L CARD. TETTAMANZI SUL MINISTERO DELLA SALUTE

LA MEDICINA “OTTAVO SACRAMENTO”

 

Alla medicina serve un “supplemento d’anima”, uno sguardo meno angusto sulle miserie e sulle grandezze terrene perché l’uomo, medico e paziente, riprenda a sperare, cioè ricominci a vivere davvero. Nella cura dei sofferenti il modello da imitare è Gesù.

 

«La consapevolezza che il servizio ai malati e ai sofferenti è parte integrante della missione della Chiesa rende urgente incorporare nel progetto evangelizzatore la promozione della salute e l’impegno per alleviare la sofferenza e la cura degli infermi, in ossequio al comando di Cristo, il cui agire connette strettamente il compito di evangelizzazione e la guarigione dei malati» (Nota CEI Predicate il Vangelo e curate i malati. La comunità cristiana e la pastorale della salute, 2006). In questo contesto le istituzioni sanitarie cattoliche (e in special modo quelle nate nell’ambito della vita consacrata), per poter esercitare un influsso positivo sulla comunità ecclesiale e sulla società, devono compiere alcuni passi: superare l’isolamento nel territorio; ricercare una più efficace collaborazione tra le diverse istituzioni; offrire ai laici opportune possibilità di crescere nella spiritualità e nella teologia della sofferenza.

 

TRE AZIONI

PER LA VITA

 

Su quest’ultimo aspetto il Movimento Medicina-Sacerdozio, promosso dall’Ospedale San Raffaele di Milano, crede che la medicina sia come un ottavo sacramento secondo il mandato di Gesù Cristo: “andate, insegnate, guarite”. Proprio sul tema Guarite gli infermi. Gesù con i malati e i sofferenti, modello e forza per il “ministero” (11 giugno 2007) il movimento ha chiesto lumi al cardinale Dionigi Tettamanzi, il quale ha introdotto il suo intervento ribadendo che «le tre azioni – andare, insegnare, guarire – si intrecciano profondamente tra di loro e corrispondono a un unico grande progetto di vita che ci viene proposto». Facendo subito riferimento al vangelo, come testo che ha un suo grande valore anche per i non credenti, e affermando che esso «suscita e alimenta una nuova cultura e prassi, un modo nuovo e originale di interpretare e di vivere tutte le realtà umane, personali e sociali», il cardinale si è rivolto all’ampio mondo delle persone che in vario modo si pongono al servizio del malato.

I due brani di vangelo da lui analizzati (la guarigione della suocera di Pietro e la guarigione del servo del centurione romano) si inseriscono in una visione per la quale «l’infermità e la malattia sono spesso solo l’apparire di un dolore più profondo, il manifestarsi di un malessere dell’animo, di un disordine della persona, che talora viene indicato (secondo le categorie religiose e culturali dell’ebraismo dell’epoca) come “possesso” o “tormento” da parte del demonio o di uno spirito immondo».

Rileggendo queste pagine con gli occhi della scienza possiamo leggere «il fenomeno dell’inquietudine che nasce da uno squilibrio profondo della personalità, nel quale si intrecciano fattori biologici, cognitivi, comportamentali, relazionali e sociali e drammi spirituali e morali, attuali o trascorsi, della vita dell’uomo. Una sofferenza, questa, che non è certo assente dall’uomo moderno. Anzi, essa appare talora come la forma di bisogno più acuta che il medico e le altre figure della cura psicologica e spirituale della persona incontrano nella loro attività e di fronte alla quale essi si trovano spesso a essere impotenti, perché, per esempio, le “armi” della medicina (come la terapia farmacologica) o della psicologia (come le diverse forme di psicoterapia) non risolvono la situazione, ma servono piuttosto a contenere, a sedare gli episodi più acuti del malessere del paziente, senza peraltro restituirlo a una vita normale, serena, lieta»

 

“...ACCOSTATOSI, LA SOLLEVÒ

PRENDENDOLA PER MANO”

 

Il racconto della guarigione della suocera di Pietro (Marco cap. primo) si inserisce esattamente nella successione: andate, predicate, guarite. Dopo aver scelto i primi apostoli lungo il mare di Galilea, e dopo essere entrato nella sinagoga di Cafarnao per insegnarvi, Gesù compie una guarigione, scacciando da un uomo lo spirito immondo che lo possedeva (Mc 23-28). A questo punto Gesù esce dalla sinagoga e si reca nella casa di Simone e di Andrea (v. 29): qui «la suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli, accostatosi, la sollevò prendendola per mano: la febbre la lasciò ed essa si mise a servirli» (vv. 30-31). Dal racconto evangelico si possono enucleare elementi preziosi, che ci dicono l’attenzione di Gesù alla persona malata e la sua benevolenza particolare verso chi è infermo e che diventano paradigmatici per noi.

Anzitutto, Gesù non prende le distanze dalle persone, non “si protegge” dalle loro domande e dalle loro richieste. Non ha paura di farsi commensale con chi ha bisogno di lui. «Già questo interpella tutti noi, sfida i medici e i diversi operatori sanitari, entra nella nostra psicologia, mette a nudo i nostri percorsi interiori prima ancora che si facciano evidenti con determinati gesti e comportamenti. Tutti corriamo il rischio di allontanarci dal volto di chi ci cerca, di trincerarci dietro al tempo che manca, di non reggere al confronto con le domande più disarmanti e sincere dei nostri ammalati e dei loro cari: sono le domande che hanno il sapore della tavola domestica e non della scrivania di uno studio medico, che partono dall’esperienza della gioia e del dolore di tutti giorni… Per ascoltare queste domande, per raccogliere questo grido – che può essere silenzioso o urlato nel pianto – , bisogna entrare nella “dimora” della persona, occorre farsi accogliere da essa, proprio come Gesù che sapeva farsi accogliere nelle case di chi più amava perché più aveva bisogno di lui, come ci mostra chiaramente, ad esempio, l’episodio di Zaccheo (Lc 19, 1-10)». Si può dire che qui c’è la forma compiuta della carità professionale, cioè la sua concretizzazione dentro l’esercizio quotidiano della professione medica e sanitaria.

In questo contesto di commensalità familiare si svolge quella che appare essere la visita domiciliare alla suocera di Simon Pietro. «C’è sempre, ha sottolineato Tettamanzi ai medici presenti, un’energia ancora da spendere, anche quando siete arrivati a sera e il peso della giornata grava sulle vostre spalle. Lo sapete: l’eroico è il quotidiano vissuto per qualcosa di più grande di noi; la santità è il quotidiano vissuto secondo le esigenze dell’amore pieno, lasciandoci ispirare dal comportamento di Gesù stesso… la sera a casa nostra quando squilla di nuovo il telefono, la notte in reparto quando ci cercano e noi stiamo per smontare dal turno di guardia, non ci sentiremmo più chiamati a diventare patetiche vittime del nostro lavoro ma autentici “santi della carità professionale”, cioè uomini e donne (cristiani) che sanno offrire la loro vita perché l’amore stesso di Dio si manifesti nel mondo attraverso l’opera della cura dei malati cui essi sono chiamati, per vocazione, a dare forma umana concreta».

La febbre lasciò la donna ed essa si mise a servirli (v. 31). In realtà, il servizio ai malati, il “ministero della salute” è capace non solo di guarire, ma anche di suscitare a sua volta disponibilità e servizio verso l’altro. La “carità professionale” allora ha in sé una capacità di contagio. E questo a cerchi concentrici: dai più vicini agli altri, sino ai più lontani. «Se i cristiani medici e operatori sanitari faranno della loro professione un autentico “ministero della salute”, sull’esempio di quello di Gesù, la società italiana sarà attraversata da una testimonianza capillare, possente e convincente: una testimonianza capace di favorire il rinnovamento di altri impegni professionali, sociali e politici, di far cessare la febbre dell’arricchimento e del potere e di mettere le competenze e le energie di ogni cittadino al servizio del bene comune».

 

“...NESSUNO CON UNA FEDE

COSÌ GRANDE”

 

Il secondo episodio che ci mostra il “ministero della salute” vissuto da Gesù è quello della guarigione del servo del centurione (Matteo al cap. ottavo e Luca al capitolo settimo). Gesù è sceso dalla montagna e appena entrato in Cafarnao «gli venne incontro un centurione che lo scongiurava: “Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente”» (Mt 8, 5-6). «Di quale male soffriva il servo del centurione? Forse, ipotizza Tettamanzi, si trattava di un incidente occorso mentre lavorava o rincasava, una lesione che gli aveva provocato una paralisi degli arti o del tronco. Il vangelo non precisa ulteriormente, ma le condizioni del servo dovevano essere critiche e, in assenza, a quei tempi, di un efficace analgesico, egli soffriva “terribilmente” (v. 6)».

Ci interpella la pronta decisione di Gesù: non c’è tempo da perdere: quando la sofferenza chiama, bisogna essere disposti a cambiare i propri progetti, a rinunciare a quanto era in programma. A «non concepire la propria professione esclusivamente secondo la regola del “cartellino da timbrare”, dell’orario di ambulatorio, del mansionario ospedaliero». Colpisce però anche l’espressione del centurione: «Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito» (Mt 8,8). E il vangelo di Luca fa precedere questa frase dall’affermazione che molte volte ci siamo sentiti dire dai nostri pazienti e dai loro cari: «Signore, non stare a disturbarti». «“Dottore, non si disturbi!”. Non a tutti i medici uno dice così! Il medico napoletano san Giuseppe Moscati ripeteva spesso: «la carità, non la scienza, cambierà il mondo». Il cambiamento, di cui ha più bisogno il mondo della medicina d’oggi, secondo il relatore, è quello della “gratuità clinica” (che non è l’esenzione dal ticket sulle prestazioni sanitarie!), è quello di un “amore competente” e che si spende per l’altro senza riserve, senza misure strette.

All’udire le parole del centurione, «Gesù ne fu ammirato e disse a quelli che lo seguivano: In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande» (v. 10). «Qual è la “grandezza” della fede del centurione dichiarata pubblicamente da Gesù? Un primo percorso di riflessione può essere rinvenuto nel riconoscimento, da parte del centurione, di una “potenza dall’Alto” di cui era investito Gesù, di una forza spirituale e fisica capace di cambiare il corso degli eventi anche soltanto con «una parola» (v. 8). È la linea del miracolo, dei fatti straordinari che Gesù compiva e di cui il soldato romano era venuto a conoscenza. Il miracolo è un segno visibile di una realtà invisibile, cioè dell’amore e della potenza di Dio: l’amore che fa chinare Dio verso l’uomo e lo fa intervenire a suo favore, prendendosi cura di lui, custodendolo, rigenerandolo nello spirito e nel corpo; e la sua onnipotenza, che realizza l’amore di Dio trasfigurando la realtà dell’uomo e del mondo, talora anche sottomettendo a questo disegno d’amore le leggi dell’universo da lui creato».

Vi è ancora una seconda ragione nella quale riconosciamo la solidità, la maturità della fede del centurione. L’avere creduto senza avere visto. «Gli occhi della fede ci fanno vedere la realtà e la sua consistenza ultima con una certezza non minore che gli occhi del corpo. Anzi sanno arrivare prima e meglio di questi ultimi a riconoscere l’opera di Dio attraverso la quale siamo stati chiamati alla salvezza e alla quale siamo invitati a collaborare. Di fronte alla malattia e dinanzi al malato, lo sguardo del medico cristiano non può essere solo quello clinico, capace di scorgere i segni di una sofferenza, di riconoscerne le cause e di discernere il trattamento più efficace per alleviare il dolore e ricomporre la fisiologia del corpo. Occorre guardare il paziente anche con lo sguardo della fede, che non disgiunge la richiesta della salute dalla domanda della salvezza… Così, se anche non gli riuscirà di strappare dalla malattia o dalla morte quella persona che gli è stata affidata dalla provvidenza del Padre perché se ne prenda cura con scienza e carità, il medico sarà certo e lieto, nella fede della risurrezione, che l’ultima parola sulla vita di quell’uomo o di quella donna, così come l’ultima parola sulla propria vita, non è la sofferenza e la morte, ma la pace e la vita che in Cristo ci sono state donate.

In conclusione il card. Tettamanzi ha ricordato le parole di Benedetto XVI a Monaco: «dove portiamo agli uomini soltanto conoscenze, abilità, capacità tecniche e strumenti, là portiamo troppo poco». Serve un “supplemento d’anima” alla medicina! Serve uno sguardo meno angusto sulle miserie e sulle grandezze dell’uomo perché l’uomo, medico e paziente, riprenda a sperare, cioè ricominci a vivere davvero. Il Signore Gesù, “medico della carne e dello spirito” – come lo chiamava sant’Ignazio di Antiochia (Ad Ephesios, 7,2) – continua invisibilmente ma efficacemente a spalancare l’orizzonte della nostra vita, sia personale che professionale, e in tal modo a restituirci la gioia del vivere, nonostante tutto.

a cura di Mario Chiaro