RAPPORTO 2007 DI AMNESTY INTERNATIONAL
POLITICHE DELLA PAURA
Nel mondo sono in
atto “politiche della paura”, che giungono a erodere i diritti umani e le
libertà individuali. La denuncia viene dal Rapporto 2007 di Amnesty
international, che offre un quadro preoccupante sui fronti della guerra, della
lotta al terrorismo e dell’impegno contro la povertà.
Siamo nel pieno del dibattito sulla governance, (concetto diverso dal
governo, government). Questo termine è invalso in un’epoca di complessità
sociale (i sistemi non sono più governabili da un centro) e di globalizzazione
(interconnessione tra i vari sistemi oltre i confini degli stati): è in crisi
l’idea di sovranità cui era legato il concetto stesso di governo. La tendenza
odierna è quella di ridurre l’ambito della governance internazionale ai soli
aspetti tecnici o procedurali. Le logiche che dominano sono quelle degli
interessi nazionali e della paura preventiva. Da qui la preoccupazione espressa
da Benedetto XVI circa il fatto che nemmeno davanti alla governance delle
emergenze umanitarie di oggi, molti stati non facciano quanto è in loro potere
fare (Discorso al Corpo diplomatico presso la Santa Sede, 9/1/2006).
In questo scenario è eloquente il Rapporto 2007 di Amnesty international.
«Le politiche della paura, afferma Paolo Pobbiati (presidente Amnesty sezione
italiana), alimentano una spirale di violazioni dei diritti umani in cui nessun
diritto è più intoccabile e nessuna persona è al riparo. La guerra al terrore e
la guerra in Iraq, con il loro campionario di violazioni, hanno creato profonde
spaccature che stanno gettando un’ombra sulle relazioni internazionali,
rendendo così arduo risolvere i conflitti e proteggere i civili».
Nel mondo dunque sono in atto “politiche della paura”, miopi e ipocrite,
che giungono a erodere i diritti umani e le libertà individuali. Uno scenario
di governo debole del mondo, dove un po’ tutti violano le regole, soprattutto
quando – ci dice Amnesty – l’imperativo della “sicurezza nazionale” rischia di
diventare un pretesto per reprimere la dissidenza (in nord Africa, Medio
Oriente, Russia, Cina e Vietnam). In Afghanistan i crimini contro l’umanità
vengono commessi da tutte le parti in conflitto, mentre in Egitto riemerge una
repressione vecchio stile. In Iraq poi nel 2006 sono state eseguite 65
esecuzioni capitali (3 nel 2005!).
Naturalmente, spirando questo vento, si è acuita la divisione tra musulmani
e non musulmani, alimentata nei paesi occidentali da strategie anti-terrorismo
che rischiano di diventare discriminatorie. Gli episodi di islamofobia,
antisemitismo, intolleranza e attacchi contro le minoranze religiose sono così
aumentati un po’ ovunque. In Russia e in vari paesi europei sono evidenti la
segregazione e l’esclusione delle comunità rom. Circa la limitazione della
libertà d’’espressione, vanno ricordate le uccisioni di giornalisti come la
russa Anna Politkovskaya e di attivisti politici nelle Filippine,
l’incriminazione di scrittori in Turchia. Internet è diventata la nuova
frontiera del dissenso: attivisti on line sono stati arrestati e le aziende
hanno collaborato coi governi nel restringere l’accesso all’informazione sulla
Rete in paesi come Bielorussia, Cina, Iran, Siria e Vietnam.
CHI DIFENDE
I PICCOLI E I POVERI?
Siamo in un momento in cui si sono paralizzate le istituzioni
internazionali, dilapidando per di più risorse pubbliche al fine di perseguire
obiettivi di sicurezza limitati e di corto respiro.
Per quanto riguarda il fronte della guerra, ad esempio. l’attenzione
discontinua delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana si è rivelata inadeguata
a fronteggiare il dramma del Darfur, la regione del Sudan in cui sono stati
commessi crimini di guerra e crimini contro l’umanità a opera di tutte le parti
coinvolte in un conflitto che ha causato migliaia di morti e ha costretto alla
fuga milioni di persone. Si rinnova qui il dato che a pagare il prezzo più alto
sono i poveri e chi non ha potere: in genere donne e bambini. E ancora, il
fatto che Israele e i Territori occupati siano scomparsi dall’agenda
internazionale ha acuito l’angoscia e la disperazione della popolazione
palestinese, da un lato, e le paure di quella israeliana dall’altro. Di più, le
Nazioni Unite hanno impiegato settimane prima di riuscire a chiedere il cessate
il fuoco nel conflitto in Libano, in cui hanno perso la vita circa 1.200
civili. In Afghanistan infine la popolazione è lasciata in uno stato di
insicurezza permanente e di corruzione e in balia del ritorno dei Talebani.
Sul fronte della lotta al terrorismo è emerso il coinvolgimento dell’Europa
nel programma USA di numerosi trasferimenti illegali di prigionieri (in paesi
come Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Marocco e Siria, noti per praticare la
tortura), sfidando così il divieto assoluto di maltrattamenti. «Così come
dobbiamo condannare nella maniera più assoluta gli attacchi terroristici contro
i civili, dobbiamo respingere le affermazioni dei governi secondo cui il
terrore può essere combattuto con la tortura. Si tratta di affermazioni
fuorvianti, pericolose e sbagliate: come si può spegnere un incendio con la
benzina ?», si legge nel Rapporto. Quando il governo di Londra rimane muto di
fronte alla detenzione arbitraria e ai maltrattamenti a Guantánamo, quando gli
USA ignorano la proibizione assoluta di tortura, quando i governi europei
tacciono sulle responsabilità in tema di trasferimenti illegali di prigionieri,
razzismo e rifugiati, essi pregiudicano la propria autorità morale di difendere
i diritti umani nel mondo.
Per quanto riguarda infine il fronte della lotta contro la povertà, il
summit delle Nazioni Unite ha esaminato l’attuazione degli “Obiettivi di
sviluppo del Millennio”, mostrando la clamorosa distanza tra gli impegni
dichiarati e l’azione concreta. Mentre i governi hanno dichiarato di voler
sostenere i diritti delle donne, nella realtà non hanno dato seguito agli
obiettivi relativi all’eguale accesso delle bambine all’educazione.
In molti paesi, insomma, agende dominate dalla paura alimentano la
discriminazione, allargando le distanze tra ‘loro’ e ‘noi’ e lasciando senza
protezione i gruppi più emarginati. Nella sola Africa tante persone sono state
allontanate dalle proprie case senza una procedura equa, una ricompensa o
l’individuazione di un alloggio alternativo, spesso in nome del progresso e
dello sviluppo economico!
DEFICIT
DI GOVERNABILITÀ
Nei giorni in cui venivano presentati di questi dati, a Roma, una sessione
di studio organizzata da Pax Romana ha esplorato il tema Santa Sede: una faccia
di un’altra globalizzazione – organizzazioni internazionali e governo globale.
Nelle parole di mons. Pietro Parolin, sottosegretario della sezione Rapporti
con gli stati della Segreteria di stato vaticana, troviamo notevoli conferme
all’analisi di Amnesty international. «L’analista e l’operatore politico non
possono non percepire, talvolta in modo estremamente acuto, le difficoltà
esistenti per dare senso e gestire il costante succedersi degli eventi
globali», ha osservato il presule. A questo si aggiunge poi il paradosso
secondo cui «c’è, più che in qualsiasi altro momento della vicenda umana, la
piena coscienza della comunanza e dell’interdipendenza delle grandi problematiche
mondiali, quali l’ambiente, la povertà, le migrazioni, la sicurezza collettiva,
i diritti umani».
Tuttavia tale consapevolezza è accompagnata spesso dal risorgere dello
spirito nazionalistico o di parte. Tale tendenza è proprio la chiara
indicazione di un deficit di governabilità da parte delle istituzioni
internazionali esistenti: l’ONU e la galassia delle sue Agenzie specializzate,
le organizzazioni internazionali indipendenti dall’ONU e le organizzazioni
regionali.
Sulla stessa linea d’onda è andata la valutazione espressa dal cardinale
Tarcisio Bertone, Segretario di stato vaticano, in occasione della XIII
Sessione plenaria della pontificia Accademia delle scienze sociali, (Carità e
Giustizia nelle relazioni tra popoli e nazioni, 27 aprile - 1° maggio 2007).
«Ora, in un contesto di governance debole è a rischio l’autorevolezza degli
organismi internazionali e si aprono molte eventualità di interventi
multilaterali variabili. Per lo stesso motivo, l’unilateralismo diventa una
tentazione, soprattutto se il sistema di governance non riesce ad affrontare
seriamente, dapprima sul piano teorico e poi su quello delle strategie
pratiche, i problemi creati dai nuovi volti che purtroppo la guerra, anche a
causa del terrorismo, ha assunto in questi ultimi anni».
Una governance debole finisce, dicevamo all’inizio, per essere
prevalentemente tecnica. In questo modo, ha affermato Bertone, anche il ricorso
alla guerra è facilitato, perché anche la guerra è, in fondo, l’idolatria della
tecnica. «Occorre passare da una governance debole che troppo spesso si affida
alla guerra, in quanto non è capace di prevenire mediante lo sviluppo e la
giustizia, a una governance ad alta intensità etica che produca un ordine nel
bene».
Il passaggio dal governo alla governance può essere così un passaggio
salutare, se nella governance cogliamo tutti l’opportunità per governarci non
già senza dover rispettare nulla al di fuori dei nostri interessi, bensì nel
rispetto dell’autentico essere di ogni persona e di ogni popolo. Proprio per
questo, in una governabilità dal volto umano, la società civile ha un ruolo
fondamentale: la sua azione è imprescindibile perché da essa nascono idee,
orientamenti e iniziative che poi arrivano ai forum internazionali e
determinano spesso le decisioni dei governi e degli organismi multilaterali. E
proprio la pressione popolare che sta emergendo, secondo Amnesty, va usata in
modo efficace per trasformare l’attuale irresponsabilità internazionale in
azione concreta in favore dei diritti umani. Grazie alla pressione della
società civile, l’Onu, per esempio, ha accettato di sviluppare un trattato per
il controllo delle armi convenzionali.
Così come il riscaldamento globale richiede un’azione basata sulla
cooperazione internazionale, allo stesso modo la situazione dei diritti umani
può essere affrontata solo attraverso la solidarietà globale e il rispetto per
il diritto internazionale.