IL PAPA ALL’AGORÀ DEI GIOVANI A LORETO
“ANDATE CONTROCORRENTE”
Benedetto XVI ha
proposto a oltre 400mila giovani convenuti a Loreto di portare Dio nella piazza
dopo averlo interiorizzato nella casa dell’ascolto, educandosi secondo il
programma di vita controcorrente della Madre e del Figlio, gli umili del
Signore che non cercano il successo ma il bene.
Con parole chiare ed esigenti il papa ha invitato i giovani radunati su iniziativa della Cei presso il “Centro Giovanni Paolo II” nella Piana di Montorso (il luogo di Eurhope 1995), a seguire l’esempio umile della Vergine di Nazaret per nuovi stili di vita. «Non seguite la via dell’orgoglio – ha detto nella messa conclusiva dell’Agorà dei giovani (2/9/07) – bensì quella dell’umiltà.
Andate controcorrente: non ascoltate le voci interessate e suadenti che oggi da molte parti propagandano modelli di vita improntati all’arroganza e alla violenza, alla prepotenza e al successo a ogni costo, all’apparire e all’avere, a scapito dell’essere. Di quanti messaggi, che vi giungono soprattutto attraverso i mass media, voi siete destinatari! Siate vigilanti! Siate critici! Non andate dietro all’onda prodotta da questa potente azione di persuasione. Non abbiate paura, cari amici, di preferire le vie alternative indicate dall’amore vero: uno stile di vita sobrio e solidale; relazioni affettive sincere e pure; un impegno onesto nello studio e nel lavoro; l’interesse profondo per il bene comune. Non abbiate paura di apparire diversi e di venire criticati per ciò che può sembrare perdente o fuori moda: i vostri coetanei, ma anche gli adulti, e specialmente coloro che sembrano più lontani dalla mentalità e dai valori del Vangelo, hanno un profondo bisogno di vedere qualcuno che osi vivere secondo la pienezza di umanità manifestata da Gesù Cristo».
COSTRUIRE CENTRI DI VITA
NELLE PERIFERIE DI MORTE
Affermazioni risuonate con particolare autorevolezza dopo la “catechesi dialogata” il giorno prima (1/9/07) con testimoni che caparbiamente hanno creduto nel dono della fede per uscire da logiche di morte. Giovanna (assistente sociale) e Piero (ingegnere), ventisettenni originari della periferia di Bari, si sentono «gli scarti del processo di globalizzazione». Evocano storie di giovani costretti a emigrare per lavorare, ragazzi di strada, genitori precoci, vite che entrano ed escono di prigione, assassinati per futili motivi e uccisi anche dall’indifferenza del quartiere. Nel silenzio vola la loro domanda fino al papa attentissimo: «A molti di noi giovani di periferia manca un centro, un luogo o persone capaci di dare identità. Siamo spesso senza storia, senza prospettive e perciò senza futuro. Sembra che ciò che aspettiamo veramente non capiti mai. Di qui l’esperienza della solitudine e, a volte, delle dipendenze. Santità, c’è qualcuno o qualcosa per cui possiamo diventare importanti? Com’è possibile sperare, quando la realtà nega ogni sogno di felicità, ogni progetto di vita?». A sua volta Sara, 24 anni, della periferia di Genova dichiara: «Io credo nel Dio che ha toccato il mio cuore, ma sono tante le insicurezze, le domande, le paure che porto dentro. Non è facile parlare di Dio con i miei amici; molti di loro vedono la Chiesa come una realtà che giudica i giovani, che si oppone ai loro desideri di felicità e di amore. Di fronte a questo rifiuto avverto tutta la mia solitudine e vorrei sentire la vicinanza di Dio. Santità, in questo silenzio dov’è Dio?». E infine si fa avanti Ilaria da Roma, oggi sposata e madre di un bimbo di due anni: una vita segnata da un padre assente e violento, dal divorzio dei genitori, dall’anoressia. Grazie a un percorso spirituale e psicologico dice che vuol «dare voce a chi non ha voce, a chi, come me un tempo, non osa più sperare, e porta dentro, soffocato, un grido di aiuto: il Signore ti porta in braccio se ti fai portare».
LA MISSIONE NEL TEMPO
DEGLI AMORI FRAGILI
Cristo al centro e compagnia della fede trovano sintesi proprio nell’esperienza di Maria, la ragazza di Nazaret, la cui famosa statua lauretana ha fatto ingresso fendendo la folla su di una barca infiorata. Seguendola docilmente, ha detto il papa, «scoprirete la bellezza dell’amore, non però di un amore usa-e-getta, passeggero e ingannevole, prigioniero di una mentalità egoista e materialista, ma dell’amore vero e profondo». Nonostante tutto si coltiva anche oggi il sogno di un amore che dia senso pieno al proprio avvenire. «Attorno a noi quanti fallimenti dell’amore! Quante coppie chinano la testa, si arrendono e si separano! Quante famiglie vanno in frantumi! Quanti ragazzi, anche tra voi, hanno visto la separazione e il divorzio dei loro genitori!... Di fronte a tanti fallimenti di amici e parenti nasce un umano timore che può bloccare anche gli spiriti più coraggiosi, ma con Maria possiamo sentire rivolte a noi le parole dell’angelo: “Non temete! Non abbiate paura! Lo Spirito Santo è con voi e non vi abbandona mai. A chi confida in Dio nulla è impossibile”. Ciò vale per chi è destinato alla vita matrimoniale e ancor più per coloro ai quali il Signore propone una vita di totale distacco dai beni della terra per essere a tempo pieno dediti al suo Regno».
Di qui la menzione di padre Giancarlo Bossi. «In lui, ha detto il papa, vorrei salutare e ringraziare tutti coloro che spendono la loro esistenza per Cristo sulle frontiere dell’evangelizzazione. Cari giovani, se il Signore vi chiama a vivere più intimamente al suo servizio, rispondete generosamente. Siatene certi: la vita dedicata a Dio non è mai spesa invano». Proprio padre Bossi (Pime), rapito per 40 giorni, ci sembra il testimone chiave di questo evento (cf. fuoritesto).
UNA CASA FATTA
CON TRE PARETI
Le sue parole riportano al tema cruciale del nascondimento in un momento di massima visibilità come la Veglia stessa.1 Il pontefice gli fa eco nell’omelia, ricordando ciò che rende possibile l’impossibile: «Qui, il nostro pensiero va naturalmente alla Santa Casa di Nazaret che è il santuario dell’umiltà: l’umiltà di Dio che si è fatto carne, si è fatto piccolo, e l’umiltà di Maria che l’ha accolto nel suo grembo; l’umiltà del Creatore e l’umiltà della creatura. Da questo incontro di umiltà è nato Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo… Questa prospettiva indicata dalle Scritture appare oggi quanto mai provocatoria per la cultura e la sensibilità dell’uomo contemporaneo. L’umile è percepito come un rinunciatario, uno sconfitto, uno che non ha nulla da dire al mondo. Invece questa è la via maestra, e non solo perché l’umiltà è una grande virtù umana, ma perché, in primo luogo, rappresenta il modo di agire di Dio stesso. È la via scelta da Cristo, il mediatore della nuova alleanza, il quale, “apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8)».
L’agorà di Loreto ha finito per mostrare così alcuni paradossi di una evangelizzazione che si misura con la modernità borghese. Si chiede ai giovani di uscire dall’omologazione e sul palco abbiamo attori bellissimi che sembrano appena usciti dalle fiction; si indicano loro ideali di servizio e sobrietà mentre si ripropone il consumismo musicale di alcuni big della canzone (significativa l’assenza del papa allo spettacolo serale); si inneggia alla creatività della vita e si è costretti a proporre, stretti nella logica dello show, un racconto fatto di accattivanti messaggi preconfezionati; si cerca di far combaciare la Buona Notizia con l’emergente diffidenza verso una Chiesa ancora in imbarazzo a misurarsi con stili e linguaggi dei sempre più giovani papa-boys.2 Ci sembra opportuna quindi la scelta del papa di distinguere il momento del messaggio da quello dello spettacolo. Una preoccupazione (sottolinea Accattoli sul Corriere della sera) da papa teologo, che appunto vuole distinguere mentre il papa missionario tendeva innanzitutto a comunicare. Benedetto XVI perciò ha ricordato all’Angelus che ogni agorà, ogni momento pubblico, ha bisogno di una casa, di un luogo di contemplazione: «C’è un legame reciproco tra la piazza e la casa… Per portare Dio nella piazza, bisogna averlo prima interiorizzato nella casa, come Maria nell’Annunciazione. E viceversa, la casa è aperta sulla piazza: lo suggerisce anche il fatto che la Santa Casa di Loreto ha tre pareti, non quattro: è una casa aperta, aperta sul mondo, sulla vita».
In questo senso i giovani sono chiamati a riscoprire la Chiesa come realistico impegno quotidiano a costruire la comunione e l’unità. «Nella Chiesa impariamo ad amare educandoci all’accoglienza gratuita del prossimo, all’attenzione premurosa verso chi è in difficoltà, i poveri e gli ultimi. La motivazione fondamentale che unisce i credenti in Cristo, non è il successo ma il bene, un bene che è tanto più autentico quanto più è condiviso, e che non consiste prima di tutto nell’avere o nel potere ma nell’essere». Nella Chiesa ma per la crescita della terra: i giovani sono chiamati in particolare alla salvaguardia del creato, con scelte coraggiose che sappiano ricreare una forte alleanza tra l’uomo e la terra. Quest’anno l’attenzione è puntata sull’acqua, un bene preziosissimo che è già motivo di tensioni e conflitti. Con sms intanto si raccolgono soldi per l’Etiopia.
Ci sembra che i 72 giovani che, a nome di tutti, hanno ricevuto il mandato finale così evangelizzino noi adulti!
1 L’incontro di Loreto si inserisce in un percorso pastorale triennale. Nel marzo 2006, il Consiglio permanente della CEI ha approvato la griglia di attenzione al mondo giovanile: l’Agorà dei giovani italiani. Per promuovere nuovo slancio della pastorale giovanile, maggiore soggettività delle nuove generazioni nella missione. Il primo anno (06-07) dedicato all’ascolto sulle piste del Convegno di Verona: relazioni affettive, esperienze di fragilità, impegni di cittadinanza; dinamiche studio-lavoro-festa; rapporti con le altre generazioni. Il secondo anno (07-08) culminante nella GMG di Sydney 2008: la missione va vissuta non come cattura dei giovani, ma come gioiosa comunicazione della bellezza di un incontro. Il terzo anno (08-09) dedicato alla dimensione culturale e sociale dell’evangelizzazione. Tutto l’itinerario si concluderà nelle diocesi, nei luoghi di preghiera tradizionali ma anche in qualche “nuovo santuario” (centri commerciali, stazioni, cinema, piazze, stadi, luoghi dell’emarginazione...).
2 Un ponte lungo 90 metri e alto 15 ospita i momenti dell’evento. Il palco è in continuità con il percorso iconografico di Loreto 2004 e Bari 2006: nel primo ci fu la centralità della croce e nel secondo la sintesi dell’ellisse. Quest’anno il cardine è l’arco. Insieme alla forma circolare ci sono poi altri due richiami: l’acqua, chiave di tutto l’incontro (Giornata del Creato), e l’ottagono simbolo del fonte battesimale. Alle spalle della zona liturgica un primo fondale composto da fitta ramificazione (Albero della Vita), che lascia intravedere il fondale finale (lamelle bianche vibranti come fili di un’unica corda).
3 Di notte, luogo preferito, i giovani sono stati invitati a originali laboratori di ascolto e spiritualità: otto «fontane di luce» disposte a emiciclo formano un’agorà. La prima è «Maria fonte di salvezza» (spazio dedicato alla preghiera), poi la «Fontana dell’Eucaristia», una «Fontana della Riconciliazione». Ancora, una «Fontana dell’ascolto», con esperti disponibili ad ascoltare le storie, la «Fontana dell’amore vero» per chi vive un’esperienza di coppia, una «Fontana della vocazione», una «Fontana del creato» e, infine, una «Fontana del dialogo».
TESTIMONIANZA
DI P. BOSSI
Missionario del Pime nelle Filippine da 27 anni, era stato rapito il 10
giugno scorso da un gruppo armato, e liberato dopo 40 giorni di grande
sofferenza. Di seguito la sua testimonianza.
«Santo Padre, sono felice di essere con lei questa sera per dire il mio grazie: a Dio per aver ancora una volta tenuta amorosamente la mia vita nelle sue mani; a lei per avermi portato nel suo cuore di padre durante il mio sequestro; a tutti questi giovani perché con la loro preghiera e il loro amore mi hanno dato il coraggio di rimanere fedele a Cristo, alla sua Chiesa, alla mia vocazione missionaria e alla gente a cui appartengo. Grazie in nome di Dio.
Mai avrei pensato nella mia vita di trovarmi di fronte a tanti giovani. Chiedo scusa se mi vedete impacciato. La parola non è il mio forte. Sono convinto che ciascuno di noi ha un sogno da realizzare. Ciascuno di noi ha qualche cosa da dire. Non solo con le parole, c’è anche chi si esprime con gesti, chi nel silenzio solidale, chi con un sorriso. L’importante è mantenere vivo il sogno della vita. L’importante è volare! Ragazzi, fatevi rapire dai vostri ideali! Io ho iniziato a sognare quando ho deciso di entrare in seminario, ho continuato il mio sogno durante la mia ordinazione sacerdotale, l’ho vissuto nelle Filippine per tantissimi anni. L’ho toccato con mano durante i giorni del mio rapimento.
Sono un missionario, dico un povero missionario, uno delle migliaia di preti impegnati in tutti i paesi poveri del mondo. Vivo nelle Filippine da 27 anni. Continuerò a farlo. Spero. Questa storia non mi cambia, non mi cambierà. Anzi, no, qualcosa di diverso c’è: ho smesso di fumare e spero di non riprendere. La mia avventura è iniziata il 10 giugno, festa del Corpus Domini, una festa a cui tengo molto. Avevo detto messa alle 7.00 nella chiesa di Payao, poi ero salito sulla moto per andare a un’altra celebrazione.
Ho visto questi uomini in divisa, con i mitra. Pensavo fossero dell’esercito. Poi ho capito, ma la frittata ormai era fatta. Mi avevano preso. Ricordo che quando stavo salendo sulla barca con loro il mio primo pensiero è andato alla gente della mia parrocchia in Payao. Durante il lungo viaggio in mare, coperto da un telone, mi sono chiesto che cosa il Padre mi chiedeva. È così sono iniziati i 40 giorni di prigionia. Ho patito la fame, tantissimo, e la fatica. Ma non ho mai avuto paura di morire. Cercavo di parlare con i miei rapitori. Ho chiesto loro: «Voi pregate come me il Dio della Pace. Com’è che lo fate col mitra alla sinistra e un sequestrato alla destra?» Mi hanno risposto che Allah è nel cuore. Il rapimento è lavoro. Pagati per eseguire un rapimento, l’hanno fatto.
Sono stato per quaranta giorni sulle montagne. Mi ci hanno portato con forza. Però ho visto attorno a me persone povere, spaventate. Persone che volevano farsi forza tenendo tra le mani un fucile. Per loro ho provato compassione. Ho cercato anche di mettermi nei loro panni. Anche in loro ho visto la bontà di Dio. Quel Dio che ti prende per mano e che non ti lascia solo. Quel Dio che ti fa superare le paure e che entra in rapporto con te chiedendoti la totale disponibilità. Durante i quaranta giorni del mio deserto nella foresta mi sono sentito rinnovare. La mia preghiera è diventata più essenziale e forte. La mia disponibilità a Dio più incisiva. Nelle difficoltà con forza si sperimenta la tenerezza di Dio. Ti fa recuperare la dimensione del tuo essere dono. In quel momento ho chiesto al Padre di mandare un prete a Payao, che sapesse amare la gente di Payao.
I miei rapitori erano tutti giovanissimi, intorno ai vent’anni. Ho capito che avevano già ucciso. Cercavo di capire con le mie domande, di fissare un dialogo con i rapitori. Mi sono reso conto che anche loro sono dei poveri diavoli, abbrutiti più dalla povertà che dalla volontà di fare del male. Dall’esterno non arrivava nessuna notizia. I giorni passavano e mi sentivo scoraggiato. Col rosario mi tenevo aggiornato sulle date, ma la conta è stata estenuante. Temevo che il rapimento sarebbe durato 3, 4 mesi, così quando mi hanno detto che mi avrebbero lasciato andare non ci ho mai creduto. Pensavo mi prendessero in giro. Invece, mi hanno liberato. Il 19 luglio.
Ho voluto telefonare subito a casa, per rassicurare la mia mamma, che proprio quel giorno ha compiuto 87 anni. È stata una telefonata d’istinto, di pancia. Sono in Italia da qualche settimana ormai, ma voglio tornare il prima possibile dalla mia parrocchia di Payao, dai miei bambini. I poveri hanno bisogno di persone capaci di amare senza limiti o condizioni, e a Payao la gente è povera. Io sono stato sequestrato fisicamente, ma sono troppi coloro che sono sotto sequestro della povertà. La loro prigionia può durare una vita. Qui, in Italia, mi capita di sentire dei bambini o anche dei grandi che, di fronte al cibo, dicono: «Che schifo!». Nelle Filippine vedo i loro coetanei frugare nella spazzatura e ringraziare Dio se trovano qualcosa. C’è una distorsione profonda in tutto questo. Qui c’è bisogno di recuperare i valori, là nelle Filippine delle condizioni di vita più umane.
Ma permettetemi un ultimo pensiero: mi sono chiesto molte volte il perché del mio rapimento, perché proprio a me, che amo lavorare nel nascondimento e mi son detto che ci sono molte persone che non vogliono pubblicità ma che nel segreto ogni giorno si prendono cura delle persone ammalate e sofferenti. Io sono qui per loro. La loro testimonianza dà forza ai nostri sogni, perciò chiedo a voi di applaudire a queste persone. Questo applauso è per loro!».
IL CONTENUTO
DEL “MOTU PROPRIO”
Summorum pontificum (SP) è costituito da dodici articoli nei quali viene offerta una serie di norme circa la possibilità di celebrare l’Eucaristia con il messale di Pio V nell’edizione pubblicata da Giovanni XXIII nel 1962. Innanzitutto SP afferma che il messale di Paolo VI «è l’espressione ordinaria della lex orandi (legge della preghiera)», mentre il messale di Pio V ed. 1962 «deve venir considerato come espressione extraordinaria della stessa lex orandi. Secondo SP il messale di Pio V e quello di Paolo VI sono quindi «due usi del medesimo rito» (art. 1). Il Motu proprio dispone che nelle “messe celebrate senza popolo” senza bisogno di alcun permesso «ogni sacerdote di rito latino», «eccettuato nel Triduo Sacro» (art. 4), possa usare o l’uno o l’altro messale a sua scelta (art. 2). A queste “messe private” possono partecipare anche i fedeli che lo desiderano. Per le celebrazioni “con il popolo” SP stabilisce che nelle comunità religiose si possa scegliere tra l’uno o l’altro messale e la cosa «deve essere decisa dai superiori maggiori» (art. 3); nelle parrocchie invece si può usare il messale di Pio V se «esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione» (art. 5 § 1). In questo caso il parroco deve accogliere volentieri la loro richiesta e non è tenuto a sentire il parere del vescovo diocesano. Tutto deve avvenire «evitando discordia e favorendo l’unità di tutta la Chiesa». Oltre alla celebrazione eucaristica, anche «matrimoni, esequie… pellegrinaggi» possono seguire la «forma extraordinaria» (art. 5 § 3). Così pure i sacramenti del battesimo, del matrimonio, della penitenza e dell’unzione degli infermi possono essere celebrati con il rito precedente a discrezione del parroco (art. 9, §. 1); gli Ordinari possono celebrare con il rito precedente la Confermazione (§ 2). Inoltre i chierici possono usare anche il Breviario Romano promulgato nel 1962 per la celebrazione della liturgia delle ore (§ 3). Se i fedeli che ne hanno il diritto non trovano accoglienza delle loro richieste presso il loro parroco possono ricorrere sia al vescovo diocesano che alla commissione Ecclesia Dei (art. 7 e 8). Infine si afferma che quanto stabilito dal Motu proprio entrerà in vigore il 14 settembre.
IL MOTU PROPRIO SULLA MESSA TRIDENTINA
TRA TIMORI E INTERROGATIVI
La pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum ha suscitato nella comunità ecclesiale varie
reazioni. Molti gli interrogativi e i timori espressi, come risulta da questa
raccolta di voci di varia provenienza in ambito italiano. Il problema non è
solo la messa tridentina in latino, ma riguarda le stesse riforme del concilio.
Il recente Motu proprio di Benedetto XVI Summorum Pontificum (SP) sul messale tridentino, e destinato a entrare in vigore il 14 settembre, ha suscitato non poco dibattito e reazioni assai differenti. Tuttavia per molti la natura, il contenuto di questo documento e le implicazioni che esso comporta non sono a tutti ben chiare. Per questo vorrei offrire una riflessione su questo documento che raccolga le principali “voci” di commento che si sono fatte sentire nelle settimane successive alla sua pubblicazione.
LE PRINCIPALI
REAZIONI
Una delle prime reazioni al Motu proprio è stata quella del card. Camillo Ruini, vicario del papa per la Diocesi di Roma ed ex-presidente della CEI (Avvenire l’8 luglio 2007) all’indomani dell’uscita del documento pontificio. Il card. Ruini imposta il suo intervento cercando di far comprendere l’autentica finalità di Benedetto XVI nell’emanare SP. Secondo il vicario del papa non si può comprendere questo documento al di fuori della sua finalità esplicitamente affermata di sanare le lacerazioni all’interno della Chiesa. A suo parere «solo ponendosi su questa lunghezza d’onda si può cogliere davvero il senso di SP e si può metterlo in pratica in maniera positiva e feconda». Non sarebbe invece fondata la preoccupazione «che venga intaccata l’autorità del concilio e messa in dubbio la riforma liturgica». Infatti il rito uscito dalla riforma rimane quello “ordinario” e a coloro che sono rimasti «attaccati alla forma precedente del rito romano» viene richiesto «di non escludere per principio la celebrazione secondo il nuovo messale». Solo comprendendo in profondità l’intenzione del documento «si eviterà il rischio che un Motu proprio emanato per unire maggiormente la comunità cristiana sia invece utilizzato per dividerla». In questa ultima espressione del card. Ruini si coglie una preoccupazione di fondo circa gli effetti che il documento potrebbe avere sull’unità della Chiesa. In fondo si afferma che, se non accolto con molto discernimento, il Motu proprio può ottenere l’esito contrario a ciò per cui il papa Benedetto XVI afferma di averlo emanato.
I TIMORI
DEL PRIORE DI BOSE
Nel medesimo giorno è uscito su La Repubblica un intervento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose. L’autore, non tacendo «la fatica, la sofferenza e la non piena comprensione» di ciò che viene autorevolmente chiesto, afferma che il documento deve essere recepito come «un atto di Benedetto XVI teso a metter fine allo scisma aperto dai lefebvriani e alla “sofferenza” di altri pur restati in comunione con Roma», e non in altre direzioni. Infatti c’è il rischio che molti gruppi possano utilizzare questo documento non secondo le sue autentiche finalità, nascondendosi «dietro i veli della ritualità post-tridentina per non accogliere altre realtà assunte oggi dalla Chiesa, soprattutto attraverso il concilio». Dietro a questi possibili usi impropri del documento di Benedetto XVI sembra esserci oggi «troppa ricerca di segni identitari, troppo gusto per le cose “all’antica”». Inoltre c’è anche il rischio che venga strumentalizzato il Motu proprio solo per “recuperare” gusti personali con la conseguenza di «incoraggiare ciò che Benedetto XVI denuncia come obbedienza alla “dittatura del relativismo”».
In sintesi il priore di Bose mette in guardia da usi di SP che non corrispondano ad un «cammino di riconciliazione e di comunione, ma di rivincita, di condanna dell’altro, di rifiuto di riconoscere le colpe rispettive...», e invita i vescovi a richiedere «a quanti vogliono praticare la messa di Pio V un’accettazione del concilio e della sua riforma liturgica come legittima e conforme alla verità e alla tradizione cattolica». Infatti «l’unità non può essere realizzata a qualsiasi prezzo, né a prescindere dall’autorità del vescovo in comunione con il papa».
PERPLESSITÀ
NEL MONDO EBRAICO
Nel suo articolo il priore di Bose si interroga con preoccupazione anche sulle ripercussioni in ambito ecumenico e di dialogo con l’ebraismo di SP. Mi sembra significativo fare riferimento ad alcune reazioni di esponenti autorevoli dell’ebraismo italiano. Ciò che maggiormente crea problema nell’ambito del dialogo ebraico cristiano è la presenza nel messale di Pio V della preghiera pro conversione Iudaeorum nella liturgia del venerdì santo. A tale proposito Rav Giuseppe Laras, rabbino capo emerito di Milano e presidente della Assemblea Rabbinica Italiana, ritiene che il Motu proprio di Benedetto XVI sia «un colpo forte» inferto al cammino del dialogo tra ebrei e cristiani dal Vaticano II in poi. In un articolo-intervista (Il Corriere della Sera 10 luglio 2007) il rabbino capo emerito di Milano afferma che il pericolo è duplice, «da una parte i cristiani potrebbero sentirsi incoraggiati a covare sentimenti antisemiti. Dall’altra si favoriscono coloro che hanno sempre remato contro il dialogo sia fra i cattolici sia fra gli ebrei. Un dialogo che era già abbastanza delicato e fragile». Nelle parole di Rav Laras emerge un sentimento di profonda preoccupazione e delusione di un uomo di dialogo che vede messi in pericolo i passi fatti con fatica e impegno negli ultimi quarant’anni. Egli afferma: «Sono preoccupato e deluso ma penso si debba andare avanti. Però ci vuole un chiarimento».
Altro elemento del Motu proprio che fa problema per i rapporti con il mondo ebraico (e non solo) è la quasi totale mancanza nel messale di Pio V di letture tratte dalle Scritture ebraiche. I vescovi USA hanno pubblicato un documento in cui tra le altre cose si fa notare come la percentuale di Antico Testamento letta nel messale tridentino sia pari all’1% contro il 14% del messale di Paolo VI. Questo è realmente un fatto grave che può far crescere nei cristiani cattolici la distanza dalle radici ebraiche del cristianesimo e dal patrimonio comune che ci lega alla fede di Israele.
IL PARERE
DEL CARD. MARTINI
Più recente, ma non meno significativa, è la reazione del card. Carlo Maria Martini (Il Sole 24 Ore 29 luglio 2007). Egli affronta il tema partendo da una nota auto-biografica. Il cardinale infatti ricorda come lui stesso abbia conosciuto il rito di Pio V e come sia stato proprio questo rito la sua prima esperienza di preghiera liturgica. Tuttavia afferma che, pur «avendo le credenziali per approfittare del recente Motu proprio e ritornare a celebrare la messa con l’antico rito», non lo farà. E spiega in tre punti le motivazioni di questa sua scelta.
Innanzitutto egli ritiene che «con il concilio Vaticano II si sia fatto un bel passo avanti per la comprensione della liturgia e della sua capacità di nutrirci con la parola di Dio, offerta in misura molto più abbondante rispetto a prima». Abusi che possono essere stati compiuti non sono in grado vanificare le acquisizioni del concilio. Infatti, afferma, «bisogna riconoscere che per molta gente la liturgia rinnovata ha costituito una fonte di ringiovanimento interiore e di nutrimento spirituale».
In secondo luogo il cardinale afferma che non “approfitterà” del Motu proprio dal momento che è grato «al concilio Vaticano II perché ha aperto porte e finestre per una vita cristiana più lieta e umanamente più vivibile». Infine, pur ammirando «l’immensa benevolenza del papa che vuole permettere a ciascuno di lodare Dio con forme antiche e nuove», il card. Martini, facendo riferimento alla sua esperienza di pastore, sottolinea «l’importanza di una comunione anche nelle forme di preghiera liturgica che esprimono in un solo linguaggio l’adesione di tutti al mistero altissimo». Del Motu proprio egli ritiene che si debba cogliere in primo luogo «la disponibilità ecumenica a venire incontro a tutti» e auspica un avvenire «di dialogo tra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero».
INTERROGATIVI
DI UN TEOLOGO LITURGISTA
Infine mi soffermo sull’articolo di Andrea Grillo, teologo liturgista (PIL di Roma e ILP di Padova), pubblicato su Il Regno-Attualità. L’articolo è molto ampio e affronta la lettura di SP da molti punti di vista (giuridico, teologico, pastorale, liturgico). Colgo solamente alcuni dei temi trattati, rimandando a una lettura integrale dell’articolo. Le due questioni che mi paiono particolarmente importanti e originali, rispetto ad altre reazioni al Motu proprio di Benedetto XVI, sono quella giuridica e quella teologica. La prospettiva giuridica riguarda l’affermazione del Papa circa la “non abrogazione” da parte di Paolo VI del messale in uso precedentemente alla riforma, cioè quello di Pio V. A. Grillo rimanda a questo proposito a due documenti. Uno è il Codice di Diritto Canonico (Can. 20) dove si afferma che una legge posteriore abroga quella precedente, l’altro è una “risposta” della Congregazione per il Culto Divino (3 luglio 1999) dove si afferma: «Il messale romano approvato e promulgato per autorità del papa Paolo VI... è l’unica forma in vigore di celebrazione del Santo Sacrificio secondo il Rito Romano, in virtù dell’unico diritto liturgico generale». Si comprende subito come l’affermazione della Lettera ai vescovi che accompagna SP che il messale di Pio V non è mai stato abrogato crea qualche problema. Infatti «una sola forma e un solo uso è vigente, secondo il principio di diritto comune».
Il secondo tema tra quelli trattati da A. Grillo è quello di carattere teologico. Il Motu proprio crea un problema rilevante circa il rapporto tra lex orandi e lex credendi. Infatti «introduce una distinzione originale e carica di conseguenze: il rapporto tra lex orandi e lex credendi è preceduto dal rapporto tra due diversi usi (o espressioni, o forme) rituali e una sola lex orandi. Ciò significa che qui l’espressione lex orandi non si identifica con il rito, ma con il significato del rito stesso». Questo fatto può portare a una «subordinazione della celebrazione a evidenze puramente dogmatiche, di cui i due “usi” costituirebbero traduzioni pratiche meramente conseguenti e per nulla originarie». Infine, un altro rischio evidenziato da A. Grillo: quello che la riforma liturgica, in seguito alla pubblicazione di SP, rischi di vedere potentemente relativizzato il proprio significato e la propria storica portata.
POSSIBILI
CONSEGUENZE
A partire dalle reazioni del Motu proprio di Benedetto XVI possiamo dire che ci sono almeno due punti su cui tutti hanno voluto attirare l’attenzione delle comunità e dei pastori.
Innanzitutto pare che il timore più diffuso davanti alle possibili conseguenze di SP sia quello che si vengano a creare delle divisioni all’interno delle comunità. Infatti si teme che il documento possa ottenere la finalità contraria a quella per cui il papa Benedetto XVI afferma di averlo emanato.
Il secondo timore che molti hanno in seguito alla pubblicazione di SP riguarda la possibilità che questo documento intacchi l’autorevolezza del Vaticano II. Il papa stesso nella Lettera ai vescovi si sente in dovere di affermare con forza che in nessun modo si vuole mettere in dubbio l’autorità del concilio e la bontà della riforma liturgica. Tuttavia le preoccupazioni in questo senso non sono infondate. Infatti basta considerare quanto segue per accorgersene. Il Vaticano II, nella costituzione Sacrosanctum Concilium (SC), traccia le linee fondamentali di riforma della celebrazione eucaristica. Gli elementi che SC indica per l’opera di riforma liturgica sono: la revisione dell’ordinario della messa (n. 50), una più grande ricchezza biblica (n. 51), l’omelia (n. 52), la preghiera dei fedeli (n. 53), l’introduzione delle lingue nazionali (n. 54), la comunione sotto le due specie (n. 55), l’unità delle due parti della celebrazione (n. 56), la concelebrazione (n. 57-58). Ora nel messale di Pio V nessuno di questi elementi è presente. Proprio per questo si è dovuta fare quella riforma del messale di Pio V di cui il messale di Paolo VI è il risultato. Ora, è veramente possibile liberalizzare l’uso del messale di Pio V senza mettere in serio pericolo la comprensione e l’accoglienza della riforma liturgica e del Vaticano II? Inoltre Pio V porta con sé una concezione di Chiesa diversa da quella del Vaticano II, non “sbagliata”, ma certamente più “ristretta”. A quale “Chiesa” oggi dobbiamo guardare?
Dal 14 settembre in poi l’impegno di tutti dovrà essere quello di fare in modo che questi timori non infondati non divengano reali difficoltà pastorali nelle comunità parrocchiali, religiose e diocesane. Al termine del Vaticano II Romano Guardini affermava con spirito profetico: «se le intenzioni del Concilio verranno poste in atto, si renderanno necessari un giusto insegnamento, ma soprattutto una autentica educazione e l’esercizio per imparare l’atto. Questo è oggi il compito: l’educazione liturgica. Se non viene iniziato, la riforma dei riti e dei testi non gioverà molto». Credo che questo, quello della “formazione liturgica”, sia ancora oggi “il compito” delle comunità cristiane di fronte alle nuove sfide che SP presenta.
Matteo Ferrari
monaco di Camaldoli
LA VC NELLA CHIESA LOCALE
UNA SCUOLA DELLO SPIRITO
Ogni comunità deve
essere una scuola dello Spirito, dei valori trascendenti, del significato
ultimo della vita. Bisogna calare nel cuore ciò che un giorno abbiamo
liberamente scelto. Purtroppo a volte rimaniamo molto lontani dalla realtà e
invece di rivelare il volto del Padre, lo nascondiamo.
Può darsi che ci siano ancora tra di noi alcuni religiosi/e che sono entusiasti dei numeri (“siamo in tanti”), sono affascinati dai titoli e incantati dalla lista interminabile di attività che realizzano (ciò li fa sentire importanti e prestigiosi). Ma a molti religiosi e religiose l’unica cosa che interessa realmente e a cui mirano non sono le difficoltà; è la loro vita personale fatta di apertura e docilità allo Spirito, di passione per Cristo e per la sua causa, di gratuità, abbandono e fiducia nell’azione dello Spirito. Così hanno vissuto i nostri fondatori, per questo ci sorprendono e ci stupiscono e sono per noi ispirazione, forza e strada da percorrere. Non ci è consentito di agire in altra maniera.1
Per questa ragione penso che la vita religiosa debba essere profondamente radicata nell’incontro fatto di ammirazione e di entusiasmo per Gesù e Gesù incarnato che oggi chiama a seguirlo con tutto il cuore e a tempo pieno, trasformando coloro che sono chiamati, nella loro fragilità umana, «in memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato davanti al Padre e agli uomini» (VC, 22).
Senza questa esperienza teologale, senza questa relazione personale, ogni volta più esigente e gratificante con Gesù, il Signore, senza questa seduzione non si giustifica neanche una sola iniziativa nella vita religiosa. Bisogna che i religiosi e le religiose si presentino come “un ricordo provocatorio di Gesù; che in essi si veda, si ascolti Gesù, e attraverso di loro si renda presente e operi. Il volgersi radicalmente a Gesù è necessario affinché la vita religiosa recuperi originalità, credibilità e fecondità.
E in un mondo inebriato di tecnica ma anoressico di Dio, i religiosi e le religiose vogliono essere un’offerta gratuita dell’esperienza di Dio, del significato della vita, della gioia di vivere in fraternità, di donarsi senza condizioni e restrizioni. Nel mondo sovrabbondano esperti in ogni campo, ma ad esso mancano testimoni della misericordia e tenerezza di Dio. Ogni comunità deve proporsi di essere come una scuola dello Spirito, dei valori trascendenti, del significato ultimo della vita. Tutto ciò costituisce una grande sfida per noi. Bisogna passare dal progetto illusorio alla storia concreta di ogni giorno. Bisogna calare nel cuore ciò che un giorno abbiamo liberamente scelto. Purtroppo a volte rimaniamo molto lontani dalla realtà e invece di rivelare il volto del Padre, lo nascondiamo. Ma questo non toglie la verità della nostra missione.
FRATERNITÀ
UNA PROFEZIA VIVA
La gente ha una grande fame di amore, di comprensione, di solidarietà e di riconciliazione, di pace e di gioia. Quanti volti appassiti per tanta freddezza ed emarginazione! In ogni parte camminano folle solitarie senza orientamento e senza speranza. Il nostro mondo ha bisogno di “anima”, di “cuore”. Se non vogliamo che la nostra vita si raggeli bisogna che si moltiplichino i focolari, ossia gli spazi di calore umano, di incontro e di accoglienza, di sostegno stimolante, di serenità e perdono, in cui possiamo essere ascoltati senza fretta e in cui condividere con qualcuno ciò che portiamo dentro: inquietudini, speranze, dolori e gioie.
Il nostro mondo lacerato da rivalità e violenze di ogni genere e frammentato per etnie, ideologie e religioni… ha bisogno di un ambiente “ecologico” – quale dovrebbe essere la comunità religiosa – in cui ossigenare l’anima e dove si vivono relazioni umanizzatrici: calorose e aperte, piene di comprensione, di sofferenza amorosa, di accoglienza dell’altro, del diverso, di perdono e di gioia.
Le persone, pur con le loro particolarità sono il bene più grande che possiedono le nostre comunità, incluse le loro stravaganze.
«Se la comunità religiosa è la matrice da cui nascono e giungono alla loro pienezza persone liberate da se stesse, dalle loro chiusure, egoismi, scoraggiamenti, da ciò che le tiene in schiavitù, unite e serene, gioiose nell’attesa del futuro, fratelli di tutti, quale segno di speranza si aprirebbe per tutto il mondo!
Le gente vedrebbe che il sogno di un mondo migliore in cui ognuno sia fratello dell’altro, non è un’utopia impossibile, ma può essere un inizio di realizzazione. E tutto questo perché alcuni hanno creduto in Cristo e alle sue promesse, perché hanno accettato di essere interpellati dallo Spirito e accesi del fuoco che purifica».2
La chiamata evangelica in cui maggiormente si riconoscono i religiosi consiste nella rottura dei modi abituali di stabilire delle relazioni tra le gente. I vincoli di sangue o i sentimenti spontanei come il sistema di interessi personali, benché legittimi, sono superati dal criterio della fede, dal “per causa mia” di Gesù. La vita religiosa fa una proposta nuova di relazioni umane e consiste nel fatto che uomini e donne, così diversi per cultura, formazione, personalità, età, ecc. si sentono così uniti nell’amore che li convoca a vivere come fratelli, senza riserve né discriminazioni di nessuno. Non c’è qui un contributo profetico enormemente stimolante, come ha riconosciuto con riconoscenza Giovanni Paolo II?
Le nostre comunità dovrebbero essere come quegli spazi verdi nelle città dove si respira aria di Dio e di umanità con cui contagiare l’ambiente che ci circonda e così liberare dal tanto smog dell’individualismo, dalla mancanza di solidarietà e dall’indifferenza le nostre relazioni umane.
LA NOSTRA OFFERTA
DAL NOSTRO STILE DI VITA
Nel supermercato di un mondo pieno di offerte, la nostra dovrà essere di grande qualità evangelica. Altrimenti si corre il rischio che sia una in più, guardata con semplice curiosità o rispettosa indifferenza.
A noi è toccato di vivere in un mondo così bombardato di erotismo da aver bisogno di qualcuno in carne ed ossa, come tutti, che lo aiuti a riscattare l’amore e la sessualità da ogni banalizzazione. Nella nostra società l’aspetto sessuale è esaltato, fomentato, esibito. I miti attuali hanno spogliato la sessualità del suo aspetto profondamente umano. Essa è diventata un modo di divertirsi, un fatto insignificante e spersonalizzato, una merce di consumo.
Il mondo e la Chiesa hanno bisogno dell’eloquente testimonianza del valore del celibato, vale a dire, di persone celibi per Gesù e il suo Regno che si mostrino integre, mature, armoniose, disponibili e gioiose, i cui rapporti non sono regolati da nessuna paura né repressione, ma dal riferimento effettivo a Qualcuno che forse non conoscono, uomini e donne aperti, dal tratto semplice ma senza pregiudizi, cordiale ma senza attaccamenti, rispettoso della dignità e della libertà umana e nello stesso tempo caloroso e vicino.
Il celibato per il Regno non porta alla frustrazione poiché non consiste nel cercare se stessi. La gioia e la pienezza non sono immaginabili senza un cuore pieno di calore verso gli altri e senza un’autentica comunione di persone. La più eloquente testimonianza del nostro celibato sono le relazioni cordiali e fraterne verso tutti coloro che hanno bisogno di noi…
Il mondo e la Chiesa hanno bisogno inoltre della testimonianza gioiosa di una vita semplice e sobria che si accontenta del necessario, che è poco, e lascia il superfluo, che è molto. Questo sorprende e sconcerta in una società di consumismo selvaggio e di tanta menzogna e apparenza. Per il resto, essa esprime un modo di essere senza protagonismo, soprattutto nel tratto di uguaglianza, di ascolto, di rispetto per tutti senza preferenze per i ricchi, per coloro che possono, coloro che sanno, che decidono, e nel lavoro fatto non per denaro o per il prestigio, ma per la promozione integrale della persona e in particolare per coloro la cui dignità è calpestata e insultata, facendo una decisa opzione preferenziale per i poveri e lottando per la loro promozione affinché vivano nella dignità di figli di Dio che tutti posseggono.
Vedono che siamo capaci di essere presenti là dove la vita è più minacciata, di camminare a fianco dei poveri e degli esclusi, animati dalla forza che deriva dall’incontro unico che genera mistici-profeti, l’incontro personale e comunitario con Cristo vivo che ci chiama a liberare il suo popolo da tante schiavitù antiche e nuove.
La nostra povertà in chiave di solidarietà e comunione, a partire da una vita sobria e semplice che la renda credibile, è qualcosa che sconcerta, sorprende e suscita ammirazione. È evidente inoltre che la nostra povertà paragonata alla miseria del mondo è più che provocatoria, diventa misteriosa per coloro che ci vengono a vivere vicino.
L’obbedienza è una parola svalutata e screditata. L’individualismo è all’ordine del giorno. «Siamo liberi e non siamo sottoposti a nessuno e a niente».
Questo è ciò che molti dicono. Se alcuni proclamano una libertà crocifissa, molti altri non riescono a vivere come persone libere. Ma l’obbedienza cristiana non si confonde con la sottomissione che mantiene “minorenni” e nemmeno con la passività che ci evita di assumere delle responsabilità. Ma ci sono molti schiavi di se stessi, del denaro, del potere e della sicurezza, di ciò che gli altri diranno, della propria immagine, della religione…
Il mondo e la Chiesa hanno bisogno di un’alternativa nuova nel vivere la libertà che non si confonda con il capriccio, l’anarchia o il libertinaggio perché Dio non vuole degli schiavi, ma dei figli che cercano di compiere in tutto la volontà del Padre. Nell’armonia con la sua volontà e nel vivere come figli sta la nostra felicità. E questo è ciò che vogliono i religiosi: cercare appassionatamente la volontà di Dio che è sempre liberatrice e compierla con passione. E ciò perché vogliono essere veramente liberi: liberi dalle proprie schiavitù e dalla loro dipendenza, liberi dalle strutture paralizzanti, liberi dalle mode che volteggiano sopra il loro capo. E questo perché avvertono che un religioso addomesticato è un progetto frustrato, ma non vogliono nemmeno andare liberi per un sentiero solitario.
SCOGLI
DA EVITARE
In quanto membri della Chiesa locale dovremmo conoscerci meglio per stimarci, rispettarci, apprezzarci e desiderarci di più. Le relazioni tra sconosciuti non sono fedeli né profonde. Gli sbagli e le rotture che infrangono o impediscono la comunione ecclesiale sono dovuti in gran parte a una mancanza di conoscenza reciproca e alla scarsa stima vicendevole.
Credo che non sia azzardato dire che non mancano vescovi, sacerdoti e anche laici che ignorano il significato ecclesiale della vita religiosa. A volte la considerano più per quello che fa che per quello che è. Ma non è la sua funzione profetica, simbolica ed escatologica ciò che veramente sta al cuore della vita religiosa e che costituisce perciò il suo principale e migliore contributo? Ci sono coloro che la rispettano ma non giungono a scoprire quali sono i valori specifici che questa chiamata ha da offrire al popolo di Dio. Proprio perché non conoscono il carisma caratteristico della vita religiosa, alcuni vescovi non colgono né utilizzano in maniera inadeguata i doni che lo Spirito Santo concede alla Chiesa nelle persone dei religiosi e delle religiose.
Ma anche i religiosi dovrebbero domandarsi: conosciamo e amiamo la nostra chiesa particolare, questa terra madre in cui nasce, si radica e si compie la nostra vocazione e missione? Sanno che il ministero apostolico occupa un posto specifico e strutturante, che garantisce il “concorso” dei diversi carismi nella missione della Chiesa? Abbiamo stima e riconoscenza per questo servizio di conduzione, guida e di presidenza dei nostri vescovi? (cf. LG 21, 23, 27; CD 15; SC 22, ecc.). Nessun altro ministero svolge nella Chiesa una funzione organica di fecondità (cf. LG 18, 19), di unità (cf. LG 23) e di potestà spirituale (LG 32) così fondamentale e di così grande influsso nell’attività ecclesiale.
È vero che siamo molto lontani dai tempi in cui, a volte, i religiosi funzionavano come una “chiesa parallela” o, meglio, come un arcipelago di piccole chiese autonome. È vero anche, credo, che in genere (i religiosi) non si considerano oggi superiori al resto dei loro fratelli e che non si possa affermare realmente ciò che scrisse Lutero, oltre 400 anni fa, ossia che essi si sentono più orgogliosi di essere figli di san Benedetto che di essere dei battezzati.
Ma sarebbe necessario e del tutto desiderabile che i religiosi progredissero maggiormente nella conoscenza e nella stima degli altri, specialmente del carisma e del ministero dei vescovi. Questa mancanza di conoscenza può pregiudicare notevolmente le nostre relazioni e quelle del resto del popolo di Dio. Per questo Mutuae relationes offre una stringata sintesi circa il ministero episcopale (6, 8, 20, 34, 44).
D’altra parte l’universalità inerente alla nostra vocazione non può essere un motivo o un pretesto per sradicarsi dalla chiesa locale in cui si incarna e si sviluppa la nostra disponibilità universale e la nostra comunione missionaria (VC 47). Anche l’esenzione non costituisce alcun privilegio o scusa per un certo isolamento dalla pastorale di insieme e per un povero incardinamento concreto nella chiesa particolare, ma un dono di disponibilità per tutta la Chiesa. Non costituisce alcun privilegio ma un impegno per un servizio maggiore.
Non c’è mezzo migliore per promuovere la conoscenza reciproca e la comunione ecclesiale di un dialogo costante animato dalla carità (cf. VC 59). Siamo sempre più convinti che le strade del futuro della comunione ecclesiale non passano attraverso il sospetto, la sfiducia e i pregiudizi. Gli atteggiamenti di durezza e di mancanza di trasparenza non portano alla comprensione e alla stima dell’altro. Il dialogo è sempre la miglior medicina preventiva e curativa delle tensioni e dei conflitti. La mancanza e la povertà di dialogo producono abitualmente un indebolimento della comunione ecclesiale per mancanza di conoscenza dell’altro che lo fa diventare un estraneo e rende anonima qualsiasi relazione, oltre a creare vere e proprie situazioni di abbandono degli altri e di solitudine sterile che rendono impossibile la partecipazione attiva e responsabile di tutti in un progetto comune di nuova evangelizzazione.
Questo dialogo deve essere intrapreso a tutti i livelli e con tutti, compresi i laici. È importante che venga favorita ogni istanza di dialogo. Molto importanti sono i consigli pastorali, presbiterali, ecc. Devono non solo funzionare, ma funzionare bene. Sarà di grande aiuto che la Chiesa locale abbia un progetto che articoli la pastorale d’insieme, elaborato da tutti, nel discernimento e la fraternità, che impegni tutti poiché è di tutti.
1 Le riflessioni che qui proponiamo fanno parte di un articolo più lungo di José M. Guerrero, SJ, pubblicato nel n. di giugno 2007 della rivista bimestrale della Conferenza dei religiosi e religiose del Cile, intitolato La Iglesia local y la vida religiosa al servicio del Reino, pp 7-21.
2 MATURA Crear
una comunidad religiosa hoy in Vari, La comunidad
religiosa, IVR, Madrid, 1972, 301.
UN AMICO SUFI RICORDA P. RAGHEED
ERA L’INNOCENZA FATTA PERSONA
Adnane Mokrani, teologo sufi, ha scritto per l’uccisione del sacerdote iracheno Ragheed questa commossa testimonianza, introdotta da un
riepilogo storico degli avvenimenti di Daniela D’Andrea, collaboratrice del
CIPAX, centro interconfessionale per la pace.
Il 3/06/2007 alla fine della divina liturgia nella chiesa dello Spirito Santo di Mousul, nord Iraq, il parroco, don Ragheed1 e i suoi tre assistenti sono stati vittima di un feroce attentato. Una raffica di proiettili ha stroncato le loro preziose vite davanti gli occhi della comunità incredula e delle mogli degli assistenti. I loro corpi sono stati poi portati in mezzo alla strada e circondati da una serie di bombe al fine di non far giungere loro i primi soccorsi. La chiesa era già stata ripetutamente minacciata e attaccata, ma il suo parroco don Ragheed non aveva ceduto alle minacce. Più erano insistenti, più la comunità si raccoglieva intorno a lui e cresceva.
Ragheed aveva studiato a Roma ospite del Pontificio collegio irlandese e si era licenziato in teologia ecumenica presso l’Angelicum. Aveva ricevuto l’ordinazione sacerdotale sempre in Roma. Durante il suo soggiorno in Italia non aveva mai fatto segreto del suo desiderio di tornare in Iraq, come mai aveva fatto segreto il dolore per il suo paese. Era un giovane brillante, molto intelligente e perspicace, pastore buono dal cuore grande e grande coraggio. Una volta tornato in Iraq è stato uno dei pochi sacerdoti a non lasciare la città e a continuare a pascere il suo gregge e infondere loro il coraggio della verità e della disponibilità al martirio per la pace. Uomo di dialogo sognava sempre l’unità e la pace. La sua improvvisa morte ha lasciato una profonda ferita nella sua chiesa, la chiesa caldea, come in tutta la chiesa irachena. Il nostro amico Adnane, che lo aveva incontrato nel suo soggiorno romano, gli ha dedicato la seguente lettera aperta che vuole essere un ultimo addio e dichiarazione d’amore fraterno, ma anche un testamento spirituale. Perché non si dimentichi! (Daniela D’Andrea).
«In nome di Dio, clemente e misericordioso, Ragheed, fratello mio, Ti chiedo perdono, fratello, di non essere stato accanto a te quando i criminali hanno aperto il fuoco su te e i tuoi fratelli, ma le pallottole che hanno trafitto il tuo corpo puro e innocente, hanno trafitto anche il mio cuore e la mia anima.
Tu sei stato una delle prime persone che ho conosciuto al mio arrivo a Roma, nei corridoi dell’Angelicum, dove ci siamo conosciuti e dove abbiamo bevuto assieme il nostro cappuccino nella caffetteria dell’università. Tu mi avevi colpito per la tua innocenza, la tua allegria, il tuo sorriso tenero e puro che non ti lasciava mai. Io non posso che immaginarti sorridente, felice, pieno di gioia di vivere.
Ragheed per me è l’innocenza fatta persona, un’innocenza saggia, che porta nel suo cuore le preoccupazioni del suo popolo infelice. Mi ricordo di quella volta nella mensa dell’università, quando l’Iraq era sotto embargo e tu mi hai detto che il prezzo di un solo cappuccino avrebbe potuto colmare i bisogni di una famiglia irachena per un’intera giornata, come se tu ti sentissi in qualche modo colpevole di essere lontano dal tuo popolo assediato e di non condividerne le sofferenze.
Eccoti di ritorno in Iraq, non solo per condividere con la gente il loro destino di sofferenze, ma anche per unire il tuo sangue a quello delle migliaia di iracheni che muoiono ogni giorno.
Non potrò mai dimenticare il giorno della tua ordinazione all’Urbaniana. Con le lacrime agli occhi, mi avevi detto: “Oggi sono morto per me”. Una frase molto dura. Nell’immediato non avevo ben capito, o forse non l’avevo presa sul serio come avrei dovuto. Ma oggi, attraverso il tuo martirio, l’ho capita questa frase.
Tu sei morto nella tua anima e nel tuo corpo per risuscitare nel tuo Bene amato e nel tuo Maestro e affinché Cristo resusciti in te, malgrado le sofferenze e tristezze, malgrado il caos e la follia.
In nome di quale dio della morte ti hanno ucciso? In nome di quale paganesimo ti hanno crocifisso?... Sapevano veramente quello che facevano?
Oh Dio, noi non ti chiediamo vendetta o rivincita, ma vittoria, vittoria del giusto sul falso, della vita sulla morte, dell’innocenza sulla perfidia, del sangue sulla spada. Il tuo sangue non sarà stato versato invano, caro Ragheed, poiché ha santificato la terra del tuo paese e il tuo sorriso tenero continuerà ad illuminare dal cielo le tenebre delle nostre notti e ad annunciarci un domani migliore.
Ti chiedo scusa, fratello, ma quando i vivi si incontrano, essi credono di avere tutto il tempo per conversare, farsi visita e dirsi i propri sentimenti e i propri pensieri. Tu mi avevi invitato in Iraq... Sogno sempre di visitare la tua casa, i tuoi genitori, il tuo ufficio. Non avrei mai pensato che sarebbe stata la tua tomba che un giorno avrei visitato o che sarebbero stati i versetti del mio Corano che avrei recitato per il riposo della tua anima.
Un giorno, ti ho accompagnato per acquistare degli oggetti ricordo e dei regali per la tua famiglia alla vigilia della tua prima visita in Iraq dopo una lunga assenza. Tu mi avevi parlato del tuo lavoro futuro: “Vorrei guidare la mia gente sulla base della carità prima della giustizia” mi avevi detto. Allora mi era difficile immaginarti come “giudice” canonico. Ma oggi il tuo sangue e il tuo martirio hanno detto la loro parola, verdetto di fedeltà e di pazienza, di speranza contro ogni sofferenza e di sopravvivenza, malgrado la morte, malgrado il nulla.
Fratello, il tuo sangue non è stato versato invano e l’altare della tua chiesa non era una mascherata. Tu hai preso il tuo ruolo con profonda serietà, fino alla fine, con un sorriso che nulla spegnerà. mai.
Il tuo fratello che ti vuole bene
Adnane Mokrani
1 Cf.
INTERROGATIVI SULLA VITA CONSACRATA
IN ASCOLTO DEI GIOVANI
Nei frequenti incontri
con gli istituti religiosi,
Trovo sempre interessanti le domande che mi vengono poste o in occasione di incontri o attraverso lettere come questa:
Scrivo a nome di un gruppo di giovani religiose/i che stanno riflettendo sulla disaffezione vocazionale delle nuove generazioni: abbiamo messo a confronto i dati emersi nella ricerca dell’Osservatorio del Nord-est e nel libro-inchiesta di F. Garelli con curiose recenti riflessioni di qualche studioso di lungo corso. (…) Il modo di vedere le cose ci sembrano evidenziare due mondi distanti…
Le domande sottese alle quali rispondere sono: la perfezione evangelica nella Chiesa è esclusiva della VR? La disaffezione delle nuove generazioni è dovuta al fatto che la VC è stata spogliata del riconoscimento di eccellenza? Che cosa pensano i giovani dei religiosi e delle religiose?
La perfezione
evangelica nella Chiesa è esclusiva della VR?
La lettera da cui prendo l’avvio ha lo spunto in alcune recenti espressioni di addetti ai lavori secondo i quali la pienezza della vita cristiana (perfezione) sarebbe conseguibile soltanto nello stato religioso. Il documento conciliare sulla VC porta il titolo di Perfectae caritatis indicando così che la perfezione evangelica sta nell’ “affinamento” della carità, in forza del battesimo che convoca tutti in ordine alla santità (perfezione). Non ci sono due livelli di santità. Questo modo di pensare «si differenzia dal tempo in cui si diceva che il semplice fedele cerca la propria salvezza, mentre la VR tende alla perfezione. La perfezione cristiana è quella della carità e questa può raggiungere il suo apice sia nel mondo sia in quella situazione che anticipa il regno». «È tempo – scrive R Règamey – di dissipare i malintesi che hanno potuto fare dei religiosi una casta di “perfetti” e convincere i medesimi che debbono dare agli elementi della loro esistenza la qualità richiesta perché perseguano, secondo le loro modalità specifiche, la comune perfezione (…) Quello che più importa è di rispondere alla chiamata di Dio e di colmare l’intera misura da lui assegnata, qualunque essa sia ».1
La sistematizzazione dello stato di perfezione «trova in san Tommaso d’Aquino il paladino che nel termine stato vedeva il carattere pubblico e stabile dell’impegno religioso e nel termine di perfezione la tensione verso il perfezionamento della carità, senza avere la pretesa di essere l’unica via per raggiungere questo traguardo (…). In seguito il pensiero di san Tommaso sarà sempre inteso in tal senso? Sembra di no. Pare che sia stato troppo spesso interpretato come una svalutazione della condizione del laico e come se la vita religiosa costituisse un’acquisizione automatica della perfezione, mentre il pensiero di san Tommaso era molto diverso».2
San Giovanni Crisostomo scrive: «È un errore grossolano credere che altro si chieda da colui che vive nel mondo e altro al monaco (…); come si fa a pretendere che il livello che deve raggiungere il monaco sia più elevato? Tutti devono elevarsi alla medesima altezza. È stato un errore funesto credere che soltanto il monaco sia tenuto a una più grande perfezione (…), e quando egli ordina di seguire la via stretta, non parla solo per i monaci, ma per tutti gli uomini».3
Gregorio stesso non appartiene a coloro che fanno della perfezione evangelica il privilegio di una categoria;4 ed anche la regula Benedicti non menziona l’opposizione tra due tipi di vita cristiana e nei suoi strumenti delle buone opere propone le obbligazioni comuni ad ogni battezzato. Tutti costoro sono però anche unanimi nel riconoscere che i consigli introducono in una situazione cristiana tipica, condizione favorevole per la crescita della carità. Più vicino a noi, E. Schillebeeckx scrive: «Strettamente parlando nel Vangelo esiste un solo consiglio (…) di cui viene espressamente detto che non costituisce l’oggetto di un comandamento del Signore. (…) Colui che non segue questo consiglio può raggiungere benissimo la perfezione della carità, mentre gli altri consigli valgono per tutti i cristiani in quanto sono indispensabili per poter realizzare nei fatti la vocazione universale alla perfezione della carità».5 Tillard – a partire dal fatto che la VR si riconosce nel gruppo itinerante che seguiva da vicino Gesù – opportunamente osserva: se la perfezione fosse solo di questo gruppo ne rimarrebbero escluse «altre persone – sua madre Maria, Marta, Lazzaro, Zaccheo, Nicodemo – che per il fatto di continuare a condurre un’esistenza più “normale” sarebbero per questo considerate meno perfette».6
Quanto fin qui espresso potrebbe essere sintetizzato in una recente espressione di G. Frosini: «La VC non è un’altra via rispetto a quella dei cristiani comuni, è una memoria radicale della vocazione comune (…), di cui i religiosi si impegnano a diventare testimoni qualificati dinanzi alla distratta mentalità generale. È quasi un Vangelo leggibile nella vita. Oggi questa visione ritorna forte all’attenzione nonostante che i documenti conciliari e post continuino a esprimersi sostanzialmente con il vecchio linguaggio».7
Allora da dove nasce in alcuni/e il progetto di VR? «L’impegno di questi non procede fondamentalmente dal desiderio calcolato di ottenere con maggior sicurezza la perfezione ma dal fatto che essi sono stati come avvinti dalla persona o dal messaggio di Gesù».8
La disaffezione delle
nuove generazioni è dovuta al fatto che la VC è stata spogliata del
riconoscimento di eccellenza?
È la paura di chi vede concorrenziale la crescente stima della vocazione laicale, comprimaria nella «chiamata alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità» (LG 40). I redattori della lettera cui sto rispondendo, questa paura di concorrenzialità la trovano espressa, ad esempio, nell’articolo di una rivista, che si esprime così: «La crisi di identità della vita religiosa è dovuta all’aver accolto gli elementi positivi comuni alla vita di ogni cristiano e respingendo così gli specifici elementi positivi, biblici, e teologici della vita religiosa».9 Questo modo di pensare, riproponendo quella teologia che definiva la vita religiosa secondo categorie di “diversità”, “di più”, evidenzia il comprensibile disagio di quei religiosi che si sono visti mancare sotto i piedi il loro humus culturale e faticano ad accettare una ricollocazione che pone in dubbio alcune delle certezze prima consolidate.
Ma questa paura non tocca le nuove generazioni, vale a dire quelle post-conciliari. Cerco di evidenziare ciò riportando il dire di un gruppo di adulti, interpellati sull’argomento, incontrati in una giornata di riflessione sul documento Cristifideles laici:
«Si sta comprendendo che un unico ideale, un unico grande amore, un unico disegno di perfezione evangelica possono esplicitarsi in vie diverse e complementari».
«Per chi è chiamato, la VR è la scelta di senso per cui spendere la vita e non di aristocrazia in seno al cristianesimo: è questione di modalità e intensità di vivere il Vangelo e non di contenuto».
«Il futuro è di chi sa conciliare la generosità del dare con la generosità del ricevere, di chi sa ripensarsi insieme a tutto il popolo di Dio. Questo è il senso di vocazione particolare: parte di un tutto con cui integrarsi attraverso lo scambio di doni (carismi). Da qui scaturisce il riconoscersi reciprocamente necessari: membra di un unico Corpo».
«La voglia di emergere, di stagliarsi sugli altri, di essere meno uguali ha sempre avuto adepti anche nella Chiesa. Non so se la riprova stia anche nel fatto che le uniche vocazioni ecclesiali non in crisi sono quelle definite “eccellenti” o “eminenti”. Anche tra i religiosi, spesso, il titolo di fratello sembra relegato all’esercizio di umiltà e non titolo a cui tendere con tutte le forze qualsiasi sia il “servizio” di cui uno è richiesto ».
«La VR trova la sua identità nel centrare la vita su Dio in una maniera particolarmente visibile, esprimendo in forma originale l’unica vocazione cristiana che consiste nell’amore di Dio coniugato con l’amore alla vita: è questione di amore non di posizione sociale».
Queste ultime espressioni mi hanno riportato alla memoria una considerazione di Tillard: «Chi può dire, per esempio, che il tale generale illustre ami la patria più di quel modesto artigiano che lavora per essa nell’oscurità del suo villaggio?».10
Che cosa pensano i
giovani dei religiosi /e?
Innanzitutto c’è da chiedersi se i giovani conoscono la VR. Da una recente indagine11 risulta che «anche se la dimensione religiosa sembra non essere estranea a buona parte di essi, sono soltanto circa il 7% che dichiarano di conoscere sufficientemente bene la VR; la maggior parte degli altri identifica i religiosi/e come coloro che vivono in comunità, portano un abito particolare e sono riconosciuti in termini di “utilità” sociale piuttosto che di specificità della testimonianza. Dunque una generazione, quella dei giovani, distante ma non ostile, anzi nell’insieme, in essi traspare simpatia nei confronti dei religiosi/e che riconoscono come persone sincere, vivaci, forti, sicure di sé, con le quali però il confronto non sembra facile in quanto poco aperti alla modernità, tendenzialmente vecchi, portatori di una mentalità arretrata. Ma è proprio sull’ipotesi vocazionale che la ricerca mostra un distacco profondo, pensando (i giovani) che con i religiosi/e non è possibile condividere valori, progetti di vita, impegno ecclesiale».12 Pertanto si tratta di una distanza anagrafica, culturale e valoriale (almeno nella modalità espressiva) con conseguente impossibilità di trasmettere l’eredità storico-carismatica di un istituto. Questo avviene quando il patrimonio di sapienza della vita religiosa si è bloccato su un modello di società che non c’è più e su un modello di comportamenti che non esprimono più un valore. A questo punto basta il lasso di tempo di una generazione per essere tagliati fuori dalla vita dei giovani e dai loro progetti di avvenire. Non poter risolvere il problema comporta l’essere emarginati per insignificanza. Infatti la difficoltà della VR non consiste nel non sapere quale grande tesoro essa sia, irrinunciabile, per la Chiesa, ma piuttosto nel non sapere come ridarle “significato” nei nuovi contesti entro i quali i consueti segni non mediano più, cioè non rimandano più a ciò per cui sono stati detti. Tale crisi di significatività conduce alla mancanza di ragioni comprensibili al giovane d’oggi, per le quali spendere la propria vita. E ci sono delle eccezioni che confermano la regola.
Nel recente mese di luglio ho partecipato a una parte dei Capitoli provinciali di una congregazione13 che attualmente gode di un coefficiente di crescita notevolmente superiore alla media di tutte le altre congregazioni presenti in Italia. L’istituto (nato nel 1870) conta ora circa 420 religiose e da diversi anni ammette (annualmente) al noviziato, dopo attento discernimento, circa 10-15 giovani provenienti dal nord e sud d’Italia. L’impatto con le assemblee capitolari è stato ricco di stupore riscontrando che la maggior parte delle delegate erano di giovane età, con un bagaglio culturale e spirituale di tutto rilievo e con una relazionalità gioiosa e spontanea. All’origine di questo significativo fatto vocazionale – mi è stato spiegato - c’è il fatto di puntare su esperienze (in particolare una) prolungate e progressive, rivolte ai giovani e alle coppie, in cui i contenuti evangelici vengono proposti e vissuti in un clima di accoglienza reciproca, di voglia di autenticità, di gioia di vivere, di preghiera, di progetto, di quotidianità ricca di idealità, il tutto nell’orizzonte della contemporaneità. È vero anche per la VR ciò che si dice dell’età evolutiva, che i valori si trasmettono per contagio e preferibilmente a pari, cioè da giovane a giovane, in contesto di insieme; valori affidati alla testimonianza di persone ricche di umanità, di libertà, di responsabilità, di simpatia, di relazioni vere (testimoniando in tale maniera che l’essere sorelle è punto di convergenza di una istanza spirituale e umana, senza che una sia in contrapposizione all’altra.
Dopo quanto detto è ancora possibile credere che basti l’etichetta di status perfectionis, – stato di perfezione – a risolvere la crisi vocazionale? Nel recente libro-indagine di F.Garelli si parla – in riferimento ai giovani – di «primati in via d’estinzione (…): tali primati e priorità oggi stentano a essere riconosciuti, a fronte di una cultura che tende a valorizzare le varie condizioni e scelte di vita e di un cammino di maturazione ecclesiale che sottolinea la specificità delle diverse vocazioni, dei vari carismi e delle molte strade di salvezza».14
Cozza Rino csj
1 P.R Règamey in Dizionario degli Istituti di perfezione, v. 6, 1478-1484. Nella costituzione Lumen gentium il Concilio vede tutti i fedeli, in ragione del battesimo e del sacerdozio spirituale che ne deriva, come fondamentalmente eguali e tutto ciò che riguarda il popolo di Dio “riguarda allo stesso titolo laici, religiosi e chierici (LG 30). È scomparso il riferimento alla “perfezione” mentre è rimasta la nozione di stato. Nel Codice di diritto canonico “ la nozione di stato è specificata non più come stato di perfezione ma di “vita consacrata”. G. Lesage – G. Rocca in Dizionario degli Istituti di perf. v. 8, 210.
2 G. Lesage – G. Rocca, in Dizionario degli Istituti di perfezione v. 8, 208.
3 G. Crisostomo, Adv.opp.vit. mon., 3,14: pp. 47,372-375 – citato in J.M.R.Tillard, Davanti a Dio e per il mondo, Milano, 112.
4 J.M.R. Tillard, Davanti a Dio e per il mondo, 123.
5 E. Schillebeeckx, Il celibato del ministero ecclesiastico, Roma 21968.
6 J.M.R. Tillard, Davanti a Dio e per il mondo, 172.
7 G. Frosini in Religiosi in Italia, n. 358.
8 J.M.R. Tillard, Davanti a Dio e per il mondo, 177.
9 Religiosi in Italia 2, 2002, 183.
10 J.M.R. Tillard, Davanti a Dio e per il mondo, 71.
11 Indagine dell’Osservatorio
12 Da una relazione di Fr. G. Dal Piaz (Osservatorio nord-est).
13 Suore Francescane Alcantarine.
14 F. Garelli, (a cura), Chiamati a scegliere, Edizioni san Paolo, 100-101.
IL XV CAPITOLO GENERALE DEI SAVERIANI
PERCHÉ E COME ESSERE MISSIONARI
Il capitolo è stato
l’occasione per fare il punto sulla situazione dell’istituto, verificare il
nostro modo di essere missionari ad gentes, trovare nuova energia e scoprire
nuove modalità e far ripartire – con nuova creatività e carica spirituale – lo
slancio missionario che è il cuore del progetto saveriano.
Dal 18 giugno al 19 luglio 2007, nel Centro saveriano di spiritualità missionaria di Tavernerio, i missionari saveriani hanno tenuto il loro XV capitolo generale. Erano presenti, oltre ai confratelli della direzione generale, quarantadue confratelli, rappresentanti delle diciannove circoscrizioni saveriane, dislocate in venti paesi dei quattro continenti. Per la prima volta più d’un terzo dei partecipanti, diciassette per la precisione, non erano italiani: sei erano originari del Messico, quattro della Spagna, due dell’Indonesia, due della Repubblica Democratica del Congo, due della Scozia, uno del Brasile. Questo fatto è il segno di un processo d’internazionalizzazione della Famiglia missionaria di mons. Conforti che è cominciato in sordina sessanta anni fa, ma che negli ultimi decenni si è fortemente accelerato. Un’altra novità significativa di questo capitolo è stata la partecipazione di un saveriano che insegna all’università di Pechino. In Cina, infatti, i missionari saveriani hanno incominciato la loro avventura missionaria all’inizio del secolo scorso e lì, da oltre un decennio, sono ritornati. Tutto questo testimonia che il piccolo seme gettato nel solco della Chiesa un secolo fa da un missionario mancato, che non era potuto partire per ragioni di salute e di ministero, il beato Guido M. Conforti, continua a crescere e a dare frutti anche fuori della terra in cui è stato seminato. Tutto ciò è anche un segno di speranza, in un momento in cui il gruppo più consistente dei saveriani, quelli d’origine italiana, sta invecchiando, che ci permette di guardare a una missione che sarà diversa, ma non al di fuori del solco tracciato dal fondatore.
Oltre alla presenza di nazionalità diverse, uno degli aspetti interessanti del capitolo è stata la fraternità immediata e la ricchezza dello scambio tra noi nei momenti di preghiera, di reciproco ascolto e di ricerca, in aula, nelle commissioni di studio e nei gruppi di lavoro come pure nei momenti informali dei pasti e della ricreazione. L’internazionalità della Famiglia missionaria – apparsa chiaramente nel capitolo – permette un diverso approccio alla missione e arricchisce il carisma di mons. Conforti di nuove prospettive. Ciò significa che l’internazionalizzazione non offre solo un incremento quantitativo, ma contribuisce anche, e molto più, al rinnovamento qualitativo della congregazione.
MOMENTO DELICATO
MA CARICO DI SPERANZA
Un capitolo generale è sempre un momento particolare nella vita di una Famiglia missionaria. Anche questo è stato l’occasione per fare il punto sulla situazione dell’istituto, verificare il nostro modo di essere missionari ad gentes, trovare nuova energia e scoprire nuove modalità e far ripartire – con nuova creatività e carica spirituale – quello slancio missionario che è il cuore del progetto saveriano. Ciò è necessario oggi, nel momento in cui la missione ad gentes corre il rischio di essere appiattita e confusa nella missione globale di tutto il popolo di Dio (cf. Redemptoris missio n. 34) perdendo così la sua forza profetica.
Il XV capitolo generale è giunto in un momento della storia dell’istituto saveriano, che potremmo dire critico, nel senso positivo del termine, perché segnato da una serie di cambiamenti importanti e obbligati. Forse mai come oggi, dopo la stagione post-conciliare, ci sono stati tanti cambiamenti nella missione ad gentes. Essa si svolge all’interno di un insieme di fenomeni culturali e storici ai quali non sfugge neppure la nostra piccola congregazione. La globalizzazione, il pluralismo culturale e religioso, le migrazioni dei popoli, i conflitti etnici, il relativismo filosofico e teologico, quando non la negazione di Dio e dei valori religiosi, fenomeni tipici del mondo post-moderno, incidono sul nostro modo di fare missione.
Con un’immagine cara a mons. Pierre Claverie O.P., il vescovo d’Orano in Algeria, assassinato nel 1996, possiamo affermare che il missionario si trova sempre più “sulle linee di frattura” del mondo e della storia, in una posizione molto scomoda e in un tempo complesso e di difficile interpretazione, ma che è anche un kairós carico di speranza. Infatti, in molti paesi i missionari, soprattutto quelli provenienti dal mondo occidentale, sono visti con diffidenza per il sospetto che essi ripetano antichi schemi di colonizzazione. All’interno della Chiesa, poi, i missionari soffrono per la difficoltà di far interagire il loro carisma con quelli della chiesa locale e per il rischio di essere assorbiti dalle urgenze pastorali della chiesa locale a scapito del “primo annuncio”. Non basta sentirci dire che la nostra presenza è necessaria e desiderata: ci vuol poco a renderci conto che noi siamo richiesti dai vescovi delle giovani chiese per quanto siamo in grado di offrire in termini di mezzi materiali e di opere che gestiamo efficacemente, più che per il nostro “essere missionari”.
Diciamo subito che il capitolo non si è messo a piangersi addosso per le difficoltà incontrate e non ha deciso di ridurre gli impegni per far fronte ai problemi dell’invecchiamento e alla prevedibile progressiva scomparsa del personale missionario d’origine italiana (64%), non compensati dall’entrata dei giovani e neppure dal fenomeno, positivo e incoraggiante, dei sempre più numerosi confratelli non italiani, giovani ed entusiasti (35%). Tutt’altro. Il capitolo si è concluso sotto il segno della speranza e dell’ottimismo. L’ “Andate, ecco io vi mando…” di Gesù risuona ancora forte al nostro cuore. Con Giovanni Paolo II anche noi siamo convinti che “la missione è ancora agli inizi”! Per questo il capitolo ha invitato la nuova direzione generale a procedere a quelle chiusure, necessarie e possibili, che permettono di aprire nuovi fronti missionari in campi più bisognosi di prima evangelizzazione.
UN NUOVO MODELLO
DI MISSIONARIO
Il capitolo generale ha indicato, nello stesso tempo, un nuovo modo di essere missionari. Molti teologi da tempo lo dicono ed è la logica conseguenza delle novità ecclesiologiche del Vaticano II, ma noi stessi lo sentiamo: ormai è venuto il tempo di una missione più discreta, umile, solidale, propositiva, fondata più sull’ “essere” che sul “fare”. Le relazioni delle Regioni saveriane presentate al capitolo hanno mostrato che il tempo delle opere, grandi e imponenti, sta passando. Esse sono pesanti da assumere, dopo di noi, da parte della chiesa locale e inoltre finiscono per oscurare le vere motivazioni della nostra presenza. Ci pare che sia ora di far spazio a una missione più semplice e più “spirituale”, in dipendenza dallo Spirito Santo cioè, fondata soprattutto sulla testimonianza cristiana.
Purtroppo questa transizione non è semplice come potrebbe apparire, perché esige un’autentica metanoia, un cambiamento di visione. Ciò può causare ripensamenti, paure e incertezze, perché per rinnovare il modo di far missione dobbiamo rinnovare a fondo la maniera di vivere e le motivazioni che sono a monte. In poche parole, abbiamo bisogno di una spiritualità adatta a questo momento. Questo è stato il primo nodo del nostro capitolo, apparso già nella fase preparatoria e messo a fuoco dal convegno dell’anno scorso. Bisogna ricuperare, riproporre e, soprattutto, rendere operativa la nostra spiritualità missionaria. A questo tema ci ha aiutato a riflettere p. Luigi Guccini nell’introduzione spirituale del capitolo. La spiritualità, diceva, chiede di andare alla radice carismatica della nostra esistenza: perché siamo saveriani? Una domanda intrigante che vuol farci uscire dagli stereotipi dell’essere missionario tradizionale fondato sul fare, per ricondurci al nostro rapporto con Gesù Cristo e con il suo Spirito che è il protagonista della missione. È nella struttura dialogica della nostra vocazione e nella permanente obbedienza alla chiamata di Gesù che si situa la nostra identità più vera, pur mediata dalla esperienza spirituale del fondatore e dalla storia dell’istituto. In questa struttura fondamentalmente cristologica e teologica della missione si trova la spiritualità del missionario, la forza propulsiva della vocazione e il suo carisma autentico. Il resto, e cioè il dono di sé, il dialogo, l’attenzione alla cultura, la solidarietà, l’impegno per la liberazione e la promozione umana, segue logicamente.
Il capitolo, malgrado la tacita risoluzione di non fare dei documenti, è caduto nella trappola di sempre, nella tentazione cioè di scrivere dei testi secondo il metodo invalso nei capitoli “speciali” del post-concilio, e si è un po’ perso nel precisare puntigliosamente le parole. Sarebbe stato meglio usare il tempo per individuare i cammini più adatti per coinvolgere l’istituto nel dopo-capitolo. Pazienza! Chissà quando verrà il giorno in cui saremo capaci di vincere questa tentazione intellettualistica? Comunque sia, i nostri Documenti capitolari, nel loro insieme, sono almeno brevi: trentacinque paginette, indice incluso. Comprendono cinque testi sulla spiritualità saveriana, sull’«oggi» della missione, sulle teologie saveriane internazionali, un testo d’indicazioni operative e uno di revisione di quelle alcune norme che avevano bisogno di essere ritoccate o aggiunte. Ma gli argomenti principali sono i primi due.
Circa la spiritualità abbiamo sviluppato, attualizzandole, le indicazioni lasciateci dal fondatore nella sua Lettera Testamento del 1921, che per noi sono la sintesi della spiritualità che egli offre ai suoi figli: fede viva che ci faccia “veder Dio, cercar Dio e amar Dio in tutto”, “obbedienza pronta generosa e costante”, “amore intenso” per la famiglia saveriana che dobbiamo “amare qual madre”. Per quello che riguarda la missione, è stato ribadito l’impegno a tenere fissa la bussola sul nord dell’istituto, cioè sul fine unico dell’istituto che è il “primo annunzio” del Vangelo ai non cristiani e, di conseguenza, sull’animazione missionaria e vocazionale e sulla formazione dei futuri missionari. Abbiamo riaffermato l’impegno a trasferire agli autoctoni, appena possibile, quegli impegni pastorali che non sono in linea con il nostro fine unico.
Davanti alla frequente proposta di occuparci degli emigranti non cristiani presenti nelle nostre chiese, il capitolo ha riaffermato che questo tipo di impegno non entra nel nostro compito specifico: non è possibile far tutto, per questo noi abbiamo scelto di occuparci dei non-cristiani che si trovano al di fuori delle nostre comunità d’origine, mentre occuparsi dei non-cristiani presenti sul territorio della chiesa locale è impegno di quest’ultima. Abbiamo però convenuto che dobbiamo essere, sempre e ovunque, accoglienti con i non-cristiani e che «non dovrebbe mai succedere che consideriamo come degli estranei o degli avversari coloro che, fedeli alla loro tradizione religiosa, non accettano la nostra evangelizzazione, perché essi continuano ad essere i destinatari della missione ad gentes».
MODELLO DEL MISSIONARIO
PER QUESTO TEMPO
Il capitolo si è poi occupato del nuovo modo di vivere e fare la missione ad gentes e ha delineato sei tratti della missione e del saveriano oggi.
I saveriani saranno:
– missionari che vivono la missione a partire dalla contemplazione e dalla comunione;
– missionari rispettosi e attenti alla cultura dei destinatari della missione, che curano lo studio della lingua e della cultura locale, anche quando questo si complica per il moltiplicarsi delle lingue e la mobilità dei missionari, che non si permettono pregiudizi e giudizi ingenerosi;
– missionari che curano il dialogo interculturale e interreligioso, sia a livello personale che comunitario, considerandolo compito essenziale della missione e oggi particolarmente urgente come contributo alla pace fra le religioni;
– missionari che, in umiltà e con lucidità, si mettono a servizio della crescita e dell’affermazione della chiesa locale, accettando generosamente ruoli di secondo piano e rimanendo sempre pronti ad andare anche oltre i confini della chiesa locale, quando fosse necessario per estendere l’evangelizzazione ai non cristiani;
– missionari che vivono la missione nella semplicità e nella povertà, evitando il protagonismo e curando invece la reciprocità, la qualità delle relazioni e la scelta dei mezzi poveri, accessibili alla popolazione locale e che, possibilmente, non creano dipendenza;
– infine missionari che si propongono di vivere la missione nella solidarietà e nella gratuità, cercando di essere, ovunque gli avvocati dei poveri.
Altri due documenti elaborati dal capitolo hanno dato, rispettivamente, una valutazione sostanzialmente positiva delle comunità internazionali di teologia e alcune indicazioni operative per il sessennio: tra di esse l’apertura di una nuova missione, un convegno sulla missione, la promozione ovunque del dialogo interculturale e interreligioso, la preparazione dei formatori per le teologie internazionali, il rilancio della formazione permanente e la promozione del carattere sopraregionale della Casa Madre di Parma.
LA NUOVA
DIREZIONE GENERALE
Verso la fine dei lavori capitolari è stata scelta la nuova direzione generale, che rispecchia abbastanza fedelmente la realtà dell’istituto. È stato riconfermato per un secondo sessennio il superiore uscente, p. Rino Benzoni, insieme con il suo vicario, p. Gigi Menegazzo. Ad essi sono stati affiancati, p. Carlo Girola, superiore regionale del Camerun-Ciad, p. Armando Germán Navarrete, messicano, superiore regionale della Colombia e il p. Alphonse Katindi Ramazani, congolese, fino a qualche mese fa rettore della comunità teologica di Yaoundé. A questi confratelli incombe la responsabilità di far giungere la riflessione del capitolo a tutto l’istituto e di presiedere per sei anni la fraternità saveriana, tenendo insieme la creatività – certo difficile da imbrigliare – dei missionari di mons. Conforti.
Gabriele Ferrari s.x.
ferrari@tavernerio-saveriani.it
SUOR MARIA DEGLI ANGELI BERETTA
UN CUORE ASSETATO DI VERITÀ
Suora cottolenghina, ha vissuto 70 anni di vita consacrata, prima
come suora di vita attiva e quindi per oltre 30 anni in clausura, realizzando
così la sua ispirazione profonda, quella di rimanere nascosta, ma portando in
questo nuovo viaggio, tutti quelli che aveva amato e amava.
«Per la persona consacrata, la vita terrena è come un lungo fidanzamento; nel momento in cui avviene la nascita al cielo, allora si celebrano le vere nozze». Era solita ripeterlo suor Maria degli Angeli Beretta, entrata al banchetto delle nozze il 18 marzo 2005, dopo un lungo “fidanzamento” durato 70 anni, prima come suora cottolenghina di vita attiva e, dal 1974, come suora cottolenghina di clausura.
«Maria degli Angeli – ha scritto di lei il vescovo di Civitavecchia-Tarquinia, Carlo Chenis – è un inno alla gioia... Attraversando questo mondo nel nascondimento della vita attiva e contemplativa è stata una donna forte, amabile nella missione, cottolenghina nell’atteggiamento. Un’icona di sapienza che si è fatta consiglio per innumerevoli generazioni di suore...».1
Ma chi è suor Maria degli Angeli Beretta?
OLTRE IL DUBBIO
LA SETE DI VERITÀ
Maria Beretta nasce a Cassinetta di Lugagnano, Milano, il 12 dicembre 1916; cresce nella ridente campagna lombarda sulle rive del Naviglio. La sua è una famiglia di gente semplice. Seconda di cinque figli, Maria è una bimba dalla salute fragile accompagnata da un’intelligenza di rara finezza. È profondamente riflessiva, molto sensibile: nel suo cuore gli eventi avranno sempre risonanze insospettate. A questo proposito troviamo nella memoria della sua infanzia un avvenimento che la segnò profondamente e che ricordava con una grande lucidità nonostante molti anni fossero passati. Lo raccontò un pomeriggio di autunno del 2001 a una sorella della sua comunità per rispondere alla sua espressa richiesta: “Parlami di come è nata la tua vocazione!”.
Raccontava che, già prima dell’età scolare, aveva scoperto con dolore il dramma del male sotto le vesti della menzogna: l’uomo può dire falsa una cosa vera. All’epoca era ancora tanto piccola da non arrivare con la testa a sfiorare il piano del tavolo. Il fatto in questione aveva visto protagonista la mamma e testimone la figlia. Mamma Giuseppina non voleva riferire tutto al marito; Maria la mette in difficoltà sostenendo ingenuamente la versione autentica dei fatti, la mamma la zittisce. La bambina è ridotta al silenzio; un episodio consueto: la semplicità dei piccoli che mette gli adulti in grande imbarazzo!
In apparenza, niente di straordinario, una normale bugia tra moglie e marito… Maria ne resta profondamente scossa e vive questa esperienza come un vero e proprio conflitto interiore: l’uomo può dire vera una cosa falsa e falsa una cosa vera. Allora la verità esiste?
La radice del dubbio affonda nel suo cuore. Maria si incammina sul sentiero dello scetticismo: si convince sempre più che gli adulti passano per verità quello che in realtà loro conviene e dentro di sé conclude che “bene” e “male” non esistono, sono soltanto nomi vuoti, e che perciò a ciascuno è lecito fare ciò che vuole. Vorrebbe allontanarsi dalla pratica religiosa, ma i genitori non lo permettono; Maria obbedisce ma senza convinzione fino a diciassette anni. Nel suo cuore, però, non è spenta la sete di verità!
LA VOCE DI DIO
“IO CI SONO! E SONO PER TE”
È il 25 aprile 1934: nella vita di Maria sorge un giorno di grazia. Scocca l’ora precisa in cui il Signore si mostra, rivela il suo volto attraverso i tratti di un viso umano, quello diafano e solenne del card. Alfredo Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano in visita pastorale a Cassinetta. Vedendolo in preghiera, Maria percepisce la presenza di Dio; la sua voce umile e potente si fa sentire nelle profondità del cuore: “Io ci sono! E sono per te”.
Maria decide: vuole dedicare la sua vita a quel Dio che ha fatto irruzione nella suo cuore. Ma dove? È la sorella minore a dirle del Cottolengo mentre nell’orto zappano insieme. Comprende che è il suo posto!
Il 3 agosto 1935 parte per Torino; inizia un cammino che durerà 70 anni. I superiori scoprono presto la sua intelligenza, la fanno studiare. Frequenterà le magistrali e successivamente il corso superiore che le permetterà di insegnare ai ragazzi delle scuole medie. Intanto il 16 luglio 1936 fa la vestizione: diventa suor Ersilia. Il 17 luglio 1937 emette la sua professione religiosa.
«Oh, Gesù, la gioia profonda che si sprigiona dall’incontro della tua infinita ricchezza con la mia infinita miseria… Tu, mai sazio di donare, io mai sazia di ricevere… Ci può essere un accordo che dia un’armonia più perfetta della nostra, Gesù? Io sono convinta di no».
Dopo il compimento degli studi – siamo intorno al 1940 – si prepara a partire per Compiano dove passerà gli anni della guerra come insegnante tra le bimbe del collegio.
Dopo la guerra, rientra alla Piccola Casa di Torino; inizia un periodo fondamentale della sua vita: venticinque anni di insegnamento alle giovani sorelle.
La sua persona le affascina. Ne amano la semplicità, l’umiltà, la profondità ma soprattutto la capacità di trasfigurare anche gli argomenti scolastici più aridi facendone dei trampolini dai quali lanciarsi verso la contemplazione delle verità eterne: è una vera maestra di vita spirituale. Ma cosa significa per lei mettersi dietro una cattedra e trasmettere conoscenza alle sorelle?
«Tu sai Gesù che, a parte tutte le mie miserie, la mia inesperienza, […] per tua grazia, non ho mai considerato la scuola come fine a se stessa, ma come mezzo efficacissimo di ricerca della verità. Per me la Verità sei Tu solo Gesù. Le scolare che tu mi hai affidate in questi anni avvertono in me questa sete, Gesù, di ricerca di Te e molte ne sono conquistate».
Dal 1968 sarà maestra tra le giovani juniores cottolenghine. Saranno anni caratterizzati da un clima che resterà indimenticabile per ciascuna di loro. Maestra Ersilia riuscirà sempre a generare unità, collaborazione, facendo leva sui talenti di ciascuna, donando a tutte l’ascolto e la sua inconfondibile capacità di entrare nella sintonia del cuore che mai più scorderanno.
L’INGRESSO
IN CLAUSURA
Nel 1974 chiede di passare alla vita contemplativa, di entrare in un monastero cottolenghino; e precisamente nel monastero “san Giuseppe”, situato all’interno della Piccola Casa di Torino. Sembra essere giunta l’ora di realizzare l’antica aspirazione del suo spirito: stare nascosta. A cinquantotto anni il Signore le concede un tempo di cammino nella solitudine, nel deserto, nel silenzio di una vita totalmente dedicata alla preghiera. Arriva il giorno:
«… voglio anch’io dirvi qualcosa della mia giornata nel chiostro. Ha inizio alle 24 con un’ora di adorazione che mi permette di immergere in Dio il giorno che muore e quello che nasce e di consacrare il mondo a Dio nella lode. La recita del rosario mi permette di seminare sul mondo che dorme e su quello che veglia nel lavoro o nel male la preghiera dell’Ave che sembra fatta con i raggi che promanano dal Verbo – Incarnato…Una volta alla settimana, circa, la veglia si protrae, per la singola… sono ore indimenticabili di intimità con l’Amore che pulsa nel cuore di Cristo a cui ognuno di noi porta tutto il mondo e le persone più bisognose in particolare. Alle 5, 30: lodi; segue la S. Messa, la recita di mattutino con un’ora circa di meditazione. Alle 9 circa: terza: è la nostra Pentecoste giornaliera: l’ora dello Spirito Santo. Alle 11: ora di adorazione personale chiusa da sesta. Gesù ci incontra al pozzo di Sicar promettendoci la fonte zampillante dello Spirito Santo che ci dona poi dall’alto della Croce… “Era circa l’ora sesta quando i soldati crocifissero Gesù…”. Alle 15 eccoci a celebrare il mistero della Croce con la recita di Nona. Il dolore di Cristo per il peccato del mondo e tuoi ti investe gemendo attraverso i Salmi. Alle 17 altra ora di adorazione chiusa dai Vespri. La giornata si conchiude con Compieta alle ore 20».
Il lavoro riempie tutti gli inter-
valli.
Per sei anni, dal 12 giugno 1978, svolge il suo servizio come priora. Continua ad essere una guida sicura, sa sdrammatizzare e sbloccare le situazioni con la sua arguta simpatia, riportando un raggio di luce nei normali momenti in cui le nubi si addensano sul cielo della comunità. In questi anni, come in quelli passati, avrà modo di esercitare il suo particolare dono del discernimento con un accompagnamento discreto, capace di sostenere le sorelle nel cammino quotidiano. Per incoraggiarle quando inevitabilmente il percorso si fa accidentato le raggiunge con un biglietto: può contenere una frase, un richiamo alla parola di Dio, un augurio.
Nel giugno 1984 è ancora maestra fino all’agosto 1996. La vita del piccolo noviziato del monastero si svolge serena sotto la sua direzione, in un clima di ascolto. I colloqui restano il momento fondamentale: sono una vera ricerca del Signore, scrutando il cuore per discernere la strada da prendere. L’attenzione verso le sorelle a lei affidate è costante e la disponibilità totale.
Con la conclusione del suo servizio di maestra inizia l’ultimo tratto di strada, che sarà lungo e duro da percorrere. Gli ultimi quattro anni saranno segnati dalla totale infermità fisica. Significativa la testimonianza del medico che l’ha seguita in questo ultimo tempo della sua vita:
«Quando la avvicinavo e toccavo le sue membra fragili e delicate, ma permeate di una certa sacralità, per svolgere il mio servizio di medico, sempre me ne tornavo edificata, rincuorata e gioiosa, nonostante tutto. […] sapeva essere estremamente concreta, era sagace e perspicace nelle sue battute, anche spiritose, accompagnate da uno sguardo vispo e un po’ “birichino” e da un sorriso capace di conquistare chiunque. L’impressione che dava era di una persona costantemente in ricerca, ma sempre vigilante nell’attesa di andare incontro al suo Signore».
Il suo letto diventa un punto di attrazione specialmente per i suoi “diaconi”, le sorelle che le prestano assistenza, un luogo dove possono attingere luce e sapienza. Fino all’ultima sera, in cui suor Maria degli Angeli conclude su questa terra la ricerca del suo Signore. È il 18 marzo 2005, vigilia della solennità di san Giuseppe, patrono del monastero.
«Carissima suor Maria degli Angeli – così la ricorda la sua comunità – la tua lampada ha illuminato la nostra casa, ha illuminato la casa di molti! Ora dal cielo risplendi ancora per noi, per tante persone che ti hanno amato e che tu nel Signore hai amato!».
Maria Lara Broggi
1 L. Broggi Maria, Briciole dalla tavola del Re, Città Nuova 2007, Postfazione.
2 Beretta sr. Ersilia, Diario manoscritto, dal 12-12-1956 al 24-4-1957, 105-106.
3 IB., 18-19.
4 Beretta sr. Ersilia, , Diario manoscritto, dal 28-9-1956 al 11-10-1956, 13.
5 Ib, 13.
6 Cardella sr. M. Teresa,
7 Viano sr. Roberta,
8 Così si chiama il cortile della Piccola Casa di Torino su cui si affaccia l’ingresso del monastero “san Giuseppe”.
9 Beretta sr. Maria A.D. Angeli, Fotocopia della lettera autografa indirizzata alle sorelle juniores, giorni successivi all’8 ottobre 1974.
10 Beretta sr. Maria A.D. Angeli, Biglietto manoscritto, dal Monastero San Giuseppe 22 novembre 1974.
11 Ramassotto Elena,
FA’ DELLA TUA VITA
UN DONO D’AMORE
“La fedeltà
nell’amore, in tutte le sue manifestazioni, è essenziale per il percorso che
hai intrapreso per seguire Gesù fino in fondo. Sii cosciente del fatto che
questo dono lo vivi nella realtà della tua fragilità, aperto all’azione della grazia
di Dio in te”.
Fa’ della tua vita un dono d’amore assoluto, riconoscendo che tutto è grazia. Da’ tutto. Datti del tutto. Consegnati: sii tu stesso l’offerta che poni sull’altare. Ricorda sempre che lui ti dice: «Mi compiace tutto ciò che fai per me, ma voglio te, voglio il tuo amore, voglio il tuo cuore, voglio te».
Vivi in una costante delicatezza spirituale; che la tua vita sia un «sì» inesauribile, definitivo. Cerca in tutto e per tutto la perfezione dell’ amore. Incamminati verso una vita nella quale sceglierai sempre ciò che comporta un maggiore amore a una gioia più grande, in una dedizione più piena. Questo è quanto deve definirti nella tua scelta di seguirlo per questo cammino nel quale lo Spirito ti sta invitando a entrare.
Non cercare il perfezionismo, ma l’amore. Vivi la vita in lui con gioia e con allegria, perché saprai in tutto e per tutto di essere amato dal Signore. In ogni giorno della tua vita il Signore ti farà capire che sei stato chiamato a una vocazione di preghiera e di evangelizzazione, se questa è la tua strada. Ma sempre nella chiesa. Vivrai la tua scelta come un autentico privilegio del suo amore.
Non potrai vivere né distratto né disperso, perché l’amore del Padre si aspetta da te una collaborazione illimitata. Ti terrai sempre disponibile, gioiosamente disponibile a dare testimonianza del tuo amore. Se lo vivi nella tua anima, ti sarà facile comunicarlo ai fratelli ai quali ti doni. Se sai di essere impegnato con la croce di Cristo, accetterai il dolore del Signore che si prolunga nel fratello che soffre o che si trova nel bisogno, e parteciperai così della croce che salva per amore. La coprirai con la tua tenerezza, rendendo così noto il suo amore con la tua testimonianza. Sii testimone della dolcezza di Maria con i suoi figli più poveri. Lei è la Madre che condivide la croce. Tu, durante il tuo cammino, avrai innumerevoli occasioni di vivere accanto alla croce e di aiutare a portarla.
Ascolterai la voce insistente di Gesù: «Prendi la mia croce e va’ dai poveri da povero, essendo uno di loro». Lui è il povero, e il suo invito è un invito alla croce, che gli appartiene, e a essere povero con lui. Così vedrai che, nello Spirito della verità, tutta la sofferenza è di Cristo, così come tutta la povertà.
Accetta di vivere in una povertà totale, povertà di cose e povertà di anima: avrai solo il giorno e la notte, ma né il giorno né la notte saranno per te, bensì per Dio e per i fratelli. Che la tua unica sicurezza sia la certezza dell’amore; a questo scopo, accetta di vivere sempre il presente con grande fiducia: non occorre altro. Ti basterà sapere che, se vuoi essere pienamente fedele nel seguire Gesù, devi tenerti disponibile alla volontà del Padre.
Vivi inabissato nell’incontro semplice e umile con la tua stessa realtà. Immergiti nella vita della gente semplice. Fatti carico del clamore dei poveri e rispondi con la disponibilità del dono di te stesso nella vita. È una conseguenza del tuo impegno con il vangelo di Gesù. È la tua risposta al tatuaggio divino che ha marchiato la tua anima. Tutto ciò è essenziale nel cammino. Segui la strada della vita con la convinzione che non ci possano essere in te comportamenti egoisti, come la tristezza, il vivere imperniato su te stesso o il tenere chiuse le porte del tuo cuore. La tua donazione al Signore dovrà esprimersi in generoso spirito di servizio e in fedeltà incondizionata a coloro che condividono il tuo cammino. La fedeltà nell’amore, in tutte le sue manifestazioni, è essenziale per il percorso che hai intrapreso per seguire Gesù fino in fondo.
Sii cosciente del fatto che questo dono lo vivi nella realtà della tua fragilità, aperto all’azione della grazia di Dio in te:
Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte (2Cor 12,9-10).
Jaume Boada,
da La parabola dell’acqua, Messaggero
ALL’ORIGINE DEL DONO E DEL SERVIZIO
VEDERE CON IL CUORE
Chi esercita la carità
in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della
Chiesa. Egli sa che la migliore testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal
quale siamo spinti ad amare è la carità. Sa che Dio è amore e si rende presente
proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare.
Pongo all’inizio di questa riflessione quelli che papa Benedetto XVI chiama gli “Elementi costitutivi che formano l’essenza della carità cristiana ed ecclesiale”. (Deus caritas est 31).1
Premesso che, «secondo il modello della parabola del buon samaritano, la carità cristiana è dapprima semplicemente la risposta a ciò che, in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata: gli affamati devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati in vista della guarigione, i carcerati visitati, ecc.»; premesso questo, dicevo, l’enciclica indica come primo «elemento costitutivo» della carità cristiana la «competenza professionale», ossia la capacità di «fare la cosa giusta nel modo giusto», come pure una certa capacità organizzativa. Ma questa professionalità, da sola, non basta. «Si tratta infatti di esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa di più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’attenzione del cuore». Di qui il secondo, e più importante, elemento costitutivo della carità cristiana: la «formazione del cuore», diciamo pure una tale interiorizzazione di Cristo che sia capace di farci diventare il più possibile come lui, addirittura una cosa sola insieme a lui. Un cuore formato sul modello di Cristo è un cuore per il quale l’amore al prossimo non è più «un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla fede che diventa operante nell’amore» (DCE 31).
Proprio perché il suo modello è rappresentato da Gesù Cristo e nasce dalla fede, la carità cristiana – ecco il suo terzo «elemento costitutivo» – «deve essere indipendente da partiti e ideologie». Benedetto XVI conosce bene la vicenda storica degli ultimi due secoli, il peso esercitato da ideologie politiche che, si pensi soprattutto al marxismo, hanno gettato discredito sulle opere caritative, poiché considerate al servizio della conservazione dello status quo e quindi di ostacolo al pieno dispiegamento della dialettica rivoluzionaria; conosce bene altresì la tentazione che serpeggia in molti partiti politici di strumentalizzare a proprio vantaggio le opere di carità della Chiesa e di presentarsi così come il partito del bene. Ma proprio per questo egli insiste con tanta forza sulla specificità della carità della Chiesa, preoccupandosi che essa non diventi una variante delle tante «organizzazioni assistenziali»; proprio per questo, quale suo quarto «elemento costitutivo», egli insiste con altrettanta forza sul fatto che la stessa carità della Chiesa «non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo». Con parole molto belle Benedetto XVI ricorda che «L’amore gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi (…) Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l’amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la migliore testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. Il cristiano sa (…) che Dio è amore e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare. Egli sa che il vilipendio dell’amore è vilipendio di Dio e dell’uomo, è il tentativo di fare a meno di Dio. Di conseguenza la miglior difesa di Dio e dell’uomo consiste proprio nell’amore. È compito delle organizzazioni caritative della Chiesa rafforzare questa consapevolezza nei propri membri, in modo che attraverso il loro agire – come attraverso il loro parlare, il loro tacere, il loro esempio, diventino testimoni credibili di Cristo» (DCE 31)”.2
Mi fermerò a svolgere alcune considerazioni sul secondo degli elementi costitutivi proposti dal papa: “la formazione del cuore”.
UN CUORE
CHE VEDE
Nello stesso punto il papa afferma che: «Il programma del cristiano — il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù — è “ un cuore che vede”. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente» (DCE 31). La prima formazione relativa al cuore deve riguardare la capacità di vedere. Un vedere che spazia in due direzioni: a) saper vedere quanto abbiamo ricevuto, le nostre origini; b) vedere le necessità dell’altro e dedicarvisi nel servizio.
Un cuore che vede comporta quindi un esercizio a cogliere l’esperienza originaria di amore che sta al nostro inizio (il bene che abbiamo ricevuto), la consapevolezza cioè che il nostro amore nasce da un Amore che ci precede, dall’Amore di quel Dio che “per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo” (DCE 17). È parte essenziale della nostra formazione saper cogliere, “vedere”, che sin dall’inizio siamo inseriti in una realtà di dono. La nostra vita è un dono che abbiamo ricevuto, un’esistenza che è stata sottratta al nulla grazie a una chiamata d’amore di Dio. E non è così scontato avere questa consapevolezza di dovere la nostra esistenza a un dono di amore. È un buon esercizio tornare con la consapevolezza a riflettere sul tanto di amore che c’è all’origine della nostra esistenza, a cominciare dall’atto d’amore tra due esseri umani (i nostri genitori) da cui siamo nati, su, su fino al gesto d’amore di Dio. Una persona che porti dentro di sé l’oscura consapevolezza di non essere frutto di un atto d’amore è gravata di un peso del quale solo con grande fatica potrà liberarsi. In estrema sintesi quindi, per vivere pienamente la nostra capacità di amare e di donarci agli altri è necessario formarci la consapevolezza, coltivarla dentro di noi, che la nostra esistenza è frutto di un atto di amore, che essa è preceduta e si fonda su un atto d’amore gratuito e assoluto. E, ripeto, questa consapevolezza va coltivata nella riflessione, nella preghiera.
Ci tengo a sottolineare un aspetto: nel volontariato così come in qualsiasi azione in cui sia coinvolta la carità non possiamo affidarsi solo al “sentire”, affidarsi solo a ciò che “sente” il cuore. La carità non può essere solo figlia del mio “sentire”, di ciò che mi sento di fare. La carità non è materia che possa rimanere confinata e affidata solo a ciò che mi sento o non mi sento di fare. La carità è una chiamata di Dio che vive dentro ogni essere umano e non può essere vissuta solo come una delle possibilità che ho. La carità fa parte del mio essere una persona, è uno degli aspetti che mi permettono di essere una persona umana, non è un optional. La carità è uno degli elementi che permettono di dare un senso alla mia vita addirittura ne può (ne deve) diventare il senso globale e totalizzante. Amare gli altri quindi non è un appello a cui possiamo o meno rispondere a seconda dello stato d’animo che viviamo e di quanta voglia abbiamo, ma è un compito che siamo chiamati ad assolvere. Amare nella vita di un essere umano non è un optional, è un compito che, se viene tradito, a essere tradita è la mia stessa natura di essere umano. Far rientrare l’amore nelle realtà relative significa relativizzare l’essere umano nelle sue pieghe più profonde. Chi poi pone l’amore nell’ambito dei sentimenti che nascono solo quando mi vibra il cuore (in un romanticismo esasperato), costui prepara la strada all’eliminazione dell’essere umano.
Nell’enciclica Familiaris consortio troviamo espresso con forza questo concetto secondo il quale: “l’amore è la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano” (FC 11). In questo senso possiamo comprendere le parole del grande filosofo Levinas per il quale l’impegno etico, e quindi ogni azione di volontariato, non può essere semplicemente il frutto di una mia decisione, di un mio atto di volontà, ma proprio perché ha come destinatario un’altra persona, un “volto” nella terminologia levinassiana, precede la mia libertà. L’azione di volontariato non ha la sua origine nella mia volontà, né si pone come frutto della mia libertà perché l’azione caritatevole non è un qualcosa che io posso fare, ma è una esigenza che io ho per poter essere un uomo libero. Senza paura di esagerare si può dire che possiamo essere liberi nella misura in cui esiste un altro a cui mi rivolgo con carità. Anche Giovanni Paolo II nella sua enciclica sulla solidarietà aveva affermato: « (la solidarietà) non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone vicine o lontane. Al contrario è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché siamo tutti veramente responsabili di tutti».3
VEDERE
LE NECESSITÀ DELL’ALTRO
Cominciamo così a cogliere la seconda caratteristica del “cuore che vede”, quello che abbiamo chiamato il saper vedere le necessità e i bisogni dell’altro, vedere la quotidianità, la ferialità della persona umana. In questo senso è un cuore di madre, pronto a percepire le piccole necessità, ad essere attento a quelle dimensioni dell’ordinario che rendono la vita serena, armonica. Il “cuore che vede” non corre dietro a fantastiche visioni, a chimere, ma vede ciò che è necessario vedere, vede quell’essenziale che troppo spesso passa inosservato o ci risulta invisibile, cioè quella dimensione del reale che sola ha valore e che vale la pena vedere.4 Ciò che dobbiamo educarci a vedere è «L’uomo “oggettivo” delle vie della storia, è l’uomo debilitato, appesantito dalle passioni che lo bruciano, confuso nelle sue percezioni, facile alle illusioni e ai miraggi, alla mercé dei predatori: è l’uomo “malato”, la pecorella smarrita che corre lungo il ciglio del dirupo. Quest’uomo rimane povero anche quando veste paludamenti satanici; anche quando genera inenarrabili sofferenze e partorisce violenza, egli resta pur sempre senza risorse, profondamente bisognoso, radicalmente malato. È un pover’uomo sotto l’ombra della morte».5
Qui il cuore che sa vedere tutto questo, è un cuore educato a cogliere le necessità e riconoscerle, a commuoversi per esse e ad agire per rispondervi. Questo è in estrema sintesi il movimento che sta alla base di ogni azione caritatevole, improntata cioè all’amore. Ma vediamo nel dettaglio:
a) un cuore che sa cogliere le necessità. Qui la persona si educa a saper vedere oltre le apparenze, oltre le maschere, oltre le prime impressioni. Nel cuore educato a vedere si sviluppa una capacità di percepire la situazione di fragilità e di debolezza dell’altro, di percepirne il grido sommesso, il velo di tristezza che rapidamente passa su uno sguardo, l’incrinazione che si coglie in una frase. È un cuore materno per il quale nulla è insignificante, ma tutto è segno e comunicazione. Dobbiamo apprendere a mantenere uno sguardo d’amore sulla realtà che ci circonda, perché solo uno sguardo che venga direttamente dagli abissi della nostra intimità è capace di essere creatore e di risvegliare e promuovere la vita. Troppo spesso limiti e difetti delle persone rappresentano per noi un sudario nel quale le avvolgiamo facendo della loro vita una realtà priva di calore, immobile, immersa in una penombra opprimente. Lo sguardo d’amore sa penetrare tale penombra, sa vedere oltre limiti e difetti e sa fare intuire che c’è ancora la possibilità di fare tante cose belle, che è sempre possibile ripartire. È uno sguardo che rincuora, infonde nuova speranza e rinnova la fiducia.
b) un cuore che si commuove. Nessuna azione può essere messa in atto senza che alla base vi sia un coinvolgimento che mi smuove fin dall’interno. La necessità che colgo nell’altro non mi lascia indifferente penetra fin nelle dimensioni più profonde. Mi scuote, suscita un’eco dentro di me. E non si tratta di un semplice sentimentalismo, o della lacrimuccia passeggera. No è una emozione che va alla radice della mia stessa identità. Nella necessità dell’altro colgo la radice che ci accomuna, l’origine comune e il destino comune tra me e l’altro. Nella necessità dell’altro faccio esperienza del mistero che ci accomuna. Entrambi apparteniamo a un mistero, entrambi siamo un mistero a noi stessi che nell’incontro con l’altro riceve un’offerta di luce e di, seppur minima, rivelazione. L’altro con la sua necessità «si presenta costantemente come una “domanda”, una questione o una serie di questioni, un mondo da scoprire e da conoscere, un insieme di interessi e valori che non possono non interpellare, una provocazione costantemente rivolta al soggetto, a volte un “enigma”, difficile da decifrare, altre volte una “risposta”, più o meno attesa o difficile da accettare».6 Il fatto che io mi commuovo della necessità dell’altro fa sì che io oltrepassi la frontiera, apparentemente invalicabile, dentro la quale rimanevo al sicuro e mi renda disponibile all’incontro, al rischio dell’incontro, al coinvolgimento nella vita dell’altro. Oltrepassata questa frontiera all’essere umano non sarà più possibile essere indifferente perché grazie al coinvolgimento la mia vita e quella dell’altro sono diventate materia di scambio, di offerta, di coesistenza.
c) grazie alla commozione e al coinvolgimento che la costituisce giungiamo alla esigenza della risposta. L’essere umano si realizza là dove la necessità vista, grazie al coinvolgimento mi porta ad agire per rispondere a tale necessità. Ma quello dell’azione è un terreno infido che ha delle dimensioni di ombra verso le quali è bene mettersi in guardia. Accenno solo ad alcune dimensioni dell’azione che potrebbero snaturare o tradire la sua funzione: 1) L’azione come promozione di sé, come strumento per tentare di primeggiare, come mezzo per ricevere applausi, per sentirsi bravi efficaci, per nutrire il proprio protagonismo, ecc.; 2) L’azione come agitazione per coprire proprie situazioni di disagio o di confusione, per sfuggire a problemi o difficoltà che non si vogliono affrontare; 3) l’azione come umiliazione dell’altro, come mezzo per definire una superiorità sull’altro se non addirittura un possesso, la persona che dà si sente migliore di colui che riceve, la mia azione accentua i limiti e le difficoltà dell’altro; 4) l’azione come sostituzione dell’altro, per cui si crea una forma di dipendenza dell’altro da me, con la mia azione tolgo autonomia all’altro, mi sostituisco a lui e in questo modo ne limito la dignità, il mio agire lascia l’altro in una situazione di infantilismo e di dipendenza.
Al contrario l’azione del volontario, l’azione segnata dalla carità è: 1) un’azione che ha come scopo primo quello di promuovere la dignità e le capacità dell’altro, qualsiasi esse siano; 2) ha come finalità quella di rendere l’altro indipendente da me, autonomo e quindi mira a rendere superfluo il mio intervento (l’azione caritatevole paradossalmente ha tanto più successo quanto più diventa superflua, inutile); 3) pone l’altro al centro come protagonista della sua vita aprendolo, grazie alla fiducia, alla speranza e all’ottimismo; 4) è un’azione che rende attivo l’altro, promuove tutte le sue possibilità ed energie, ne sviluppa tutte le potenzialità e in questo senso deve caratterizzarsi per la fantasia e la creatività; 5) è un’azione che si pone come stimolo e spinta alla libera azione dell’altro e mai mira a possederlo, a trattenerlo, a usarlo per i propri scopi.
Affinché l’azione sia caritatevole deve avere tutte queste caratteristiche, ma soprattutto, come dice il papa nella sua enciclica: «L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umili l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona» (DCE 34). Lo stesso concetto papa Benedetto XVI lo espone in maniera forse ancor più diretta in un discorso fatto a febbraio a gruppi di volontariato: «Il rischio, in effetti, è che il volontariato possa ridursi a semplice attivismo. Se invece resta vitale la carica spirituale, può comunicare agli altri ben di più che le cose materialmente necessarie: può offrire al prossimo in difficoltà lo sguardo di amore di cui ha bisogno».7
FORMARE IL CUORE
ALLA GRATITUDINE
Una dimensione cui dobbiamo educare la nostra affettività e quindi il nostro cuore è senz’altro quella della gratitudine. Che non è solo, come dicevamo all’inizio gratitudine per il dono d’amore che è all’origine della nostra esistenza, ma è gratitudine per la possibilità che ci è offerta di servire il povero. «Federico Ozanam insegnava ai suoi amici universitari che i poveri vengono in soccorso alla nostra fede, perché ci permettono – come Gesù permise a Tommaso – “di mettere il dito e la mano nelle piaghe di Gesù” e “di vedere i segni della corona di spine sulla loro fronte”, e ci permettono “di pronunciare il Dominus meus et Deus meus del credente”».8 Sappiamo quanto don Calabria teneva a rendere consapevoli i benefattori che la loro carità, i benefici e le offerte che facevano alla casa, erano un’autentica grazia “per loro”. Il poter fare la carità, il poter servire, nella visione di don Calabria, equivaleva alla chiamata a una dignità tutta particolare. Ugualmente per chi dà del suo tempo, per chi offre un servizio, per chi si dispone a vivere la carità con la vita vissuta, il povero deve essere considerato una grande chiamata a una eccelsa dignità. Una nomina regale! Poter lavorare nella vigna del Signore è un dono. Forse è difficile pensarlo, ma il fatto di dare qualcosa, di servire nell’Opera equivale a un ricevere, e un ricevere moltissimo. Se fosse presente questo senso di gratitudine per poter fare qualcosa nella vigna del Signore probabilmente tanti mugugni si spegnerebbero o non avrebbero più alcun senso.
Viviamo un’epoca in cui la gratitudine è sentimento raro, è merce finita tra i fondi di magazzino. Viviamo il tempo dell’affermazione dei diritti, della necessità di soddisfare le mie necessità, di realizzare le mie aspettative. Ma questo ci lascia sempre in uno stato di recriminazione: non è mai abbastanza quello che abbiamo ricevuto, avremmo dovuto ricevere sempre di più, il mondo è sempre in debito con noi. Un cuore che vivesse questa serie di sentimenti e che non fosse quindi permeato dalla gratitudine, avrebbe ben poca possibilità di vivere un’autentica carità. La carità infatti non è una delle voci da mettere nel nostro bilancio tra i crediti per i quali attendersi un ricavo. La carità è una moneta che dobbiamo essere grati di poter spendere e spendere in abbondanza, dilapidare. Il libro mastro della carità ha solo una voce in uscita e nulla in entrata (se non il capitale iniziale, di cui parlavamo all’inizio, della consapevolezza dell’amore originario di Dio da cui siamo nati). Attendersi il pareggio di bilancio ci porterebbe a vivere in uno stato d’animo di costante recriminazione.
Ma lasciar vivere e svilupparsi dentro di noi un senso di gratitudine per il servizio che ci è data la possibilità di realizzare significa anche sottrarsi a una visione che vede il nostro agire caritatevole come qualcosa di fuori dall’ordinario che si pone come eccezione alla regola dell’egoismo. Il gesto di carità non può diventare equivalente all’elemosina che ogni tanto faccio, la carità, l’agire con carità è l’ordinario, è il filo che tiene insieme i pezzi della nostra esistenza quotidiana. La carità unifica la mia vita, la rende comprensibile, solida. L’azione caritatevole mi aiuta a definirmi, a dire chi sono, mi realizza nella completezza del mio essere persona e dunque anche per questo devo essere grato per poter agire in modo caritatevole.
FORMARE IL CUORE
AL PERDONO
Per poter mettere in atto un gesto caritatevole dobbiamo essere in grado di perdonare. Il perdono è ciò che sostiene un rapporto d’amore. Anzi è ciò che sostiene il mondo. «Un vecchio rabbino soleva dire che quando Dio creò il mondo, non riusciva a farlo stare in piedi. Poi creò il perdono, e il mondo stette in piedi».9 La capacità di perdonare è il segno evidente della nostra appartenenza a una dimensione che supera il semplicemente umano: «Il perdono – dice mons. Luciano Mendes de Almeida – è il più bel fiore della creazione, è il simbolo del cristiano». È molto importante educarci al perdono perché è il perdono che rende il nostro cuore abitabile dall’altro: «Un cuore agitato di preoccupazioni, rabbia e gelosie, causa delle ferite a chi vi entra. Devo creare in me una zona libera. Per poter invitare gli altri ad entrare e guarire... Ciò significa una interiorità dolce, un cuore di carne e non un cuore di pietra, uno spazio dove si può camminare a piedi nudi» (Henry J. Nouwen). Grazie al perdono sappiamo creare questa “zona libera” e deve essere un perdono che si esprime in due direzioni: a) saper perdonare a me stesso; b) saper perdonare agli altri. Senza queste due dimensioni è molto difficile poter realizzare dei gesti caritatevoli. La carità non si regge senza il perdono. Infatti: «Solo un cuore misericordioso può farsi vicino al cuore di un altro, in modo da entrarvi delicatamente, percepirne i battiti e gli umori, le tensioni e le accelerazioni, con tutto quanto questo significa (…) Entrare nel cuore di un altro suppone l’essere entrati prima nel proprio cuore, conoscerne bene mura e sotterranei, avere dimestichezza col suo linguaggio e i suoi messaggi; vuol dire in qualche modo avere misericordia del proprio cuore, sapere che in esso convivono il santo e il peccatore, l’ordine e il disordine, le più nobili aspirazioni e le più forti tentazioni…».10
Perdonare noi stessi quindi significa riconoscere le ferite che segnano e hanno segnato la nostra esistenza, cogliere quella domanda che giace assai spesso inespressa nel fondo del nostro cuore rispondendo alla quale la persona si libera e diventa quella “zona libera” di cui parlava Nouwen prima. Riconoscere cioè una sofferenza che alberga in noi che può consistere in situazioni che hanno incrinato il nostro bisogno di stima, di affetto, di comprensione, di riconoscimento, di appartenenza, di sicurezza. Il perdono può diventare quella chiave capace di disserrare la porta oltre la quale si dipana il senso misterioso della nostra esistenza.
Troppo spesso ci troviamo ad esigere dagli altri che ci chiedano perdono per il semplice motivo che noi non sappiamo esprimere la domanda, il mistero, che giace in noi e non sappiamo così perdonare a noi stessi. «Nel pensare gli eventi trascorsi noi siamo pienamente giustificati se avvertiamo, talora, sani rimpianti e consapevoli rimorsi. Ma da qui è facile scivolare verso altri sentimenti non altrettanto sani. Così, per esempio, ruminazioni e recriminazioni, ripicche, rancori, rabbie retrospettive e risentimenti, e autorimproveri a lungo rielaborati e reiterati rimproveri verso altri per le cose accadute, o non accadute, e sensazioni oscure di aver diritto a un risarcimento in quanto ingiustamente trattati dagli altri o dalla sorte, o nostalgie di un fantasticato mondo dorato dell’infanzia, sono tutti sentimenti, sempre, assai più negativi che utili».11 La persona che si perdona giunge a non aver più bisogno delle scuse degli altri. Certi disagi, amarezze, piccole insoddisfazioni hanno alla loro base una certa scontentezza verso noi stessi: «ci accorgiamo di non essere mai all’altezza delle situazioni, delle speranze, dei desideri, delle illusioni, e facciamo fatica a perdonarci; per lo più passiamo sopra, cerchiamo di non pensarci, ma non ci perdoniamo».12 Colui che non si perdona si nutre di un’insaziabile illusione di voler essere diverso da quello che è, arde di un desiderio insoddisfatto di diventare qualcosa d’altro rispetto a quello che è, di cambiare la sua storia il proprio passato. «Se esaminiamo tanti atteggiamenti nostri e altrui, ci accorgiamo di fatto che le chiusure di dialogo e i meccanismi di difesa hanno spesso la radice in risentimenti non sanati.
Quante volte ci domandiamo: Perché sono così? Perché faccio cose che non vorrei fare? Perché mi chiudo e non so comunicare? Perché questo disagio e malessere? È possibile che la risposta stia proprio nella mancanza di perdono, che ci incatena a situazioni passate, di cui abbiamo dimenticato l’origine, o forse è il presente che ci rimanda a situazioni spiacevoli del passato».13
Sulla base del perdono che sappiamo dare a noi stessi siamo in grado di offrire perdono anche agli altri. Quante volte chi ci avvicina ha essenzialmente bisogno di questo: di sentirsi perdonato, radicalmente perdonato. Non per piccole mancanze, per fragilità o debolezze, per piccoli peccati, no. Ma perdonato in profondità di fronte a quel senso di inadeguatezza verso la vita, le attese della vita verso le quali ci sentiamo inadempienti. Perdonare l’altro significa fargli sentire un’accettazione profonda, un’accoglienza del suo essere così com’è. Un dire di sì al fatto che lui c’è ed è qui e che è bello tutto questo.
EDUCARE IL CUORE
A CERCARE
Vi è un’ultima dimensione cui vorrei ponessimo attenzione quando parliamo di formare il cuore. Si tratta di educare il cuore a “cercare”.
Cercare suppone un aumento di attenzione, un’accentuata scrupolosità nel guardare alla realtà. Vorrei però dare almeno due indicazioni sul significato del nostro cercare.
Quando cerchiamo una cosa che abbiamo perduta o quando cerchiamo una persona tra la folla, la nostra attenzione deve aumentare, facciamo uno sforzo di concentrazione. Immersi nel buio aumentiamo la nostra attenzione per cogliere anche i più piccoli segnali di luce. Allo stesso modo quando la realtà è particolarmente buia, oscura, sprofondata nelle tenebre dobbiamo accentuare lo sforzo per intravedere i minimi spiragli di luce. Questo atteggiamento deve caratterizzare il nostro agire caritatevole. Un gesto è caritatevole nella misura in cui cerca di cogliere le scintille minime di luce che vi sono nella realtà o nelle persone. Non c’è carità senza questo atteggiamento di ricerca della luce che sempre esiste, qualunque sia la realtà con cui dobbiamo confrontarci. Nella cultura ebraica la luce è imprigionata nel buio. Compito dell’ebreo buono e pio è quello di liberare la luce. In che modo? Con le proprie azioni: buone e pie. È la grande responsabilità del perfezionamento della creazione che la religione ebraica affida all’uomo. Il fatto di cercare i segni della luce residua in ogni realtà o persona è già un atto d’amore. Il volontario è simile agli astronomi che passano la vita investigando il buio cercando tracce residue di luce provenienti dalle profondità del cosmo. Ma il volontario anziché essere dotato di potenti telescopi per perlustrare il cielo, indaga la realtà e l’infinito delle persone che incontra con il suo sguardo amorevole, con la potenza che gli viene dalla carità. Si tenga poi presente che la capacità di cogliere la luce presente nella realtà e nelle persone coincide con quel tanto di luce che brilla dentro di lui. Dice al riguardo sant’Agostino: «Una cosa è la luce che gli occhi vedono e un’altra quella che consente agli occhi di vedere. Questa luce che rende manifeste le cose è certamente dentro l’anima». Se arde dentro di noi la luce dell’amore, se il nostro cercare è motivato dall’amore, le altre luci presenti nella realtà e nelle persone che incontriamo si manifesteranno e noi sapremmo coglierle e donare loro evidenza e forza.
Ma cercare significa anche mettersi sulla strada, uscire per andare oltre i limiti della nostra sicurezza, attraversare confini, superare orizzonti, affrontare l’incertezza di territori sconosciuti. Educarsi a cercare significa quindi anche educarsi alla precarietà, al dubbio che il prossimo passo non possa trovare un terreno solido e sicuro, educarsi a rimanere sui bivi della vita perché è là che si incontrano le persone. Il bivio è il luogo dove maggiormente la persona ha bisogno di un aiuto, di un sostegno di un consiglio. Il bivio è luogo della sosta e del ristoro prima di affrontare il nuovo tratto di strada che ci attende. Ed è lì che è importante poter trovare qualcuno che ci rassicuri che ci tranquillizzi sulla via, che ci aiuti a comprendere la “nostra” strada. Cercare quindi significa anche voler stare ai bivi della vita, agli incroci dove si decidono le svolte, ai crocevia dove si definiscono i percorsi successivi. Educarci a cercare significa educarci a confrontare con i dilemmi, i dubbi, le incertezze, le indecisioni che caratterizzano i momenti cruciali dell’esistenza, i momenti in cui la persona ha maggiormente bisogno di una vicinanza amorevole e di una indicazione che nasca dall’amore. Cercare quindi significa porsi sulle tracce di tutti gli smarriti che non hanno più chi li ami, chi li ricerchi, chi li ritrovi.
LA PARABOLA
DELLA CANNA DI BAMBÙ
Permettetemi di concludere con un racconto che altre volte avrete avuto occasione di ascoltare. Oggi questa favola ci offrirà una luce in più per capire il senso e l’origine del nostro donare e servire.
C’era una volta un meraviglioso giardino, che si trovava al centro di un grande regno. Il padrone del giardino aveva l’abitudine di passeggiarvi nella calura del giorno. Il più bello e il più caro di tutti gli alberi, di tutte le piante e di tutta la vegetazione del giardino, era un certo vecchio e nobile albero di bambù. Anno dopo anno, il bambù cresceva, diventando sempre più bello e incantevole. L’albero era consapevole che il padrone lo amava e si compiaceva di lui. Un giorno il padrone si accostò impensierito al suo diletto albero, e il bambù, con grande sentimento di affetto e deferenza, piegò la sua poderosa chioma verso terra. Il signore gli parlò e gli disse: «Mio caro bambù, ho bisogno di te».
Il bambù era raggiante di felicità: era venuta la grande ora della sua vita. Rispose: «Eccomi signore, usami pure come vuoi».
La voce del padrone si fece seria: «Bambù, per poterti usare dovrò tagliarti!».
Il bambù tremò da cima a fondo: «Tagliarmi signore? Io, che tu avevi coltivato con il più bell’albero del tuo giardino. No, ti prego, questo no! Usami per la tua gioia padrone ma non tagliarmi!».
«Se non ti taglio non posso usarti».
Nel giardino si era fatto un silenzio profondo. Il vento aveva cessato di spirare. Lentamente il bambù chinò di nuovo la sua maestosa chioma e sussurrò: «Padrone, se proprio non puoi usarmi senza tagliarmi, fa pure di me quello che vuoi e tagliami». E così dicendo gli offrì la sua chioma regale, perché la tagliasse.
Il padrone soggiunse: «Devo però troncarti anche i rami!». «Ah! Signore, risparmiami tale scempio! Distruggi pure la mia bellezza, ma per favore, lasciami i rami e le foglie».
«Se non te li recido, non posso adoperarti», rispose.
Il sole nascose la sua faccia. Una farfalla se ne volò via impaurita.
Allora il bambù bisbigliò: «Signore, troncali e prenditeli pure». E il padrone lo fece.
«Mio bambù – riprese il padrone –, ho bisogno di qualcos’altro. Mi serve il tuo tronco per tagliarlo a pezzi, perché solo così posso davvero usarti».
Allora il bambù piegò il suo tronco divenuto spoglio e, chinandosi fino a terra disse: «Padrone, prendilo e taglia».
Così il signore del giardino abbatté il bambù, prese la sua chioma, i rami e le foglie e infine il tronco, che divise in mezzo. Poi portò amorevolmente il fusto diviso in due attraverso il deserto sino alla sorgente d’acqua viva, posò cautamente il tronco sul terreno, in modo da imboccarne un’estremità alla fonte e farne sboccare l’altra nel canale di irrigazione scavato nei campi arsi dalla siccità. La limpida e scintillante acqua che sgorgava dalla fonte della vita prese a scorrere attraverso il corpo diviso del bambù e dilagò per i campi riarsi, che tanto a lungo avevano atteso la sua vivificante frescura. Così si poté seminare e piantare. E se ne ricavò un’abbondante messe, che saziò la fame di tanti uomini.
Il bambù, quando era ancora il più bell’albero del giardino, viveva soltanto della propria linfa. Ora, si era dato tutto al suo padrone e si era lasciato fare completamente a pezzi, perfino il tronco. Ma essendo vuoto e cavo, adesso poteva accogliere, proprio in quel vuoto, la pienezza inesauribile dell’acqua viva, e la sentiva scorrere benefica e vitale dentro al proprio corpo. E quantunque non trattenesse quell’acqua per sé ma continuasse a darla via, il suo corpo, sebbene morto, era sempre pieno, colmo di acqua viva.
Il segreto del dono e del servizio, l’origine della carità, non può essere altro che la consapevolezza di un amore che ci supera. Non si può donare e non si può servire se non per amore, un amore che ci condurrà, se ne saremo degni, a dare non solo qualcosa di noi stessi, ma tutto intero ciò che siamo, perché solo quando avremo dato tutto potremo dire di aver raggiunto la meta, lo scopo della nostra esistenza. Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù del 1° aprile afferma: «Sulla croce Cristo grida: “Ho sete” (Gv 19,28): rivela così un’ardente sete di amare e di essere amato da ognuno di noi. Solo se arriviamo a percepire la profondità e l’intensità di un tale mistero, ci rendiamo conto della necessità e dell’urgenza di amarlo a nostra volta come lui ci ha amati. Questo comporta l’impegno di dare anche, se necessario, la propria vita per i fratelli sostenuti dall’amore di lui. Già nell’Antico Testamento Dio aveva detto: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv 19,18), ma la novità di Cristo consiste nel fatto che amare come lui ci ha amati significa amare tutti, senza distinzioni, anche i nemici, “fino alla fine” (cf. Gv 13,1).14 In tutto questo dunque la nostra guida è la Croce di Cristo l’unica a renderci capaci di percepire la luce delle stelle dentro l’oscurità della notte, l’unica che ci permette di intravedere il colore dei fiori in mezzo alle dure pietre che coprono le strade della nostra esistenza.
Fr. Carlo Toninello
1 La presente riflessione è stata tenuta da fr. Toninello, dell’Opera Don Calabria all’Assemblea ordinaria della Associazione di Volontariato Calabriano “Francesco Perez”, Verona 25 marzo 2007.
2 S. Belardinelli, “Carità e filantropia”, in Livio Melina – Carl A. Andreson, (a cura di), La via dell’Amore. Riflessioni sull’Enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI, RAI-ERI 2006, 270-271
3 Giovanni Paolo II, Sollecitudo rei socialis, 38
4 “…percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?”, Cristina Campo, «Una rosa», in Id., Il flauto e il tappeto, Rusconi 1971, p. 13.
5 B. Petrà, La chiesa dei Padri, EDB, 2007.
6 A. Cencini, Nell’amore, EDB 1995, 15.
7 Benedetto XVI, Omelia del 10 febbraio 2007.
8 A.M. Sicari, Ci ha chiamati amici, Jaca Book 2001, 101
9 Editoriale, in La Rivista del Clero Italiano 2,. Vita & Pensiero 2007, 85.
10 A. Cencini, “Come rugiada dell’Ermon…”, Paoline 1998, 98.
11 G. Jervis, La conquista dell’identità, Feltrinelli 1997, 65.
12 Carlo Maria Martini, “Perdono e contentezza”, in Vita Consacrata 5 (1999), 452.
13 S. Cherubini, Il fiume della nostra vita, AdP-Roma 1998, 43.
14 Benedetto XVI, Messaggio per la XXII Giornata Mondiale della Gioventù, 1 aprile 2007.
SAN BENEDETTO
E L’IMPRESA MODERNA
La Regola di San Benedetto, una saggezza antica al servizio dell’impresa moderna: così recita il sottotitolo di un volume di Massimo Folador, ex dirigente d’azienda e consulente, presidente dell’associazione Verso il cenobio. Un’opera che ci conferma, se mai ne avessimo bisogno, del fatto che i monasteri benedettini sono un esempio illuminante di organizzazione perfetta che molte cose può dire al mondo manageriale, grazie alla corretta gestione di valori condivisi, a una leadership diffusa e alla capacità di far lavorare insieme persone motivate e consapevoli delle proprie responsabilità.
MONACHESIMO
AL SERVIZIO DEL MODERNO
Questo libro ha raccolto e sviluppato le tematiche degli incontri di un gruppo di amici presso l’Eremo di S. Caterina del Sasso (Lago Maggiore). «Il monachesimo della Regola non è un hortus conclusus ma una fucina aperta di civiltà che dal monastero si riversava poi sull’intero orbis terrarum: un cenacolo di forze nuove che resisterà all’urto delle orde dei barbari e risolleverà rigenerate le rovine dell’impero di Roma… Benedetto da Norcia, non era un antico filosofo e neppure un grande teorico del comportamento umano, ma l’ultimo grande figlio di Roma che, fuggito da quella civiltà ormai al collasso, ha portato con sé nella solitudine, tutti quei valori che sono stati l’ispirazione e la forza di un popolo che per secoli ha dominato il mondo. La sua rivoluzione spirituale e culturale, dopo una precisa formazione personale, distribuisce la giornata del monaco fra la preghiera e il lavoro con una concezione nuova di democrazia, di giustizia e di identità personale, anticipando di secoli le conquiste sociali dell’umanità… L’habitat benedettino con la sua dottrina umana e sociale può ispirare delle radicali scelte di una nuova ascesi laicale in una metanoia verso valori civili e umani che dal mondo silenzioso del chiostro possono trovare felice e fruttuosa accoglienza anche da parte dell’uomo del nostro tempo» (dalla Premessa di p. Roberto Comolli osb, pp. 11-13).
IL MOTORE
DEL CAMBIAMENTO
Il mondo dell’impresa vive da anni un momento di profondo cambiamento. In certe situazioni accade per di più che la risorsa più importante, l’uomo, che dovrebbe gestire questo cambiamento e coglierne le opportunità, è una persona spesso confusa e disorientata. Partire dunque dalle specifiche realtà significa che non esistono interventi o corsi precostituiti. D’altra parte anche Benedetto afferma parlando all’abate: “Sappia qual cosa ardua e difficile egli ha intrapreso col dirigere anime e adattarsi al carattere di molti”.
In quest’ottica vanno letti i capitoli II-V del nostro libro: Mission, valori e comportamenti (le abilità cardine per creare e sviluppare un team a partire dai principi); Guidare sé stessi (la persona in azienda e fuori, principi essenziali ed esperienze per governare azioni ed emozioni); Guidare gli altri (la leadership nella comunità azienda, gestire con efficacia, delegare e motivare le persone nel tempo e con continuità); Una comunità organizzata (ruoli, mansioni e responsabilità, la gestione del tempo e delle priorità, saper comunicare, la comunicazione organizzata e interpersonale).
Folador, al fondo, rivela la sensazione di inadeguatezza che l’ha spinto a scrivere. Siamo in un paese che per secoli ha irradiato ideali e cambiamenti in tutta Europa: nell’arte come in politica, in architettura e in economia. Da qui nasce oggi la sensazione di una ricchezza abbandonata e di un impoverimento diffuso. «È nei momenti di insofferenza che spesso capita di ritrovare il gusto per la curiosità, la voglia di comprendere ciò che sta accadendo e grazie a esse il desiderio di guardare oltre il perimetro degli avvenimenti e provare a individuare nuove soluzioni. Nel mio caso l’occasione fortuita è stata, oramai diversi anni fa, la visita a una piccola comunità benedettina che vive in un eremo abbarbicato sulla sponda lombarda del Lago Maggiore. Da quel primo incontro, grazie alla disponibilità e all’aiuto del padre benedettino responsabile dell’eremo e alla gentilezza delle oblate che lì vivono da anni, è nato il desiderio e la possibilità di approfondire ciò che via via andavo scoprendo nelle lunghe ore di silenzio e di meditazione trascorse assieme» (p. 18 e ss.).
Ricordiamo che nelle abbazie benedettine, per una cultura che vedeva nel lavoro un momento fondamentale nella crescita dell’individuo, hanno avuto la luce innovazioni sia dell’attività produttiva che di quella agricola (primi oleifici, vetrerie e cartiere, istallazione sistematica di mulini ad acqua). Sempre ai benedettini, abili architetti e progettisti, dobbiamo la realizzazione di alcune bonifiche o l’invenzione di strumenti e metodi di lavoro per nuove produzioni (orologeria, farmacia, enologia ecc.). Gloria Cuccato nel libro “San Benedetto, un uomo che desidera la vita”, riassume con efficacia questa vitalità: «Diverse sono le ragioni di questo sviluppo. In primo luogo i monaci erano in generale più istruiti rispetto al resto della popolazione; inoltre la dinamicità che caratterizzava l’esperienza monastica medioevale, come le continue fondazioni di nuovi monasteri e le frequenti peregrinazioni dei monaci, favoriva il confronto e lo scambio di esperienze». Un meticciato culturale che ci porta dritti dentro la modernità e che evidenzia come nella cultura benedettina esista una sorgente laica, legata all’uomo, qualunque sia la sua origine, il suo credo e le sue convinzioni.
Chissà, dice Folador, che un vecchio manuale a uso di un monastero non ci indichi una via sicura per gestire e guidare quel cambiamento che tutti auspichiamo ma i cui effetti positivi sembrano ancora ben lontani (p. 25).
1 Il volume dal titolo L’organizzazione perfetta è edito da Guerini E Associati, Milano 2006, pp. 198, € 19,50.