IL “MINISTERO PROFETICO” DEI CONSACRATI
TRA REALISMO E UTOPIA
Una presentazione
del ministero profetico a tutto campo, anche e soprattutto a livello
interculturale. “Se tutto è profezia, nulla è profezia”. Importanti
accentuazioni teologiche del problema. I nuovi cammini e le nuove opportunità
della profezia nella vita consacrata: ospitalità, impoverimento volontario,
sano realismo, euforia profetica e dono della saggezza.
In certi ambienti ecclesiastici si è parlato e si continua a parlare con
troppa disinvoltura di “passato profetico” del popolo di Dio e di profetismo
sia di Gesù che della Chiesa. Si è, invece, fin troppo trascurato il fenomeno
crescente della “secolarizzazione” anche di termini fondamentali, nella Chiesa
e nella vita consacrata, come quelli di profezia e di carisma. Infatti, più che
di profezia e di carisma, oggi, nel mondo laico, si parla di visione, di innovazione,
di saggezza, di empatia, di compassione. Si elaborano tutte le possibili
alternative con cui risolvere i problemi più gravi e urgenti attuali. Il fatto
che le società assumano, a volte, uno stesso linguaggio per esprimere fenomeni
analoghi e diversi, non è di per sé un fatto negativo. È importante saper
cogliere tutte le valenze positive anche di un fenomeno come quello della
secolarizzazione. Un sistema religioso non troppo attento né sensibile alle
tentazioni che lo minacciano, può, senza rendersene conto, deviare verso
l’idolatria ogni volta che usa invano il nome di Dio.
Troppo spesso, purtroppo, nel mondo ecclesiale e religioso, non ci si
avvede del fatto che molte “presunte esperienze di Dio” non apportano quasi
nessun contributo alla soluzione dei problemi che stanno a cuore all’uomo di
oggi. Non riflettono in nulla quel volto di Dio che anche un’epoca post-moderna
come quella attuale sembra invece invocare nella progettazione del suo futuro.
UN’IDEA
VINCENTE
È sulla base di queste premesse che il clarettiano José Cristo Rey Garcia
Paredes, direttore dell’istituto di vita religiosa a Salamanca, in occasione
dell’ultima Assemblea dei superiori generali, svoltasi a Roma nel maggio
scorso, ha affrontato il tema della profezia nella vita religiosa oggi_.1
Quando si scende su questo campo, ha precisato, è facile suscitare la
diffidenza di una parte della gerarchia ecclesiastica, non sempre disposta ad
accordare, senza sconti, ai consacrati la patente di servitori della profezia.
D’altra parte, neanche il mondo laicale più maturo «accetta spontaneamente che
la nostra forma stabile di vita contenga tratti e profili profetici».
Ma non ci si può meravigliare di tutto questo, quando «persino tra noi c’è
chi non è sufficientemente consapevole della dimensione profetica della nostra
forma di vita». La maggior parte dei religiosi non definirebbe più oggi la
propria comunità come una “comunità profetica”. Pochi ammettono di avere una
“visione profetica del futuro”.
Tutto questo, in netto contrasto con gli ultimi documenti ufficiali del
magistero sulla vita consacrata. Lì, a ogni pagina, si parla di dimensione
profetica della vocazione, della consacrazione, della missione ricevuta, della
vita comunitaria, dei consigli evangelici. Insistentemente si pone in risalto
l’aspetto “contro-culturale” della vita dei consacrati, sollecitati a essere
profeti autentici in un mondo dominato dal piacere, dal potere e dall’avere.
In questi documenti colpisce positivamente, secondo Paredes, il modo con
cui il profetismo della vita consacrata si integra molto profondamente con il
profetismo della Chiesa stessa. Ora, questo, non fa altro che dar ragione al
grande teologo della vita consacrata, Tillard, quando in maniera molto
esplicita vedeva nella vita consacrata quella realtà che rafforza l’ala
profetica della Chiesa stessa.
Sempre secondo Paredes, i consacrati di oggi dovrebbero essere grati al
magistero della Chiesa per l’alta stima che dimostra nei loro confronti. Le
difficoltà a vivere la dimensione profetica della vita consacrata non si
possono certo imputare semplicemente a delle affermazioni a volte troppo
generiche. Nascono invece tutte le volte che si cerca di vivere concretamente,
e non solo a parole, questa dimensione della vita consacrata in rapporto agli
altri credenti, alla gerarchia ecclesiastica, a tutta la società.
È sintomatico il fatto che il congresso sulla vita consacrata svoltosi a
Roma nel novembre del 2004, non abbia mai abusato di termini come “profezia” o
“profetico”. Però con molta consapevolezza vi si è detto che la vita consacrata
e la sequela di Cristo trovano una loro particolare espressione proprio nella
forza profetica del carisma, nella sua freschezza permanente, nell’economia
solidale e nella pratica del consiglio evangelico della povertà, nell’impegno
per la giustizia, la pace e la cura del creato, nel vivere il celibato in una
società molto erotizzata, nella fraternità come proposta in una società divisa
e ingiusta, nell’assunzione da parte dei consacrati di atteggiamenti
anti-idolatrici attraverso l’esperienza di Dio e di una passione missionaria.
Già nello slogan del congresso: “Passione per Cristo. Passione per l’umanità”,
era facile intravedere una dimensione autenticamente profetica, nel suo duplice
orientamento verso Cristo Gesù e verso l’umanità.
Anche alla luce di questi rilievi non è privo di significato il fatto che
l’Unione dei superiori generali abbia voluto convocare una sua specifica
assemblea per riflettere proprio sulla dimensione profetica della vita
consacrata. Invece di guardare troppo indietro, «avete voluto fare un passo in
avanti, assumendo la prospettiva interculturale che ci caratterizza sempre di
più come vita consacrata mondiale, globalizzata, ponendovi l’interrogativo se
la vita consacrata sia o meno una profezia per le culture di oggi». Mai come
oggi, del resto, la Chiesa è stata così cattolica, le chiese particolari sono
nate in culture così diverse, e la stessa vita consacrata è stata così
“pluriculturale”. Parlare allora, di vita consacrata e di profezia in riferimento
alle diverse culture, si è rivelata sicuramente un’idea vincente.
Nel post-concilio, non soltanto la vita consacrata, ma anche diversi gruppi
e movimenti, diverse altre realtà ecclesiali, hanno chiesto e ottenuto una
maggior visibilità, un maggior riconoscimento della propria identità, una
maggiore possibilità di riflessione e di azione. Si è aperto uno spazio
maggiore per i laici, per la donna, per le culture e le teologie diverse da
quelle di tradizione europea. Sempre nel post-concilio un tema come quello
dell’inculturazione è andato acquisendo un più ampio diritto di cittadinanza
non solo a livello di riflessione, ma anche e soprattutto nelle scelte
pastorali e in quelli di governo della Chiesa e delle chiese particolari.
Anche se non sempre ci si è riusciti, si è convintamente cercato di
superare ogni contrapposizione fra cultura e cultura, accogliendo di buon grado
tutto ciò che in esse vi era di buono, di peculiare, di caratteristico. Ci si è
interrogati seriamente sul come annunciare il Vangelo a tutte le culture e
denunciare in esse ciò che si contrappone nettamente al disegno di Dio.
Soprattutto in un’assemblea dei superiori generali non si dovrebbe mai
evadere dal tentare una risposta a tutta una serie di domande: la vita
consacrata è oggi in grado di svolgere una sua funzione profetica nei diversi
popoli e nelle diverse culture, in un tempo di globalizzazione, di
post-modernità? Riesce a essere profeticamente significativa ed efficace
rispetto alla cultura dominante che cerca di imporsi, scompaginando e
minacciando le culture più deboli? La profezia della vita consacrata è ancora
in grado di suscitare figure profetiche all’interno delle diverse culture in
cui essa si rende presente? Come si potrebbe incoraggiare in un istituto
religioso la “profezia culturale” o la “inculturazione della profezia”?
NON TUTTO
È VERA PROFEZIA
Per rispondere a questi interrogativi e prima di parlare della profezia
come di una nuova grande opportunità per la vita consacrata di oggi, Paredes ha
voluto annunciare alcune “evidenze teologiche” che, a suo dire, dovrebbero
essere di grande aiuto per mettere a fuoco il tema del “ministero profetico”
della vita consacrata di oggi. «Se tutto è profezia, nulla è profezia», ha
detto. Il ministero profetico, cioè, non si identifica affatto con nessun altro
ministero presente nella Chiesa. Diversamente da quello ordinato, da quello
pastorale o di governo, il ministero profetico si propone «un cambiamento
radicale della società, della religione e della politica».
La profezia consente a una persona che ne è investita di partecipare del
pathos stesso di Dio, con una spiccata sensibilità umana e religiosa insieme.
Il profeta è un essere umano libero, in costante movimento per le vie della
città. Non vuol essere né rivoluzionario, né conservatore. Vuole essere solo
“testimone del Dio vivo e appassionato”. Sa di essere stato prescelto e inviato
dal suo Dio. Il suo unico dovere, allora, è quello di rimanere obbediente a
Colui che lo invia. «Non deve tacere ciò che deve dire, né ignorare il Dio che
lo invia». Il profeta è “incorruttibilmente sincero”, mentre il falso profeta
non sa discernere tra ciò che è di Dio e ciò che è suo, non sa essere
indipendente sia dal sistema religioso che da quello politico.
Il ministero profetico è portatore di una proposta contro-culturale
rispetto al sistema dominante. Svolge una funzione critica nei confronti sia
del sistema politico che religioso vigente. Ha una percezione diversa della
realtà. Sa prefigurare comunità alternative con le quali far emergere con più
evidenza ciò che Dio ha promesso.
Le proposte profetiche non si caratterizzano tanto per il loro realismo, la
loro praticità politica o fattibilità economica, quanto piuttosto per la loro
immaginazione poetica e lirica. Il profeta è legato alla fantasia futura di un
mondo diverso. Crede nel futuro di Dio e, per questo, «intona cantici, danza,
risana e perdona i peccati», utilizzando i simboli, le evocazioni, le metafore
più adeguate allo scopo. Tutto questo, però, non è senza problemi, dal momento
che «l’uso dell’immaginazione creativa è considerato come sovversivo da parte
del sistema politico e religioso».
È difficile, spesso, convincersi del fatto che il ministero profetico
percorre solitamente i binari della normalità. Non tende a realizzare azioni
spettacolari. Non intraprende crociate sociali. Presenta una “percezione
alternativa” della realtà, guardando la storia alla luce della libertà di Dio e
della sua volontà di giustizia. La profezia influenza allora inevitabilmente
tutti gli atti del ministero, dal consiglio al discernimento, alla
predicazione, alla liturgia, all’educazione, alla salute. La profezia, in altre
parole, «è una presa di posizione, un atteggiamento, un’interpretazione del
mondo, della morte, della parola, della vita», in grado di illuminare e
imprimere energia a ogni situazione umana.
Non è sempre facile, però, discernere dove e quando agisce la profezia che,
in quanto tale, è sempre e solo frutto dell’azione dello Spirito Santo.
«Probabilmente in tutte le società, religioni, gruppi umani, agisce lo
spirito profetico e in tutti questi ambiti, lo spirito profetico è ostacolato e
trova opposizioni».
Oggi, come ieri, comunque, vi sono persone e gruppi che hanno sicuramente
ricevuto il dono della profezia. Tra questi non si possono non annoverare anche
i consacrati. Ogni carisma collettivo, tipico di un istituto religioso,
possiede una sua dimensione profetica costitutiva. Proprio in base alla propria
peculiare dimensione carismatica, ogni istituto, è chiamato, allora, a
rafforzare l’ala profetica della Chiesa, prima ancora che quella puramente
istituzionale o sacerdotale.
L’ETICA
DELL’OSPITALITÀ
Se la vita consacrata vuole svolgere la sua funzione profetica nel contesto
delle culture in cui si trova a vivere, deve però aprirsi a nuovi cammini e a
nuove opportunità. Questo lo può fare riscoprendo la profezia dell’ospitalità,
della scelta volontaria della povertà, del realismo, di una certa “euforia”
profetica, della saggezza e della capacità creativa.
Il tratto più immediato è quello dell’ospitalità. Senza questa virtù
difficilmente la vita consacrata potrà porsi al servizio dell’alleanza di Dio
con tutta l’umanità. «Senza ospitalità, le nostre comunità e le persone che le
compongono si chiuderanno in se stesse, nella loro propria cultura, con il
conseguente pericolo di perdere capacità di testimonianza, di servizio, di
attrazione e di fecondità».
Per ospitalità, precisa Paredes, «intendo la capacità di accogliere
l’altro, l’estraneo, il diverso». È l’opposto, cioè, dell’ostilità, della chiusura,
del rifiuto.
La virtù dell’ospitalità diventa, così, una delle grandi “categorie etiche”
del nostro tempo. Sta, anzi, assumendo le dimensioni di un elemento strutturale
e architettonico dell’etica filosofica e della stessa teologia. Sulla croce
Gesù ha realizzato l’ospitalità nel suo grado più intenso. Le sue braccia
aperte sono diventate il segno della piena accoglienza dell’estraneo, del
peccatore, del diverso. È a quella croce che bisogna guardare per imparare a
rapportarsi anche oggi al bisognoso, all’emarginato, alle vittime della
violenza, nel superamento di ogni emarginazione culturale, religiosa, sociale,
sessuale.
Questa nuova dimensione profetica non è affatto scontata in un contesto
come quello attuale, in cui spesso essere “diverso” è considerato un male. Gli
spazi sempre più ampi di guerra, di violenza, di ostilità, di esclusione, di
ostilità culturale e religiosa, fino al rischio di un possibile scontro di
civiltà con tutte le sue derive fondamentaliste, lo stanno a dimostrare.
L’esclusione del “diverso” si va oggi configurando come un “peccato
primordiale” nella percezione della realtà. Tutto questo «ci porta a reagire
per paura o per ira dinnanzi a chi non fa parte del nostro sempre più ristretto
circolo di appartenenza».
Purtroppo, però, «l’atteggiamento ostile di fronte all’altro, si manifesta
anche all’interno della Chiesa stessa e della vita consacrata. L’altro o
l’altra, nel loro modo di pensare, di essere, di vivere, suscitano in noi
diffidenza, critica, esclusione». Ciò non toglie, comunque che la vita
consacrata abbia cercato e continui a cercare di essere uno spazio di
accoglienza sempre più ampio nei confronti dell’altro. Fortunatamente, al suo
interno, sono sempre più rari atteggiamenti fondamentalisti. Con fatica, ma
anche con successo, intende essere “casa e scuola di comunione”, spazio in cui
sia possibile il dialogo tra culture e civiltà diverse.
È un dato di fatto che soprattutto nella vita consacrata si è preso molto
sul serio il tema dell’inculturazione, dell’ecumenismo, del dialogo
interreligioso. Attraverso l’ospitalità si è diventati più comprensivi, meno
istituzionali, più attenti all’altro. La condivisione del proprio carisma con i
laici, un sempre più concreto inserimento culturale, la scelta deliberata di
una vita comunitaria in contesti sempre più contrassegnati dalla povertà, lo
stanno a confermare. Attraverso l’ospitalità, le comunità, al proprio interno,
vanno imparando ogni giorno la “difficile arte” della convivenza con il
diverso. «Stiamo scoprendo che non solo dobbiamo imparare a vivere con l’altro,
né a compiere solo il passo pericoloso e costoso di aprirci nei suoi confronti,
ma persino a coinvolgerlo nella stessa ospitalità nella quale ci sentiamo
accolti da Dio».
VOLONTARIAMENTE
POVERI
Un secondo tratto della profezia nella vita consacrata è quello che Paredes
chiama un “impoverimento volontario”. Quante volte, quando si parla di povertà,
sembra che non ci sia più nulla da aggiungere e da scoprire. È indubbio che
oggi «siamo giunti ad una comprensione molto più missionaria di questo
consiglio evangelico». L’opzione per i poveri, gli esclusi, infatti, ha
favorito una nuova comprensione della missione dei consacrati e ha offerto una
nuova configurazione al loro stile di vita. Nonostante questo, però, il tema
della povertà continua a porre nuove sfide. Se assunte consapevolmente possono
diventare anche inaspettate opportunità. «Il consiglio evangelico della
povertà, infatti, può risultare alla fine profetico, quando sa collocarsi in
modo consapevole e adeguato all’interno del contesto culturale in cui viviamo»,
quando tenta di dare una risposta al senso di vuoto e alla ricerca di senso a
tutte quelle persone che non cessano mai di interrogarsi sul perché della loro
esistenza. Anche senza volerlo, i consacrati sono alla ricerca delle comodità
«pagandole spesso a un prezzo troppo alto e diventando schiavi di progetti di
vita» che precludono sul nascere ogni ulteriore e diversa prospettiva.
Se, in altri tempi, la domanda prevalente era quella di chi si chiedeva
“come vivere secondo Dio”, oggi si va diffondendo un interrogativo ancora più
preoccupante sul “come vivere” e basta. «Siamo giunti all’immanenza totale,
senza trascendenza». L’umanità secolarizzata è sempre più chiusa in se stessa,
non si percepisce più nient’altro, non si definisce più attraverso il suo
rapporto con Dio. Semplicemente lo ha dimenticato o abbandonato. Non intende
vivere “legata” o “relegata” in Dio. Il distacco dal divino non solo rischia di
banalizzare tutte le cose, ma rende anche sempre più pesante la “quotidianità”
della vita. Purtroppo la modernità «ha desacralizzato il mondo e sta
idolatrando realtà desacralizzate».
Agli inizi del ventunesimo secolo si sta assistendo, con non poche
perplessità, a un appassionato dibattito tra i difensori a oltranza del
capitalismo neoliberista e globalizzatore da una parte, e i rappresentanti di
un pensiero presuntivamente radicale o anti-globalizzatore dall’altra. Il
neo-capitalismo ha finito con l’imporre su scala mondiale l’economia di
mercato, costruendo con sempre maggior successo, una rete inevitabile di
consumismo «che ci colpisce e infetta tutti». Gli intellettuali progressisti e
antiglobalizzatori, pur criticando questa subdola “infezione”, «sembrano
impantanati in un utopismo ottuso e apocalittico, che continua a vedere negli
Stati Uniti e nel capitalismo la fonte di ogni male e guarda alla democrazia
parlamentare come a una falsificazione borghese». Raramente sanno proporre
soluzioni concrete e anche molte di quelle che presumono di aver trovato, di
fatto poi sfociano in un fallimento totale.
«Gli uni e gli altri condividono l’errore di aver fatto dell’economia la
nuova religione, con la sua liturgia, i suoi santoni e i suoi oracoli, il suo
linguaggio per iniziati, e persino con un suo messaggio redentore». Se una
volta ci si aspettava dall’economia che rendesse più liberi dai bisogni
l’essere umano, adesso, invece, ci si chiede con sempre maggior insistenza su
chi potrà «liberare l’essere umano dall’economia».
La linea che separa il denaro come “fine” dal denaro come “mezzo” è molto
più sottile di quanto non si creda. Il consumismo della pubblicità tende
continuamente a cancellarla. Il presupposto di partenza, e cioè il fatto che il
denaro dovrebbe liberare le persone dalle preoccupazioni quotidiane, è
pienamente condivisibile. Ma invece, senza rendersene conto, il denaro oggi
rischia di diventare la “massima preoccupazione” non essendo mai paghi di
quello che si possiede.
LA “MISERIA
DELLA PROSPERITÀ”
Proprio a causa di tutte queste polarizzazioni, da più parti si invoca oggi
con sempre maggior insistenza «una voce e un comportamento che sappiano
entrare in conflitto contro i miti, le semplificazioni e i paradossi della
nostra società, contro l’idolatria del denaro e dell’economia». La ricchezza,
infatti, continua a essere idolatrata, oggi come ai tempi dei profeti e di
Gesù. Eppure non è chi non veda come l’economia debba essere al servizio
dell’uomo, della sua salute, della sua cultura, dell’istruzione del suo
arricchimento morale, non il contrario. Se Marx aveva parlato della “miseria
della filosofia”, oggi con non minore consapevolezza si dovrebbe parlare della
“miseria della prosperità”. Le nazioni ricche, tutte le società del benessere
«stanno cadendo nella miseria» per il semplice motivo che tutto ciò che oggi
nelle nostre società scarseggia e di cui, invece, ha assoluto bisogno, come la
comunione con la natura, la capacità di saper attendere, il piacere di vivere
controcorrente, non lo si può assolutamente comprare sul mercato.
Non è facile, insiste Paredes, convincersi del fatto che l’idolatria del
denaro non ripaga affatto. «È infedele e abbandona i suoi idolatri». Se si può
parlare di “indecenza” del denaro, ciò non dipende dal denaro in sé, ma dalla
sua disuguale distribuzione in “grandi spazi” dell’umanità. «L’idolo è
indecente, perché nella “nuova economia” i ricchi non hanno più bisogno dei
poveri per arricchirsi. Dopo la disgrazia dello sfruttamento dei poveri, ne è
sopraggiunta una ancora peggiore, quella, cioè, che i poveri hanno cessato di
essere sfruttati. Per questo si ha il presentimento che la povertà non sarà mai
vinta nei paesi sviluppati».
In questo preoccupante scenario, l’alternativa che ci si potrebbe attendere
dalla vita consacrata è quella di un “impoverimento volontario”, da non
confondersi assolutamente con una “opzione dell’indigenza”. In questo
impoverimento volontariamente perseguito, entrano in gioco alcune scelte e
alcune priorità personali. «Se non vogliamo che le cose che possediamo ci
possiedano, è allora preferibile limitare le spese, non indebitarsi
costantemente, lasciando così più spazio alla vita spirituale e a quella
affettiva».
Si dovrebbe tornare all’essenziale invece di continuare ad accumulare
denaro e oggetti, illudendosi in questo modo di erigere una ridicola diga
contro l’angoscia e la morte. Il vero “lusso” nella vita consacrata dovrebbe
essere quello di saper re-inventare ogni giorno la propria vita, la propria
missione. Non si farà mai abbastanza per “de-idolatrare” l’economia,
valutandola per quello che è, vale a dire un semplice “mezzo”. L’immaginazione
profetica nella vita consacrata potrà più facilmente trovare gli spazi più
adeguati per «nuove forme di gratitudine, di presenza non mercificata, di
servizi non incentrati interamente sul guadagno, ma sulla testimonianza».
PROFETI SÌ
MA COI PIEDI PER TERRA
Parlando di profezia della vita consacrata non si dovrebbe mai
disancorarla, però, da una “sano realismo”, prefigurandosi con troppa fantasia
un mondo diverso, utopicamente proiettato molto al di là di quella che è la
concretezza della vita. «Il principio di realtà vuole che non desideriamo cose
che vadano al di là della nostra capacità». Nessun religioso ha mai posseduto
le “chiavi del futuro”. Meno ancora, dovrebbe ambire il dono di una profezia
spettacolare. Più realisticamente anche i religiosi dovrebbero saper camminare,
tra angosce, oscurità e tentazioni, come pellegrini insieme a tutto il popolo
di Dio verso la “nuova Gerusalemme”. Più modestamente ci si dovrebbe convincere
che si tratta di una profezia di “bassa intensità” spalmata sul lungo periodo.
Il realismo dovrebbe sempre prevalere sull’utopia, la routine sull’evento, la
quotidianità sulla sorpresa, il tempo lungo sul momento istantaneo. Non per
nulla qualcuno ha ribattezzato la vita consacrata come la “profezia della vita
ordinaria”.
La rivelazione cristiana, parlando del Regno, dice che è insieme presente e
futuro, è “già e non ancora”. Sono due prospettive, quella realistica e quella
utopistica, che coesistono insieme nel corso della storia. Come il Gesù delle
tentazioni «anche noi religiosi rinunciamo a sognare l’arrivo di un millennio
che risolva tutti i problemi. Sappiamo che la sovranità di Dio e il primato
dell’amore si realizzano in mezzo a tanti limiti e a tante lotte. Nulla è definitivo».
Dal momento che ci si deve sempre confrontare con la realtà, «anche la nostra
profezia deve fare i conti con la croce, con il limite delle nostre
realizzazioni, sempre, però, in un atteggiamento di fedeltà a Dio».
Il realismo profetico nella vita consacrata dovrebbe essere vissuto
«nell’umiltà, nella supplica e nell’intercessione», senza con questo esimersi
dal cercare e dal promuovere una giustizia imparziale in favore dei poveri e
degli oppressi. Ciò che conta «è la profezia della “vita ordinaria” che nasce
dall’amore che ci spinge, dalla fede nell’Alleanza definitiva di Gesù con noi,
dal desiderio di rendere presente la sua vita nella nostra vita».
LA CHIMERA
DELLA FELICITÀ
Prendendo lo spunto da un filosofo francese, Pascal Bruckner, Paredes vede
nella euforia profetica un’altra importante dimensione del profetismo nella
vita consacrata. Che anche in questo campo si possa parlare di “euforia” è
fuori discussione. È però importante intendersi sul significato delle parole.
L’euforia richiama da vicino la passione. «La speranza appassionata diventa
euforica e genera uno stato di felicità o benessere che rafforza la fede e
rende possibile l’imprevedibile».
Secondo Chesterton il mondo contemporaneo è «pieno di idee cristiane che
sono impazzite». Basti pensare alle idee di “salvezza” e di “condanna” sempre
più presenti anche della cultura odierna. La salvezza, infatti, oggi è
strettamente associata al successo, allo stato di beatitudine e di pienezza
assoluta, all’assenza di dolore e di tensione. La condanna, poi, rimanda al
fallimento, allo stress, al dolore, alla sofferenza. L’idea di salvezza
presente oggi nel mondo rischia di diventare una “chimera sovrumana”, dal
momento che la felicità totale è impossibile. E così «ci sforziamo di cambiare
ciò che non si può cambiare, e smettiamo di agire su ciò che potrebbe
cambiare».
Oggi si è quasi ossessionati dalla ricerca della felicità. Solo che «la
società della felicità si trasforma pian piano in una società ossessionata
dall’angoscia, perseguitata dalla paura della morte, della malattia, della
vecchiaia». Se non si sta attenti, la felicità rischia di trasformarsi oggi in
uno slogan e in una ragione di vita vera e propria. In questo contesto,
soprattutto la salute e la sessualità sono oggetto di continua attenzione. I
costruttori dalla felicità inventano nuove forme di infelicità. «Probabilmente
siamo le prime società della storia che hanno reso la gente infelice per il
fatto di non essere felice».
La vita consacrata, dal canto suo, sa molto bene che la sofferenza è
inevitabile. Il realismo profetico trova anche qui un “suo spazio”. Non tutte
le avversità sono un castigo. Non si ottiene nulla senza sforzo. Si può essere
esperti e persino maestri nell’arte di vivere, soprattutto nei momenti
dell’avversità. «Il fatto che non tutto sia possibile non significa che nulla
si possa ottenere». Proprio in queste occasioni la vita consacrata può mostrare
il suo volto più felice e godere di quella gioia che le è stata trasmessa, ad
esempio, dalla pagina delle beatitudini evangeliche. Mai come in questi ultimi
anni, si è cercato di porre in evidenza il fascino e la dimensione profetica
della vita religiosa. Ma bisogna anche onestamente aggiungere che si tratta di
un fascino e di una profezia che rasentano spesso «la delusione, le lacrime, le
tenebre». Qualche anno fa Paredes aveva dato alle stampe un libro dal titolo
Una lunga alba. Verso una nuova forma di vita religiosa, dimostrando come gli
anni del post-concilio sono stati sicuramente un’alba ma eccessivamente lunga,
troppo lenta. Non si può mai dimenticare che «al mattino ci visita il pianto».
Nel lungo albeggiare si sperimentano spesso le lacrime. Il passaggio dalla
notte al giorno non avviene mai in modo tranquillo, sereno. È sempre
accompagnato dalla sofferenza.
Alla profezia della felicità bisogna allora inevitabilmente aggiungere
anche la profezia delle lacrime. «Le lacrime che i religiosi e le religiose
hanno versato durante questo lungo “albeggiare”, meritano di essere raccolte
nel catino della nostra memoria, per essere interpretate, narrate e
testimoniate». Prima o poi, tutti, come lo stesso Gesù, e come i profeti, ci si
ritrova a non poter più contenere le lacrime. Sono le lacrime per qualcosa che
ci si porta dentro e che spesso si manifestano anche all’esterno, come Gesù
dinanzi al suo amico Lazzaro.
Proprio per questo le lacrime, che non vanno mai sottovalutate, possono
diventare «il segno profetico più adatto per l’epoca che stiamo vivendo». Sono
un fatto importante in quanto indicano che non solo si sta “rielaborando il
lutto”, ma che in questo lungo albeggiare, in questa lunga fase di transizione,
qualcosa non esiste più, è già definitivamente passato e qualcosa di nuovo sta
arrivando. Correttamente intesa, allora, «l’euforia profetica ci fa giungere
euforici all’alba, perché abbiamo sperimentato che questo è il giorno in cui ha
agito il Signore, lui che è la nostra allegria e la nostra gioia».
IL DONO INESTIMABILE
DELLA SAPIENZA
L’ultimo tratto profetico della vita consacrata analizzato da Paredes è
quello della saggezza e della sua capacità creativa. Per “saggezza”, precisa
subito, si deve intendere quel dono «che ci è concesso dalla presenza dinamica
di Dio in noi, dalla comunione con lo Spirito Santo, da una vita spirituale
intensa e vitale». Questo dono è concesso a certe persone soprattutto per
illuminare e guidare l’umanità, la Chiesa. La persona saggia non ha solo la
capacità di informare su ciò che sta avvenendo. Sa anche penetrare nel mistero
della realtà, sa «aprire il libro e rompere i sigilli», sa utilizzare i “sette
occhi” dello Spirito per percepire in profondità la realtà e la storia, «ha
un’alta sensibilità di Dio». È questo il motivo per cui la persona saggia è
solidamente fondata e può diventare punto d’appoggio e di guida agli altri. «È
una guida che vede, sente, riflette su di sé la sapienza di Dio».
Ma la sapienza profetica ha, inoltre, anche una dimensione trans-culturale.
I saggi sono persone che sanno valorizzano le culture, le aprono a nuovi
orizzonti e conferiscono loro solidità. La sapienza diventa allora la
mediazione migliore in vista del dialogo interculturale. In tempi di
trasformazione, di intercomunicazione, di inevitabili rapporti reciproci, è
facile comprendere quanto la sapienza sia oggi un “dono inestimabile”. È anche
un dono indispensabile per superare le tensioni, i fondamentalismi, i
dogmatismi, gli atteggiamenti di condanna di fronte al diverso. Grazie a questo
dono, infatti, è facile individuare proposte alternative là dove, a prima
vista, non si intravedono che vicoli ciechi. È sempre grazie alla sapienza che
è possibile scoprire la vita là dove spesso regna la morte. «La sapienza è
serena, immaginativa, creativa. Rende possibile l’imprevedibile, facile ciò che
è difficile, fattibile ciò che non è realizzabile».
La sapienza profetica, ancora, è un dono necessario per accompagnare il
cammino spirituale e intellettuale dei credenti, per favorire i loro processi
di iniziazione e di formazione permanente. Non si accontenta mai solo di ciò
che, a prima vista, osserva, ascolta, percepisce. «Non si accontenta della mera
erudizione. Si può essere, infatti, erudito senza essere saggio».
È saggia quella persona che sa applicare alla propria vita tutto ciò che
man mano viene scoprendo e conoscendo. La vera sapienza fa crescere in umanità,
fa scoprire la propria personalità, fa emergere il talento che ogni persona
porta in sé. È un processo inarrestabile di riscoperta personale e di stimolo
nell’assumere le conseguenze di tutte le scoperte anche intellettualmente
compiute. Il saggio non è mai semplicemente la replica di ciò che gli altri
vogliono che egli sia. Va a fondo nelle cose. Non lascia nulla a metà. Non si
auto-compiace,vuol essere autentico e fedele, non si limita mai a rispondere
solo a degli schemi prestabiliti.
E la vita consacrata, si chiede a questo punto Paredes, che cosa ha da dire
e da dare in proposito? È in grado di offrire il proprio contributo per la
crescita di tutti nella sapienza? Questo è un tempo in cui, ribadisce ancora
una volta, la vita consacrata può rafforzare l’ala profetica della Chiesa anche
nell’ambito della sapienza. Proprio là dove stanno velocemente invecchiando e
sembra quasi che stiano scomparendo, i consacrati si trovano di fronte a una
nuova opportunità, quella di dimostrare la loro capacità profetica creando
spazi e condividendo con tutto il popolo di Dio, con la società stessa, il dono
della loro sapienza. Mai come oggi si percepisce l’esigenza di nuovi modelli di
paternità e di maternità spirituale. E questo è un campo aperto soprattutto al
ministero profetico dei consacrati.
È proprio della profezia «avere il coraggio di navigare controcorrente nel
mare dei convenzionalismi». Un simile coraggio, però, non nasce dal nulla.
Nasce da una nuova “visione” della realtà, nasce dalla grazia di una autentica
metanoia. Chi ha ricevuto la grazia di un tale cambiamento, di una tale
esperienza, diventa spontaneamente una specie di “detonatore” che fa esplodere
attorno a sé il dono ricevuto. Mai come oggi si pone l’esigenza di un ministero
profetico che sappia andare “oltre” la propria cultura e la propria tradizione.
Per il fatto che la vita consacrata è oggi chiamata a consolidare l’ala
profetica della Chiesa, questo non significa porsi di fronte agli altri come
superiori, diversi, unici. L’unica ambizione dei consacrati dovrebbe essere,
allora, quella di «stare là dove soffia lo Spirito profetico», diventando,
così, suoi umili collaboratori, valorizzando al massimo la propria peculiare
ispirazione carismatica.
Angelo Arrighini
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