IL MOTU PROPRIO SULLA MESSA TRIDENTINA

TRA TIMORI E INTERROGATIVI

 

La pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum ha suscitato nella comunità ecclesiale varie reazioni. Molti gli interrogativi e i timori espressi, come risulta da questa raccolta di voci di varia provenienza in ambito italiano. Il problema non è solo la messa tridentina in latino, ma riguarda le stesse riforme del concilio.

 

Il recente Motu proprio di Benedetto XVI Summorum Pontificum (SP) sul messale tridentino, e destinato a entrare in vigore il 14 settembre, ha suscitato non poco dibattito e reazioni assai differenti. Tuttavia per molti la natura, il contenuto di questo documento e le implicazioni che esso comporta non sono a tutti ben chiare. Per questo vorrei offrire una riflessione su questo documento che raccolga le principali “voci” di commento che si sono fatte sentire nelle settimane successive alla sua pubblicazione.

 

LE PRINCIPALI

REAZIONI

 

Una delle prime reazioni al Motu proprio è stata quella del card. Camillo Ruini, vicario del papa per la Diocesi di Roma ed ex-presidente della CEI (Avvenire l’8 luglio 2007) all’indomani dell’uscita del documento pontificio. Il card. Ruini imposta il suo intervento cercando di far comprendere l’autentica finalità di Benedetto XVI nell’emanare SP. Secondo il vicario del papa non si può comprendere questo documento al di fuori della sua finalità esplicitamente affermata di sanare le lacerazioni all’interno della Chiesa. A suo parere «solo ponendosi su questa lunghezza d’onda si può cogliere davvero il senso di SP e si può metterlo in pratica in maniera positiva e feconda». Non sarebbe invece fondata la preoccupazione «che venga intaccata l’autorità del concilio e messa in dubbio la riforma liturgica». Infatti il rito uscito dalla riforma rimane quello “ordinario” e a coloro che sono rimasti «attaccati alla forma precedente del rito romano» viene richiesto «di non escludere per principio la celebrazione secondo il nuovo messale». Solo comprendendo in profondità l’intenzione del documento «si eviterà il rischio che un Motu proprio emanato per unire maggiormente la comunità cristiana sia invece utilizzato per dividerla». In questa ultima espressione del card. Ruini si coglie una preoccupazione di fondo circa gli effetti che il documento potrebbe avere sull’unità della Chiesa. In fondo si afferma che, se non accolto con molto discernimento, il Motu proprio può ottenere l’esito contrario a ciò per cui il papa Benedetto XVI afferma di averlo emanato.

 

I TIMORI

DEL PRIORE DI BOSE

 

Nel medesimo giorno è uscito su La Repubblica un intervento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose. L’autore, non tacendo «la fatica, la sofferenza e la non piena comprensione» di ciò che viene autorevolmente chiesto, afferma che il documento deve essere recepito come «un atto di Benedetto XVI teso a metter fine allo scisma aperto dai lefebvriani e alla “sofferenza” di altri pur restati in comunione con Roma», e non in altre direzioni. Infatti c’è il rischio che molti gruppi possano utilizzare questo documento non secondo le sue autentiche finalità, nascondendosi «dietro i veli della ritualità post-tridentina per non accogliere altre realtà assunte oggi dalla Chiesa, soprattutto attraverso il concilio». Dietro a questi possibili usi impropri del documento di Benedetto XVI sembra esserci oggi «troppa ricerca di segni identitari, troppo gusto per le cose “all’antica”». Inoltre c’è anche il rischio che venga strumentalizzato il Motu proprio solo per “recuperare” gusti personali con la conseguenza di «incoraggiare ciò che Benedetto XVI denuncia come obbedienza alla “dittatura del relativismo”».

In sintesi il priore di Bose mette in guardia da usi di SP che non corrispondano ad un «cammino di riconciliazione e di comunione, ma di rivincita, di condanna dell’altro, di rifiuto di riconoscere le colpe rispettive...», e invita i vescovi a richiedere «a quanti vogliono praticare la messa di Pio V un’accettazione del concilio e della sua riforma liturgica come legittima e conforme alla verità e alla tradizione cattolica». Infatti «l’unità non può essere realizzata a qualsiasi prezzo, né a prescindere dall’autorità del vescovo in comunione con il papa».

 

PERPLESSITÀ

NEL MONDO EBRAICO

 

Nel suo articolo il priore di Bose si interroga con preoccupazione anche sulle ripercussioni in ambito ecumenico e di dialogo con l’ebraismo di SP. Mi sembra significativo fare riferimento ad alcune reazioni di esponenti autorevoli dell’ebraismo italiano. Ciò che maggiormente crea problema nell’ambito del dialogo ebraico cristiano è la presenza nel messale di Pio V della preghiera pro conversione Iudaeorum nella liturgia del venerdì santo. A tale proposito Rav Giuseppe Laras, rabbino capo emerito di Milano e presidente della Assemblea Rabbinica Italiana, ritiene che il Motu proprio di Benedetto XVI sia «un colpo forte» inferto al cammino del dialogo tra ebrei e cristiani dal Vaticano II in poi. In un articolo-intervista (Il Corriere della Sera 10 luglio 2007) il rabbino capo emerito di Milano afferma che il pericolo è duplice, «da una parte i cristiani potrebbero sentirsi incoraggiati a covare sentimenti antisemiti. Dall’altra si favoriscono coloro che hanno sempre remato contro il dialogo sia fra i cattolici sia fra gli ebrei. Un dialogo che era già abbastanza delicato e fragile». Nelle parole di Rav Laras emerge un sentimento di profonda preoccupazione e delusione di un uomo di dialogo che vede messi in pericolo i passi fatti con fatica e impegno negli ultimi quarant’anni. Egli afferma: «Sono preoccupato e deluso ma penso si debba andare avanti. Però ci vuole un chiarimento».

Altro elemento del Motu proprio che fa problema per i rapporti con il mondo ebraico (e non solo) è la quasi totale mancanza nel messale di Pio V di letture tratte dalle Scritture ebraiche. I vescovi USA hanno pubblicato un documento in cui tra le altre cose si fa notare come la percentuale di Antico Testamento letta nel messale tridentino sia pari all’1% contro il 14% del messale di Paolo VI. Questo è realmente un fatto grave che può far crescere nei cristiani cattolici la distanza dalle radici ebraiche del cristianesimo e dal patrimonio comune che ci lega alla fede di Israele.

 

IL PARERE

DEL CARD. MARTINI

 

Più recente, ma non meno significativa, è la reazione del card. Carlo Maria Martini (Il Sole 24 Ore 29 luglio 2007). Egli affronta il tema partendo da una nota auto-biografica. Il cardinale infatti ricorda come lui stesso abbia conosciuto il rito di Pio V e come sia stato proprio questo rito la sua prima esperienza di preghiera liturgica. Tuttavia afferma che, pur «avendo le credenziali per approfittare del recente Motu proprio e ritornare a celebrare la messa con l’antico rito», non lo farà. E spiega in tre punti le motivazioni di questa sua scelta.

Innanzitutto egli ritiene che «con il concilio Vaticano II si sia fatto un bel passo avanti per la comprensione della liturgia e della sua capacità di nutrirci con la parola di Dio, offerta in misura molto più abbondante rispetto a prima». Abusi che possono essere stati compiuti non sono in grado vanificare le acquisizioni del concilio. Infatti, afferma, «bisogna riconoscere che per molta gente la liturgia rinnovata ha costituito una fonte di ringiovanimento interiore e di nutrimento spirituale».

In secondo luogo il cardinale afferma che non “approfitterà” del Motu proprio dal momento che è grato «al concilio Vaticano II perché ha aperto porte e finestre per una vita cristiana più lieta e umanamente più vivibile». Infine, pur ammirando «l’immensa benevolenza del papa che vuole permettere a ciascuno di lodare Dio con forme antiche e nuove», il card. Martini, facendo riferimento alla sua esperienza di pastore, sottolinea «l’importanza di una comunione anche nelle forme di preghiera liturgica che esprimono in un solo linguaggio l’adesione di tutti al mistero altissimo». Del Motu proprio egli ritiene che si debba cogliere in primo luogo «la disponibilità ecumenica a venire incontro a tutti» e auspica un avvenire «di dialogo tra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero».

 

INTERROGATIVI

DI UN TEOLOGO LITURGISTA

 

Infine mi soffermo sull’articolo di Andrea Grillo, teologo liturgista (PIL di Roma e ILP di Padova), pubblicato su Il Regno-Attualità. L’articolo è molto ampio e affronta la lettura di SP da molti punti di vista (giuridico, teologico, pastorale, liturgico). Colgo solamente alcuni dei temi trattati, rimandando a una lettura integrale dell’articolo. Le due questioni che mi paiono particolarmente importanti e originali, rispetto ad altre reazioni al Motu proprio di Benedetto XVI, sono quella giuridica e quella teologica. La prospettiva giuridica riguarda l’affermazione del Papa circa la “non abrogazione” da parte di Paolo VI del messale in uso precedentemente alla riforma, cioè quello di Pio V. A. Grillo rimanda a questo proposito a due documenti. Uno è il Codice di Diritto Canonico (Can. 20) dove si afferma che una legge posteriore abroga quella precedente, l’altro è una “risposta” della Congregazione per il Culto Divino (3 luglio 1999) dove si afferma: «Il messale romano approvato e promulgato per autorità del papa Paolo VI... è l’unica forma in vigore di celebrazione del Santo Sacrificio secondo il Rito Romano, in virtù dell’unico diritto liturgico generale». Si comprende subito come l’affermazione della Lettera ai vescovi che accompagna SP che il messale di Pio V non è mai stato abrogato crea qualche problema. Infatti «una sola forma e un solo uso è vigente, secondo il principio di diritto comune».

Il secondo tema tra quelli trattati da A. Grillo è quello di carattere teologico. Il Motu proprio crea un problema rilevante circa il rapporto tra lex orandi e lex credendi. Infatti «introduce una distinzione originale e carica di conseguenze: il rapporto tra lex orandi e lex credendi è preceduto dal rapporto tra due diversi usi (o espressioni, o forme) rituali e una sola lex orandi. Ciò significa che qui l’espressione lex orandi non si identifica con il rito, ma con il significato del rito stesso». Questo fatto può portare a una «subordinazione della celebrazione a evidenze puramente dogmatiche, di cui i due “usi” costituirebbero traduzioni pratiche meramente conseguenti e per nulla originarie». Infine, un altro rischio evidenziato da A. Grillo: quello che la riforma liturgica, in seguito alla pubblicazione di SP, rischi di vedere potentemente relativizzato il proprio significato e la propria storica portata.

 

POSSIBILI

CONSEGUENZE

 

A partire dalle reazioni del Motu proprio di Benedetto XVI possiamo dire che ci sono almeno due punti su cui tutti hanno voluto attirare l’attenzione delle comunità e dei pastori.

Innanzitutto pare che il timore più diffuso davanti alle possibili conseguenze di SP sia quello che si vengano a creare delle divisioni all’interno delle comunità. Infatti si teme che il documento possa ottenere la finalità contraria a quella per cui il papa Benedetto XVI afferma di averlo emanato.

Il secondo timore che molti hanno in seguito alla pubblicazione di SP riguarda la possibilità che questo documento intacchi l’autorevolezza del Vaticano II. Il papa stesso nella Lettera ai vescovi si sente in dovere di affermare con forza che in nessun modo si vuole mettere in dubbio l’autorità del concilio e la bontà della riforma liturgica. Tuttavia le preoccupazioni in questo senso non sono infondate. Infatti basta considerare quanto segue per accorgersene. Il Vaticano II, nella costituzione Sacrosanctum Concilium (SC), traccia le linee fondamentali di riforma della celebrazione eucaristica. Gli elementi che SC indica per l’opera di riforma liturgica sono: la revisione dell’ordinario della messa (n. 50), una più grande ricchezza biblica (n. 51), l’omelia (n. 52), la preghiera dei fedeli (n. 53), l’introduzione delle lingue nazionali (n. 54), la comunione sotto le due specie (n. 55), l’unità delle due parti della celebrazione (n. 56), la concelebrazione (n. 57-58). Ora nel messale di Pio V nessuno di questi elementi è presente. Proprio per questo si è dovuta fare quella riforma del messale di Pio V di cui il messale di Paolo VI è il risultato. Ora, è veramente possibile liberalizzare l’uso del messale di Pio V senza mettere in serio pericolo la comprensione e l’accoglienza della riforma liturgica e del Vaticano II? Inoltre Pio V porta con sé una concezione di Chiesa diversa da quella del Vaticano II, non “sbagliata”, ma certamente più “ristretta”. A quale “Chiesa” oggi dobbiamo guardare?

Dal 14 settembre in poi l’impegno di tutti dovrà essere quello di fare in modo che questi timori non infondati non divengano reali difficoltà pastorali nelle comunità parrocchiali, religiose e diocesane. Al termine del Vaticano II Romano Guardini affermava con spirito profetico: «se le intenzioni del Concilio verranno poste in atto, si renderanno necessari un giusto insegnamento, ma soprattutto una autentica educazione e l’esercizio per imparare l’atto. Questo è oggi il compito: l’educazione liturgica. Se non viene iniziato, la riforma dei riti e dei testi non gioverà molto». Credo che questo, quello della “formazione liturgica”, sia ancora oggi “il compito” delle comunità cristiane di fronte alle nuove sfide che SP presenta.

 

Matteo Ferrari

monaco di Camaldoli