TERZA ASSEMBLEA ECUMENICA EUROPEA

A SIBIU PER RIPARTIRE

 

L’incontro a Sibiu, in Romania, rappresenta un momento importante per ridare slancio a un movimento ecumenico che mostra un po’ di stanchezza. Come tema è stato scelto La luce di Cristo illumina tutti. Speranza di rinnovamento ed unità in Europa. Sarà centrale la rilettura della Charta oecumenica.

 

Difficile reperire oggi sul mercato, su scala mondiale, un valore più rottamato dell’Europa. Sono passati pochi anni, e sembrano tanti di più, dall’agognato avvento della moneta unica, e ancor meno dall’allargamento dell’Unione Europea a parecchie nazioni che – fino al 1989 – hanno vissuto una storia altra, e ben distante da quella dei suoi paesi fondatori: eppure, sfiducia, disillusione, insofferenza aperta per un’euroburocrazia soffocante come e più di qualsiasi altra dominano la scena del vecchio continente. Mentre le tradizionali nazioni leader stanno attraversando fasi che, per motivi diversi, non lasciano presagire particolari accelerazioni verso un’unificazione reale.

Eppure, è in un contesto del genere, scoraggiante più che semplicemente problematico, che le chiese europee hanno scelto di celebrare il loro terzo appuntamento comune nell’arco di neppure due decenni: e a Sibiu, in Romania, dal 4 al 9 settembre si terrà l’ulteriore tassello del processo conciliare su Pace, giustizia e salvaguardia del creato. Avviatosi proprio in quell’ormai lontano ’89 in Svizzera, a Basilea, e proseguito nel ’97 con l’assemblea di Graz, con la tappa di Sibiu esso inaugura una buona serie di prime volte: è la prima volta nel terzo millennio, ed è soprattutto la prima che un evento del genere si svolge in un paese a netta maggioranza ortodossa (info www.eea3.org). Con tale decisione, ripetono gli organizzatori, si è voluto sottolineare la comune appartenenza allo stesso continente, ad un’unica storia e ad un’unica tradizione, sia pur vistosamente plurali…

 

OCCORRE

VINCERE LE STANCHEZZE

 

Basterebbero questi elementi, per rendere ovvia una certa attesa dell’incontro romeno, promosso, come sempre congiuntamente, dalla KEK (Conferenza delle chiese europee) e dal CCEE (Consiglio delle Conferenze episcopali europee), che affronterà il tema La luce di Cristo illumina tutti. Speranza di rinnovamento e unità in Europa. I due enti, dopo non poche titubanze, hanno maturato la consapevolezza che il nostro continente abbia oggi urgente bisogno di una nuova testimonianza comune dei cristiani. Peraltro, va detto con franchezza, la sensazione diffusa presso gli addetti ai lavori è che l’informazione al riguardo, almeno nelle chiese italiane, sia al minimo storico e che la preparazione all’evento abbia toccato appena sparuti gruppi di appassionati. Che, nel complesso, si sia fatto ben poco per allargare la schiera dei coinvolti nel processo… E che, infine, facendo un paragone, rispetto a Sibiu, gli approcci alle tappe di Basilea e Graz siano stati ben più partecipati, persino dalle chiese locali. Con il rischio, assai tangibile, di continuare a vivere l’ecumenismo come la cenerentola della pastorale ordinaria, o meglio: come un argomento di pochi, che si concedono il lusso di occuparsi di un argomento squisitamente di élite, distante anni luce dalle questioni quotidiane che affliggono le nostre comunità. Molti i motivi di tale panorama in chiaroscuro, e alcuni decisamente complessi; non sempre convinta, si direbbe, la volontà di porvi rimedio.

Certo, qualche causa risulta direttamente collegabile alle difficoltà attuali che sta attraversando il movimento ecumenico: su cui, una volta di più, varrà la pena di soffermarsi, sia pure per sommi cenni. È invalso l’uso di descriverne lo stato di salute ricorrendo a immagini atmosferiche: per cui, se con il concilio Vaticano II e l’Unitatis redintegratio si sarebbe registrata una fiorente primavera dapprima calda di ottimismi e poi sempre più tiepida, oggi dominerebbe un clima invernale carico di brusche gelate. Fuor di metafora, appare evidente come l’ecumenismo stia vivendo una lunga fase di transizione, contrassegnata alternativamente da chiusure identitarie (tante), incertezze (altrettante) e aperture (poche, per quanto significative, fra cui la dichiarazione congiunta fra cattolici e luterani sul tema della giustificazione del 31 ottobre 1999 ad Augusta).

Sul conto della stagnazione, vanno messe soprattutto le delusioni sopraggiunte dopo le mille speranze degli anni sessanta, quando il contesto culturale imperniato sull’ottimismo e la presenza sulla scena di grandi figure impegnate in prima persona nel campo del dialogo (da Giovanni XXIII al patriarca Athenagoras) lasciavano presagire tempi brevi per quella prospettiva di unità nella diversità che non pochi teologi immaginano come il modello più sensato per un itinerario centripeto che però rispetti le differenze, recependole più come occasioni di arricchimento reciproco che di reciproco sospetto. La stanchezza, e una certa sfiducia ricorrente, hanno preso il posto dell’ottimismo, e l’ecumenismo è stato, di regola, derubricato da caso serio a uno dei tanti: fra l’altro a dispetto del fatto che, sempre più palesemente, nei paesi di consolidata tradizione cristiana e ancor più nelle giovani chiese raggiunte dal movimento missionario, le fratture ecumeniche rappresentano purtroppo una tangibile controtestimonianza antievangelica.

Un’ulteriore causa di rallentamento, poi, riguarderebbe il fatto che l’irrompere nel panorama europeo di un vasto numero di nuovi attori religiosi, dall’islam del suo risveglio alle suggestioni dell’oriente più mistico, ha oggettivamente contribuito a porre in secondo piano la questione ecumenica, facendo emergere piuttosto il tema – percepito come più delicato ma anche più urgente – del dialogo interreligioso. Evidentemente, è impossibile negare il fortissimo impatto (sociale, psicologico, mediatico) del pluralismo religioso, e sottovalutarne il peso, nell’odierna riflessione delle chiese: ma non va dimenticato che, fra i protagonisti di tale pluralismo, ci sono sempre più frequentemente cattolici, ortodossi, protestanti provenienti dall’ex terzo mondo o dall’Europa orientale (che anzi, statisticamente, rappresentano la maggioranza degli immigrati nel nostro paese).

 

OLTRE TREMILA

I DELEGATI DELLE CHIESE

 

Secondo il monaco di Bose Guido Dotti, che a Sibiu condurrà uno dei nove forum di studio previsti (sul tema della spiritualità), quello dell’ecumenismo sarebbe un processo che, a livello istituzionale, sta avanzando, ma si tratta di un procedere un po’ automatico. La macchina messa in moto va avanti, ma, emergono contenziosi, i dialoghi teologici ristagnano, si manifesta una certa burocratizzazione: «Accade quindi che quando si presenta un ostacolo, un punto controverso, tutto si blocchi perché è indebolita quella spinta di fondo che faceva guardare oltre, tenendo bene in mente l’obiettivo alto».

Vi sono inoltre i rischi di banalizzare il dialogo ecumenico, o di prendere scorciatoie. O, ancora, si fa strada la sensazione che ci siano problemi più urgenti per il mondo d’oggi: «Ma è una soluzione di comodo – afferma ancora Dotti – perché si negano le difficoltà e ci si accontenta di un minimo comune denominatore, che però è, appunto, minimo». Così ci si limita alle buone maniere e ai salamelecchi, si collabora in qualche iniziativa, non ci si intralcia, ma si progettano percorsi senza tenere conto dell’altro, se non addirittura contro l’altro: «In questo modo, l’altro non è più una parte delle tue riflessioni, delle tue preoccupazioni, del tuo discernimento. Si pensa di non dover rendere conto all’altro, dimenticandosi che poi tutti dobbiamo rendere conto a Dio. Non basta che tutto sia in regola con le nostre strutture e le nostre norme giuridiche!».

Detto questo, si può a buon diritto affermare che, in tale panorama, il dato principale dell’assemblea di Sibiu è, in fondo, che essa si tenga, nonostante tutto. E non è privo di significato che, a lungo, questa terza tappa della strada inaugurata a Basilea abbia rischiato di saltare, di non essere neppure celebrata (una prospettiva cui non erano estranee le forti diatribe fra le componenti maggioritarie della KEK, il mondo evangelico e quello ortodosso).

Sta di fatto che saranno tremila i delegati ufficiali delle chiese e dei movimenti cristiani previsti in arrivo da tutto il continente, che si riuniranno a Sibiu per quella che, in realtà, sarà la tappa conclusiva di un articolato percorso – il processo assembleare è stato pensato sin dall’inizio come una sorta di pellegrinaggio ecumenico – transi­tato attraverso diverse località, scelte per il loro valore simbolico, da Roma (gennaio 2006) a Wittenberg-Lutherstadt (febbraio 2007). Due gli obiettivi di tale pellegrinaggio. Il primo, si legge nel Documento di lavoro, «è di aiutarci a ritrovare in Cristo, crocifisso e risorto, luce nuova per il cammino di riconciliazione tra i cristiani d’Europa»: non si affronteranno direttamente le questioni dottrinali esistenti fra le chiese, che non sono di competenza di un’assemblea simile, ma ci sarà piuttosto l’occasione di celebrare, pensare e testimoniare insieme, come cristiani, la fede in Gesù Cristo e la sequela che ne deriva. Il secondo obiettivo è quello di riscoprire il dono di luce che il vangelo di Cristo è per il vecchio continente: contribuendo, fra l’altro, a far avanzare e illuminarne il processo di unificazione (beninteso, in tale processo le chiese sono coscienti che esiste un’Europa che ha confini più larghi dell’Unione Europea e che va ben oltre il suo orizzonte politico ed economico).

 

RILETTURA

DELLA CHARTA OECUMENICA

 

Il cuore dell’elaborazione prevista a Sibiu riguarderà poi una rilettura, più approfondita e condivisa, della Charta Oecumenica, la legge quadro dell’ecumenismo già sottoscritta dalle chiese europee il 22 aprile 2001, a Strasburgo. Si tratta di un testo che è già figlio di un lavoro corale, di incontri, dialoghi, fatiche e speranze, e che, pur non avendo ancora un valore giuridico, va considerato nondimeno l’agenda che le chiese si sono date per approfondire la collaborazione e trovare impegni comuni in vista di quell’unità pregata e auspicata dallo stesso Gesù di Nazaret nel discorso d’addio ai suoi: ut unum sint (Gv 17,11). Il fatto è che questo cammino di raduno delle comunità che si richiamano allo stesso lieto annuncio, in realtà, non rappresenta tanto una semplice opzione fra quelle possibili, un’eventualità fra le altre, bensì la sola modalità sensata dell’essere cristiani oggi, dopo troppi secoli di incomprensioni e addirittura di guerre aperte che hanno crudelmente insanguinato le terre d’Europa.

Essere uniti e in comunione, per i cristiani, non è neppure una questione tattica, né – si badi – la ricerca della forza necessaria contro gli altri, i non cristiani divenuti magari maggioranza, o forza aggressiva, nella stagione che ha registrato il definitivo esaurimento del regime di cristianità. L’unità sperata dal movimento ecumenico non può essere un’unità contro qualcuno, ma quella in cui le chiese si riconoscono come sorelle e si pongono al servizio reciproco! Non è un caso, direi, che nel citato Documento di lavoro in vista di Sibiu, si legga che «probabilmente la testimonianza più forte che le chiese possano dare oggi in Europa è come gestire le diversità»…

Un metropolita ortodosso, all’uscita dalla chiesa di Saint Thomas, quel giorno a Strasburgo dopo la firma della Charta Oecumenica, disse ad alta voce: «Il cielo nuvoloso di questi giorni si è aperto per uno squarcio di azzurro su di noi: è un segno che Dio benedice ciò che abbiamo realizzato!».

Chissà che tempo farà a Sibiu… Nell’eterno movimento a pendolo del cammino ecumenico, l’appuntamento ormai imminente potrà consentirci finalmente di immaginare con ragionevolezza una stagione nuova, di frutti copiosi e di rinnovata speranza? Ovviamente, ci auguriamo di sì. Anche se non mancano, nell’attesa, i commenti pessimisti, e le allusioni alla nebbia che, invece, sarebbe ormai definitivamente calata sulle prospettive ecumeniche. Senza coltivare illusioni ingenue, mi piace comunque chiudere ricordando i primi propositi da vescovo di Roma di Benedetto XVI, tutti improntati a dichiarare come la ricostruzione di una piena e visibile unità delle chiese cristiane sia uno dei compiti fondamentali del successore di Pietro («Questa è la mia ambizione, questo il mio impellente dovere»). Fino ad affermare solennemente, proprio il 20 aprile 2005 (al termine della concelebrazione nella Cappella Sistina con i cardinali del conclave), che per ricostruire tale unità non sono sufficienti le manifestazioni di buoni sentimenti, ma occorrono gesti concreti che sollecitino gli animi a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso reale sulla via dell’ecumenismo. E l’assemblea di Sibiu, comunque la si pensi al riguardo, rappresenta un gesto concreto: da accompagnare, da parte nostra, con la preghiera, l’attenzione partecipe, l’informazione e lo studio.

Brunetto Salvarani