LETTERA DEL RETTOR MAGGIORE DEI SALESIANI

“FARSI EUCARISTIA”

 

Il cammino intensamente “eucaristico” del post-concilio. Sempre latente il “deficit di vita eucaristica” anche nelle comunità religiose. L’eucaristia, pane “mangiato”, ma anche contemplato e adorato, al centro della vita consacrata.

 

Rientrato da Aparecida, dopo aver vissuto – in occasione della V conferenza dell’episcopato latino americano – «un’esperienza ecclesiale straordinaria», don Pascual Chavez, rettor maggiore dei salesiani e presidente dell’unione dei superiori generali, il 7 giugno, solennità del Corpus Domini, ha inviato alla sua congregazione una lettera su un tema che «gli sta molto a cuore»: “Fare l’eucaristia per farsi eucaristia”. Anche se qualcuno potrebbe forse ritenere ridondante e superfluo un argomento del genere, è un fatto che il cammino della Chiesa, in questi ultimi anni, è stato caratterizzato in senso fortemente eucaristico. I salesiani, impegnati – anche in vista del capitolo generale – in un “ritorno a don Bosco”, sanno non solo che il loro fondatore era un “uomo eucaristico”, ma che «senza vita eucaristica non c’è vita apostolica». In quanto consacrati che hanno scelto Cristo come unico senso della propria esistenza, non possono «non desiderare di instaurare con Lui una comunione esistenziale più piena, quella appunto che si attualizza nel dono della propria vita».

 

DEFICIT

EUCARISTICO

 

L’impressione, però, che non tutti i salesiani – ma neanche tutti gli altri consacrati, aggiungiamo noi – siano riusciti a fare il cammino che la Chiesa si aspetta da loro, in don Chavez è molto palese. Questo “deficit di vita eucaristica” – come lo chiama – era stato già denunziato dal suo predecessore, don Vecchi, ancora nel 2000, quando, parlando della qualità delle celebrazioni comunitarie, vi riscontrava confusione, “esaltazioni della spontaneità”, fretta, sottovalutazione della gestualità e del linguaggio simbolico, secolarizzazione della domenica.

Questo deficit, aggiunge don Chavez, «si può nascondere e crescere (anche) dietro una vita comunitaria regolare e una prassi apostolica a volte frenetica». E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: incapacità di fare della celebrazione dell’eucaristia l’atto centrale quotidiano di ogni comunità, vissuto come una “festa” e assenza di quello “stupore per il mistero di Dio” che nasce «nella assidua contemplazione del suo amore senza limiti svelato nel Cristo eucaristico».

Preoccupato sì, sembra dire il rettor maggiore, ma anche fiducioso. Le mancanze che emergono nella prassi eucaristica sono insite, per certi versi, nella «essenza stessa del sacramento eucaristico». Del resto, perché meravigliarsi tanto? Si tratta di una incapacità connaturale a chi segue Gesù da vicino. Chi ha mai detto, infatti, «che accettare Cristo, pane di vita, è una cosa pacifica, che possiamo dare per scontata, che non richiede preparazione, che non porta delle conseguenze? Niente affatto! Non è questa la testimonianza del Nuovo Testamento».

Il comportamento degli apostoli è quanto mai eloquente. Quante volte Gesù ha denunziato la loro mancanza di fede e l’incapacità di “digerire” le sue parole quando ha offerto la sua carne come “vero cibo” e il suo sangue come “vera bevanda”. Soprattutto parlando della sua passione, ha preannunciato con molta chiarezza il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro e lo scandalo e la fuga di tutti gli altri suoi discepoli. È realmente tragico che, in tutti e quattro i vangeli, l’infedeltà degli apostoli, il preannuncio e il compimento della passione «abbiano come contesto un pasto con Gesù, l’ultima cena, dove Gesù ha messo in atto la sua promessa di consegnarsi come pane e vino». Sono tanti i fatti evangelici sconvolgenti in fatto di fedeltà promessa e non mantenuta. Non ci si dovrebbe mai dimenticare che «oggi come ieri, si può partecipare all’eucaristia e nel contempo alimentare nel cuore slealtà e malafede».

Don Chavez sta parlando a dei consacrati. È questo il motivo per cui il corpo centrale delle sue riflessioni l’ha volutamente incentrato sulla vita consacrata. Se non c’è nessun’altra memoria di Cristo tanto efficace come quella eucaristica – dal momento che solo qui è presente il “Cristo ricordato” – allora è altrettanto vero che nella celebrazione eucaristica e nell’adorazione «noi consacrati troviamo la forza per la sequela radicale di Cristo». “Fare l’eucaristia” significa, infatti, «vivere il mistero pasquale di Cristo, unendoci con Lui nell’offerta della nostra propria vita». È lì che i religiosi sono invitati a immedesimarsi, diventando sua memoria vivente.

 

OBBEDIENZA

E CASTITÀ

 

«L’eucaristia, aveva scritto Giovanni Paolo II, per sua natura sta al centro della vita consacrata, personale e comunitaria» (Ecclesia de eucharistia, 11). Lì, e non altrove, aggiunge Chavez, «i consacrati incontrano il proprio modello e la perfetta realizzazione delle esigenze fondamentali della loro vita». Anzi, come è detto in una proposizione del sinodo sull’eucaristia, proprio nel quadro della spiritualità e della vita quotidiana «risplende la testimonianza profetica delle consacrate e dei consacrati che trovano nella celebrazione eucaristica e nell’adorazione la forza per una sequela radicale di Cristo, obbediente, casto e povero. La vita consacrata ha qui la sorgente della contemplazione, la luce per l’azione apostolica e missionaria, il senso ultimo del proprio impegno con i poveri e gli emarginati e la caparra della realtà del Regno» (39). Se si volesse andare al “cuore” della vita consacrata, basterebbe riscoprire in chiave eucaristica il senso più profondo dei consigli evangelici. È un cuore che «batte al doppio movimento della fraternità (sistole) e della missione (diastole), vissuti entrambi secondo i diversi carismi».

Il nucleo centrale dell’obbedien­za consacrata, osserva don Chavez,  si ritrova nella categoria del memoriale. La vita consacrata intanto può essere memoriale di Gesù Cristo in quanto «continua a far presente, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, la (sua) stessa forma di vita». Anche da una lettura attenta di Vita consecrata appare con molta evidenza come il fulcro e il centro dei consigli evangelici sia collocato nell’obbedienza. Tutta la tradizione biblica sta a ricordare come l’obbedienza sia la principale espressione della fede. Gli stessi «grandi credenti sono dei grandi obbedienti». Sempre secondo la stessa esortazione apostolica, tanto la verginità quanto la povertà sono, in un certo modo, la conseguenza dell’obbedienza. Come nella sua docilità al Padre, Cristo assumendo la forma di vita verginale «rivela il pregio sublime e la misteriosa fecondità spirituale della verginità», così «la profondità della sua povertà si rivela nella perfetta oblazione di tutto ciò che è suo al Padre» (22). Il voto di obbedienza diventa allora «il voto che meglio esprime questa totale appartenenza a Dio, questa totale consegna a Dio fino al punto di non avere altra cosa da fare che identificarsi con la volontà del Padre». Non basta celebrare con decoro e con devozione l’eucaristia. Bisogna saperla tradurre «in una vita di obbedienza, lì dove davvero si fa il memoriale di Cristo e diventiamo una sua memoria vivente».

L’eucaristia non è solo memoriale, ma anche sacrificio, grazie al quale è possibile scoprire il senso più profondo della castità consacrata. E questo va convintamente riaffermato, anche se, a detta di qualcuno, la riforma postconciliare «avrebbe oscurato, o addirittura emarginato, il carattere sacrificale della celebrazione eucaristica». Sulla dimensione sacrificale dell’eucaristia è pienamente concorde tutta la tradizione sia dei sinottici che di San Paolo. Anche da tutta la riflessione teologica più recente emerge un insegnamento arricchente: «non è la sofferenza, ma l’amore, il centro della redenzione come opera del Padre, attraverso Cristo, nello Spirito: Gesù dà la propria vita come massima espressione del proprio amore, come il suo dono più grande!».

Per comprendere, però, come questa dimensione sacrificale dell’eucaristia possa ricollegarsi alla castità consacrata, va tenuto presente un fatto ben preciso. Quando si parla dell’eucaristia come memoriale della morte e risurrezione del Signore, precisa don Chavez, «ciò non è esatto se ci si riferisce alla prima eucaristia» celebrata nel cenacolo. In realtà, l’ultima cena non è stata soltanto una memoria, ma anche un’anticipazione, nel senso pieno del termine, di quello che sarebbe successo sul Golgota. Ora, attraverso l’istituzione dell’eucaristia, nell’ultima cena, Gesù ha così voluto dare a questo atto di offerta una presenza duratura. Gesù, come ha scritto Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est, «anticipa la sua morte e risurrezione donando già in quell’ora ai suoi discepoli, nel pane e nel vino, se stesso, il suo corpo ed il suo sangue come nuova manna» (13).

Senza la celebrazione dell’ultima cena, sarebbe mancata “la prova più forte e immediata” del senso che Gesù volle dare alla propria morte. Il “sacrificio incruento” (per amore) ha quindi preceduto il “sacrificio cruento” (la morte di Gesù sulla croce). «Questo aspetto fondamentale dell’eucaristia in quanto sacrificio come espressione suprema dell’amore di Gesù per noi, sta in intima relazione con la castità consacrata».

 

CONVITO

E ADORAZIONE

 

La prospettiva eucaristica della vita consacrata si manifesta, infine, anche nella realtà del convito, vale a dire nella vita di povertà intesa «non come mancanza naturale o privazione volontaria, ma come condivisione di ciò che si è e di ciò che si ha, come qualcosa di totalmente gratuito». La testimonianza più eloquente in proposito, da parte della comunità cristiana primitiva, si ritrova negli Atti degli Apostoli: «tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune... Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore».

La povertà della persona consacrata, chiarisce don Chavez, non esprime “nessun tipo di rifiuto” dei beni materiali. Non ritiene affatto che lo spogliamento totale di ogni bene sia un ideale da raggiungere. Forse lo poteva essere in alcuni tipi di religiosità orientale. «Il povero, perché credente, accetta con semplicità e sobrietà i doni di Dio, li condivide come espressione del suo amore, in un duplice movimento: all’interno della comunità fraterna, nella condivisione totale dei suoi beni, e verso l’esterno, nell’invito a partecipare a questo banchetto del Regno». Se c’è una dimensione evangelica da privilegiare, è quella dell’attenzione ai più poveri e agli abbandonati, agli emarginati, ai peccatori, a tutti gli umanamente insignificanti. Solo in questo modo «la povertà evangelica diventa libertà per poter andare ad invitare i “lontani” al banchetto del Regno».

Eucaristia e vita consacrata sono in così stretta relazione «che l’una non trova spiegazione né fondamento senza l’altra». Il consacrato non può essere né rimanere tale senza diventare “uomo dell’eucaristia”. La consacrazione religiosa, infatti, ha una struttura eucaristica: è totale oblazione di sé e, proprio perciò, resta strettamente associata al sacrificio eucaristico (Ripartire da Cristo, 26).

Non solo per i consacrati, ma anche per tutti i cristiani l’eucaristia è fonte di spiritualità, capace di modellare la “forma eucaristica” dell’esistenza e favorendo una sempre più piena conformazione a Cristo. È proprio della dinamica eucaristica passare dalla celebrazione di un rito alla conformazione con il mistero, da una intensa adesione effettiva con il dono della propria vita alla adorazione del Signore crocifisso e risorto presente nell’eucaristia, dalla contemplazione del Cristo consegnato alla missione di trasformarsi in pane spezzato per gli altri.

Tutto questo è possibile solo a condizione che la celebrazione eucaristica non sia ridotta ad una semplice ripetizione dei gesti esteriori compiuti da Gesù nel cenacolo, ma divenga, invece, realmente un memoriale che attualizza e rende presente l’evento ricordato. Questo, però, è possibile «nella misura in cui la celebrazione conduce alla contemplazione del mistero che si attualizza». L’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in sé stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo» (Sacramentum caritatis, 66).

Adorare Dio è, soprattutto, adorare il Signore. Nell’eucaristia «Cristo non è solo pane per essere mangiato, ma amore per essere contemplato; anzi, senza l’amore donato il segno eucaristico non avrebbe ragione né sostegno» (Mane nobiscum Domine, 30).

«Come vorrei, conclude don Chavez, che tra noi si rafforzi, e dove necessario si ricuperi, quella devozione eucaristica, semplice ma efficace, tanto salesiana, che ha nella visita e adorazione del santissimo sacramento una delle espressioni più preziose e tradizionali!». Non solo per lasciarsi plasmare dalla presenza reale del Signore adorato, ma anche per rispondere «ad un tratto caratteristico del “vissuto carismatico” salesiano.

Non è possibile celebrare e adorare degnamente l’eucaristia rimanendo indifferenti gli uni verso gli altri, senza attingere da questa sorgente la capacità di dare la propria vita per molti. Non è possibile adorare il Cristo presente nel sacramento e non ritrovare l’impegno di dare la vita nel servizio ai più bisognosi. Una devozione svuotata di dedizione sarebbe un tradimento, nello spirito e nella lettera, dell’eucaristia cristiana.

Angelo Arrighini