SCARSITÀ E ABBANDONI
Caro p. Arrighini,
sono un padre gesuita. Abito a Bagheria, in prov. di Palermo. Ho letto con
interesse il suo articolo a commento del libro di A. Pardilla sulle statistiche
del calo dei religiosi in questi ultimi 40 anni. Lei auspica – giustamente –
che l’autore completi l’opera allargando la ricerca anche ad altre
congregazioni e poi alle religiose (Testimoni, 12/2007).
Comunque noto che “niente di nuovo sotto il sole” se lo paragono con quanto
dice la storia della Compagnia di Gesù. Le riporto intanto il paragrafo del
libro di J W. O’ Malley: «Tra quelli ammessi quanti poi abbandonavano? I dati,
benché spesso frammentari ed imprecisi, rivelano per tutta l’Europa un quadro
piuttosto coerente. Secondo un’indicazione attendibile, in Italia tra il 1540 e
il 1565 circa il 35 per cento dei candidati abbandonò o fu congedato, ma è
possibile che la percentuale sia più alta…. Di quanti entravano prima dei
diciotto anni il 44 per cento finiva con l’abbandonare. Queste percentuali
sembrano essere più o meno le stesse per le altre province maggiori» (“I primi
gesuiti”, Vita e Pensiero, 1999, cfr. p. 65).
Pare che Sant’Ignazio stesso, verso la fine della vita si sia rammaricato
d’aver accettato troppe persone nell’ordine e anche uno dei suoi più importanti
collaboratori, il p. Nadal, anch’egli verso la fine della vita, si lamentava
del numero degli inetti nella Compagnia e raccomandava che si facessero prove
più accurate prima dell’accoglienza e che si dessero dimissioni più pronte per
quanti si dimostravano inadatti (op. cit. pag 70).
Mi sorge però già un’altra esigenza. A me pare che il campione sia già
sufficiente per orientarsi piuttosto verso un approfondimento d’altro genere:
“quali sono state e quali sono le principali cause di questo fenomeno?”.
Sono sicuro che sarà difficile sapere esattamente le informazioni precise
dai vari istituti “sui perché”. Si entrerebbe in un campo di riservatezza molto
delicato. Però qualche cosa si dovrebbe pur poter sapere almeno in termini di
cause generali, per es.: chi è stato dimesso e chi se n’è andato “sua sponte”;
e comunque se la dimissione fu dovuta a causa della difficoltà dell’osservanza
del voto di povertà o di castità o di obbedienza; oppure ancora se per non
accettazione della vita religiosa in generale; oppure per difficoltà
caratteriali; oppure per la perdita della fede”.
Perché i numeri sono indicatori, sì, ma non basta in vista di una prognosi
seria. Non si potrebbe per es. pensare che grazie al Concilio sia avvenuta una
buona “scrematura” di soggetti non adatti e che quindi la diminuzione sia una
cosa benefica?
Oppure al contrario che “la vita religiosa” nel suo complesso non sia
riuscita a stare al passo con la novità di vita cristiana e religiosa promossa
dal Concilio; che della novità del Concilio si siano prese, a volte, le cose
più esteriori e superficiali e non lo spirito più profondo? Tempo fa ad una
piccola riunione con un teologo siciliano ben noto, ho sentito asserire da lui
che la Chiesa ha fallito completamente “la scommessa della povertà” lanciata
dal Concilio. E questa potrebbe essere quindi già una forte causa di crisi
della vita religiosa in particolare, oltre che di altri settori della vita
cristiana.
Comunque spero che vengano seri approfondimenti da chi può ed è deputato a
farli, sia per mettervi rimedi e sia per non creare sensi di colpa se, per la
soluzione di questo fenomeno, si arrivasse a comprendere che non c’è da fare
altro che aspettare semplicemente… il tempo.
Che poi la vita religiosa scompaia è poco probabile se almeno siamo attenti
a tanti segni di risveglio di nuovi “polloni” che nessuno avrebbe mai potuto
programmare di far germogliare.
Grazie per avermi ascoltato e buon lavoro a voi tutti dehoniani che fate un
ottimo servizio alla comunità cristiana.
Antonio Damiani s.j
Caro padre,
niente di nuovo – ma
fino a un certo punto! – “sotto il sole”; almeno nei paesi europei, ci sono tre
fatti sempre più preoccupanti e strettamente correlati l’uno all’altro: l’età
sempre più elevata dei religiosi/e, la scarsità di nuove vocazioni, il problema
degli abbandoni.
A proposito degli
abbandoni, nell’assemblea dei superiori generali del novembre 2005 – di cui
sono disponibili gli atti: “Fedeltà e abbandoni nella vita consacrata oggi” –
sono stati presentati i risultati di una ricerca proprio sulle cause di chi
lascia. Su un totale di 409 casi analizzati in istituti religiosi maschili, la
ragione principale degli abbandoni è dovuta ai problemi affettivi (43%). Seguono
a distanza: insoddisfazione e stanchezza, immaturità e problemi psicologici,
conflitti con i superiori e, solo in minima parte, crisi di fede (5%).
Come tutte le
ricerche, anche questa può essere sicuramente molto opinabile. Ma è pur sempre
una possibile spiegazione di un fenomeno che aggiunto agli altri due (religiosi
sempre più anziani e scarsità di nuove vocazioni) mette a dura prova la nostra
fede e la nostra speranza sul futuro di tanti istituti e ordini religiosi.
Sempre in occasione
della stessa assemblea si era parlato di una quadruplice tipologia dei
religiosi “in crisi”: religiosi che lasciano al termine di un serio e sofferto
processo di discernimento vocazionale, religiosi che escono e non dovrebbero
farlo, religiosi che non escono e invece dovrebbero farlo, religiosi che,
superata la crisi vocazionali, continuano a vivere in modo rinnovato la vita
consacrata.
Caro p. Antonio, che
gliene pare? Possono forse bastare questi pochi dati a prefigurare, come spesso
capita di leggere e sentire, una scomparsa definitiva della vita consacrata?
Non sono il solo a pensare che non si dovrebbe mai confondere la vita di un
istituto religioso con quello della vita consacrata in sé. Secondo i dati
forniti da Raymond Hostie, non ci dovremmo mai dimenticare che poco meno di tre
quarti degli istituti e ordini religiosi, nella lunga storia della Chiesa, sono
nati, si sono sviluppati e poi sono scomparsi.
Se, però, come ci
insegna tutta la più recente riflessione teologica, la vita consacrata è un
carisma, un dono dello Spirito Santo alla “sua” Chiesa, dovremmo sicuramente
avere qualche ragione in più per sperare nel futuro ecclesiale di questo
“dono”, anche se domani potrà assumere forme nuove rispetto a quelle finora
conosciute. (A. Arr.).