto che articoli la pastorale d’insieme, elaborato da tutti, nel discernimento e la fraternità, che impegni tutti poiché è di tutti.

 

1 Le riflessioni che qui proponiamo fanno parte di un articolo più lungo di José M. Guerrero, SJ, pubblicato nel n. di giugno 2007 della rivista bimestrale della Conferenza dei religiosi e religiose del Cile, intitolato La Iglesia local y la vida religiosa al servicio del Reino, pp 7-21.

2 MATURA Crear una comunidad religiosa hoy in Vari, La comunidad religiosa, IVR, Madrid, 1972, 301.


UN AMICO SUFI RICORDA P. RAGHEED

ERA L’INNOCENZA  FATTA PERSONA

 

Adnane Mokrani, teologo sufi, ha scritto per l’uccisione del sacerdote iracheno Ragheed questa commossa testimonianza, introdotta da un riepilogo storico degli avvenimenti di Daniela D’Andrea, collaboratrice del CIPAX, centro interconfessionale per la pace.

 

Il 3/06/2007 alla fine della divina liturgia nella chiesa dello Spirito Santo di Mousul, nord Iraq, il parroco, don Ragheed1 e i suoi tre assistenti sono stati vittima di un feroce attentato. Una raffica di proiettili ha stroncato le loro preziose vite davanti gli occhi della comunità incredula e delle mogli degli assistenti. I loro corpi sono stati poi portati in mezzo alla strada e circondati da una serie di bombe al fine di non far giungere loro i primi soccorsi. La chiesa era già stata ripetutamente minacciata e attaccata, ma il suo parroco don Ragheed non aveva ceduto alle minacce. Più erano insistenti, più la comunità si raccoglieva intorno a lui e cresceva.

Ragheed aveva studiato a Roma ospite del Pontificio collegio irlandese e si era licenziato in teologia ecumenica presso l’Angelicum. Aveva ricevuto l’ordinazione sacerdotale sempre in Roma. Durante il suo soggiorno in Italia non aveva mai fatto segreto del suo desiderio di tornare in Iraq, come mai aveva fatto segreto il dolore per il suo paese. Era un giovane brillante, molto intelligente e perspicace, pastore buono dal cuore grande e grande coraggio. Una volta tornato in Iraq è stato uno dei pochi sacerdoti a non lasciare la città e a continuare a pascere il suo gregge e infondere loro il coraggio della verità e della disponibilità al martirio per la pace. Uomo di dialogo sognava sempre l’unità e la pace. La sua improvvisa morte ha lasciato una profonda ferita nella sua chiesa, la chiesa caldea, come in tutta la chiesa irachena. Il nostro amico Adnane, che lo aveva incontrato nel suo soggiorno romano, gli ha dedicato la seguente lettera aperta che vuole essere un ultimo addio e dichiarazione d’amore fraterno, ma anche un testamento spirituale. Perché non si dimentichi! (Daniela D’Andrea).

 

«In nome di Dio, clemente e misericordioso, Ragheed, fratello mio, Ti chiedo perdono, fratello, di non essere stato accanto a te quando i criminali hanno aperto il fuoco su te e i tuoi fratelli, ma le pallottole che hanno trafitto il tuo corpo puro e innocente, hanno trafitto anche il mio cuore e la mia anima.

Tu sei stato una delle prime persone che ho conosciuto al mio arrivo a Roma, nei corridoi dell’Angelicum, dove ci siamo conosciuti e dove abbiamo bevuto assieme il nostro cappuccino nella caffetteria dell’università. Tu mi avevi colpito per la tua innocenza, la tua allegria, il tuo sorriso tenero e puro che non ti lasciava mai. Io non posso che immaginarti sorridente, felice, pieno di gioia di vivere.

Ragheed per me è l’innocenza fatta persona, un’innocenza saggia, che porta nel suo cuore le preoccupazioni del suo popolo infelice. Mi ricordo di quella volta nella mensa dell’università, quando l’Iraq era sotto embargo e tu mi hai detto che il prezzo di un solo cappuccino avrebbe potuto colmare i bisogni di una famiglia irachena per un’intera giornata, come se tu ti sentissi in qualche modo colpevole di essere lontano dal tuo popolo assediato e di non condividerne le sofferenze.

Eccoti di ritorno in Iraq, non solo per condividere con la gente il loro destino di sofferenze, ma anche per unire il tuo sangue a quello delle migliaia di iracheni che muoiono ogni giorno.

Non potrò mai dimenticare il giorno della tua ordinazione all’Urbaniana. Con le lacrime agli occhi, mi avevi detto: “Oggi sono morto per me”. Una frase molto dura. Nell’immediato non avevo ben capito, o forse non l’avevo presa sul serio come avrei dovuto. Ma oggi, attraverso il tuo martirio, l’ho capita questa frase.

Tu sei morto nella tua anima e nel tuo corpo per risuscitare nel tuo Bene amato e nel tuo Maestro e affinché Cristo resusciti in te, malgrado le sofferenze e tristezze, malgrado il caos e la follia.

In nome di quale dio della morte ti hanno ucciso? In nome di quale paganesimo ti hanno crocifisso?... Sapevano veramente quello che facevano?

Oh Dio, noi non ti chiediamo vendetta o rivincita, ma vittoria, vittoria del giusto sul falso, della vita sulla morte, dell’innocenza sulla perfidia, del sangue sulla spada. Il tuo sangue non sarà stato versato invano, caro Ragheed, poiché ha santificato la terra del tuo paese e il tuo sorriso tenero continuerà ad illuminare dal cielo le tenebre delle nostre notti e ad annunciarci un domani migliore.

Ti chiedo scusa, fratello, ma quando i vivi si incontrano, essi credono di avere tutto il tempo per conversare, farsi visita e dirsi i propri sentimenti e i propri pensieri. Tu mi avevi invitato in Iraq... Sogno sempre di visitare la tua casa, i tuoi genitori, il tuo ufficio. Non avrei mai pensato che sarebbe stata la tua tomba che un giorno avrei visitato o che sarebbero stati i versetti del mio Corano che avrei recitato per il riposo della tua anima.

Un giorno, ti ho accompagnato per acquistare degli oggetti ricordo e dei regali per la tua famiglia alla vigilia della tua prima visita in Iraq dopo una lunga assenza. Tu mi avevi parlato del tuo lavoro futuro: “Vorrei guidare la mia gente sulla base della carità prima della giustizia” mi avevi detto. Allora mi era difficile immaginarti come “giudice” canonico. Ma oggi il tuo sangue e il tuo martirio hanno detto la loro parola, verdetto di fedeltà e di pazienza, di speranza contro ogni sofferenza e di sopravvivenza, malgrado la morte, malgrado il nulla.

Fratello, il tuo sangue non è stato versato invano e l’altare della tua chiesa non era una mascherata. Tu hai preso il tuo ruolo con profonda serietà, fino alla fine, con un sorriso che nulla spegnerà. mai.

Il tuo fratello che ti vuole bene

 

Adnane Mokrani

 

 

1 Cf. Testimoni 6, (2007) p. 6.