LA DONNA NELLA CHIESA LOCALE

AL DI LÀ DEL “FARE”

 

La donna può offrire un contributo unico e originale nella Chiesa se viene valorizzata per quello che è, nel suo essere, più che non per quello che le viene chiesto di fare. Questo vale anche per la donna consacrata a cui vengono spesso chiesti solo dei servizi.

 

Ogni battezzato, pur appartenendo alla Chiesa universale, è chiamato a vivere la sua vocazione cristiana nella chiesa locale. È un principio del tutto assodato che nessuno mette in dubbio. Posto così il problema, mettendoci dal punto di vista femminile, dal momento che questo aspetto continua a proporsi con tutta una gamma di accentuazioni e di sfumature, e a volte persino di rivendicazioni, qual è il contributo caratteristico che può dare la donna, e in particolare la donna consacrata, alla chiesa locale? A questo argomento la rivista dei religiosi del Cile Testimonio (marzo-aprile 2007) dedica un’interessante riflessione a firma di Barbara Buckler MC, nel contesto più ampio di tutta la trattazione del numero in questione dedicato al tema Religiosi e laici, con il sottotitolo espressivo Allargare la tenda.

 

SUL PIANO

DELL’ESSERE

 

Due sono i punti su cui la Buckler attira l’attenzione: il dono di Dio all’umanità per mezzo della dimensione femminile e questo medesimo dono vissuto dalla vita consacrata.

Più direttamente: in che misura l’elemento femminile è un dono che la donna offre alla chiesa locale? E di conseguenza, qual è la “carta di identità” della donna nella Chiesa? Sono domande che ricorrono di frequente.

Alla prima di queste, osserva, bisogna rispondere che il principale contributo della donna consiste nell’“essere se stessa”. Non si tratta quindi di “ciò che può fare”, ma di “ciò che deve essere come donna”, ossia una persona che si realizza umanamente vivendo i valori del vangelo e animando con la sua condotta gli altri membri della comunità di fede. Cercare il contributo nel servizio o nei compiti lavorativi, osserva, vuol dire lasciare l’essenziale di ogni essere umano che è di crescere in umanità e di coltivare una umanità in se stesso per poter amare il prossimo come ama se stesso. La mentalità pragmatistica e utilitaristica ci porta a valorizzare le persone per quello che sanno, per quello che possono e possiedono, anziché per quello che sono in se stesse.

Questa prospettiva di cercare il femminile nell’“essere donna” e non nell’“agire della donna”, osserva la Buckler, è tanto più necessaria in quanto nella nostra cultura occidentale c’è una lunga tradizione che identifica il femminile o il maschile in base ai compiti domestici o pubblici che ciascuno dei due generi svolge. E forse, sottolinea, questa è anche una tentazione nel modo di porre il problema della donna nella Chiesa, ossia quella di guardare ai compiti che può svolgere e quali no e perché alcuni sì e altri no.

Una visione cristiana dei generi ci porta a superare la stretta visione dei “compiti” per cercare il contributo di ciascuno di essi nell’identità stessa del suo essere. I compiti da svolgere devono essere la manifestazione e l’espressione, sul piano delle attività, di ciò che la donna è in se stessa. Perciò la domanda circa la presenza della donna nella Chiesa non può ridursi a ciò che essa fa, ma deve tenere presente ciò che è e anche ciò che la Chiesa, come spazio in cui cresciamo in umanità e nella fede, ci aiuta nella realizzazione personale.

 

LA SUA VOCAZIONE

DI MADRE E SPOSA

 

Secondo la Bukler è illuminante ciò che Giovanni Paolo II ha scritto sulla dignità della donna. Ha affermato che il femminile assume rilievo a partire da due prospettive: dalla persona di Maria, Madre di Gesù, e dalla Chiesa stessa in quanto simbolo di sposa di Cristo.

Sono due aspetti molto femminili. Il primo, quello della maternità è esclusivamente femminile poiché solo la donna può generare un essere umano, anche se non da sola. Maria, Madre di Gesù, è un paradigma non solamente di ogni donna chiamata alla maternità, ma di ogni essere umano chiamato da Dio a svolgere un compito. Il dialogo di Maria con l’angelo nell’Annunciazione ci rivela il modo di agire di Dio che non “usa le persone”, ma fa loro comprendere quello che chiede ad esse e attende la loro libera decisione.

Osserva la Buckler: dovremmo meditare di più questo modello iniziale di collaborazione libera di un essere umano con il progetto divino che è al centro di tutta la storia, l’incarnazione. Qui Maria è un modello universale per tutti, uomini e donne. Ma il valore del testo sta nel fatto che, contro il costume antico di non considerare per niente la libertà della donna, fino a sceglierle, per esempio, lo sposo con cui andare a vivere, l’angelo, che rappresenta Dio, avanza la proposta come un invito e attende che gli venga data una risposta nella libertà.

In maniera radicalmente diversa a queste tradizioni antiche, il racconto dell’Annunciazione ci presenta un modo di agire di Dio in cui ciò che è chiesto di “fare” a Maria deve scaturire da quello che lei “è” come essere personale dotato di libertà. Maria si sente interpellata come persona libera per cooperare al mistero della maternità del Messia promesso. Nutre dei dubbi a questo riguardo e li fa presenti, soprattutto ha una fiducia illimitata nella bontà di Dio, e per questo accetta.

La Chiesa è “impregnata” dell’elemento femminile per la presenza di Maria. Il suo esempio è il cammino che deve seguire ogni vocazione ecclesiale. Dire: “si compia in me secondo la tua parola” è l’espressione più profonda che ogni membro della Chiesa può pronunciare affinché la volontà di Dio si realizzi nella nostra storia.

In questo senso, ciascun membro della Chiesa, compresi i maschi, ha una missione: far sì che il germe del Vangelo, seminato nel cuore delle persone, cresca e maturi. Il rispetto della vita e dei suoi processi, qualcosa che la donna capisce molto bene nella concezione del nuovo essere, è una lezione di umile docilità al tempo della maturazione e della crescita. Maria si associa alla missione del suo Figlio, lo sostiene, lo accompagna fino alla croce. La Chiesa intera deve seguire questo “cammino” che è la vita di ciascun essere umano e stare con ciascuno nelle sue gioie e tristezze, come scrive la costituzione Gaudium et spes.

Un’altra figura femminile che appare nella Chiesa deriva dalla sua immagine di Sposa di Cristo. È un’immagine, sottolinea la Buckler, che orienta a comprendere in forma globale ciò che significa il fattore femminile per la Chiesa. Le relazioni tra Cristo e la Chiesa sono relazioni di amore, non di leggi e istituzioni.

Per molti cristiani, invece, la Chiesa è una istituzione governata da vescovi e sacerdoti a cui si deve obbedienza; essi non sentono, salvo casi eccezionali, la Chiesa come una comunità di fratelli nell’uguaglianza, i quali, pur essendo guidati da coloro che li animano, si sentono tutti veri fratelli. La donna, per il fatto di essere tale, dovrebbe costantemente ricordare a tutta la comunità, uomini e donne, che la Chiesa nella sua totalità non può mai definirsi per se stessa; essa non è né “celibe” né “vedova”, ma Sposa innamorata del suo Sposo. Cristo dovrebbe essere il centro vitale della permanente affettività ecclesiale; non la legge, ma l’amore, o meglio, “la legge dell’amore” che unisce lo Sposo alla Sposa.

Se la Chiesa trova difficoltà a essere Sposa di Cristo dipende dal fatto che non siamo sufficientemente fratelli e sorelle per sentirci un’unità collettiva vitale. Di qui gli atteggiamenti di sfiducia, i progressi e i regressi, l’uso e l’abuso del potere di comandare.

Indubbiamente è difficile per la Chiesa sentirsi Sposa, ma senza questo suo “farsi” non giungerà mai a comprendere che Gesù l’ama nella sua totalità così come è, con i suoi errori e le sue miserie, e che essa deve amare Gesù con tutto il cuore e con tutta l’anima. Non giungerà mai a comprendere i doni che, per mezzo dello Spirito, lo Sposo ci regala per formare una comunità.

Per questo non percepiamo la tenerezza di Cristo per la comunità in quanto tale e il suo dolore quando ci disuniamo e più ancora la sofferenza di vedere i suoi carismi e i suoi doni che invece di essere strumenti di comunione e di servizio diventano strumenti di potere e di emarginazione o discriminazione.

È qui che la donna, in quanto tale, ha una parola da dire, poiché sacerdoti e vescovi, non vivendo l’esperienza coniugale, possono dimenticare la relazione di amore verso la Chiesa come comunità e sostituirla con la relazione della legge. Solo la donna con la sua maturità umana può aiutare coloro che governano e sono celibi a maturare se stessi così da avere una relazione con la comunità libera da ogni maschilismo, consapevole o inconsapevole.

 

VITA RELIGIOSA

FEMMINILE PER LA CHIESA

 

Per quanto riguarda il contributo della vita religiosa femminile occorre dire anzitutto che oggi si sono aperte alle religiose nuove possibilità in numerosi campi: nell’educazione della fede, nella pastorale della salute, nell’attenzione ai gruppi emergenti, tra i drogati, i giovani da recuperare. Insieme a tante laiche che lavorano in questi campi, le religiose si caratterizzano oggi per la loro preparazione, la loro esperienza e soprattutto per il modo di vivere i loro doni femminili nel servizio.

Ma, osserva la Buckler, ricollegandosi con quanto detto sopra, il contributo essenziale consiste nell’“essere” stesso della donna consacrata, e perciò nel suo modo di vivere, di pensare, di amare, di reagire in tutte le circostanze.

È stato utile ritornare alla teologia dei voti come caratteristica della consacrazione e di avere considerato il voto di obbedienza come la prima e fondamentale forma di dedizione a voler compiere la volontà di Dio. Certamente ci sono delle mediazioni di questa volontà, ma esse non possiamo dimenticare che questa volontà nella sua purezza e profondità è stata rivelata da Cristo e dal Regno che annuncia.

Come poter dire, si chiede la Buckler, che facciamo la “volontà di Dio” se non siamo dedite con tutto il nostro essere di donne a far sì che si manifesti la “bontà di Dio”? In questo gioco di parole si nasconde una profonda verità teologica: Dio creando l’uomo l’ha fatto come “espansione della sua Bontà” nella sua creazione; solo noi esseri umani possiamo riconoscere questa Bontà e collaborare con essa facendocene messaggeri.

La Buckler esclama: come è lontana dalla volontà divina un’obbedienza a una legge che nasconde motivi di potere, di discriminazione, di repressione; per questo il criterio del Vangelo deve essere l’unico modo di intendere la legge, a partire dall’amore e per amore; qui s’incontrano la volontà e la bontà.

Questo modo di comprendere l’obbedienza per la sua centralità e radicalità non sacrifica niente di ciò che è femminile e che ogni donna porta in sé.

«Parlo, afferma, di centralità, perché l’obbedienza ha un tronco e dei rami, e molte volte si esige obbedienza ai rami senza collegarli col tronco; si esigono dettagli “periferici” e si dimenticano le grandi esigenze della carità. Parlo di radicalità poiché ogni obbedienza, come quella di Gesù, sa distinguere il posto che occupa il “sabato” e quello che occupa l’“uomo”. Non si possono sacrificare persone per il bene delle istituzioni, ma bisogna mettere le istituzioni al servizio delle persone.

La vita religiosa dovrebbe aiutare noi donne a realizzarci come persone mature capaci di cogliere le chiamate di Dio nelle parole umane e nelle norme e indicazioni delle persone. Né le ribellioni né l’infantilismo sottomesso ci fanno crescere come persone adulte in grado di consacrarci all’assoluto nel quotidiano e nel relativo.

Un altro aspetto della consacrazione, che tocca il nostro essere e che deve poi irradiarsi nel nostro agire, è la povertà. In particolare per la vita religiosa femminile il riconoscimento di Cristo nei poveri è una questione vitale. La verginità come opzione di vita significa avere un cuore intero per vivere affettivamente il mistero dell’amore di Cristo. Ciò deve fare tutta la Chiesa come Sposa, la donna consacrata deve sentirlo come sua vocazione più intima; deve testimoniare con tutta la sua vita che il centro dell’affettività della Chiesa è Cristo e che bisogna saperlo riconoscere nei poveri. Non saranno le “attività” o i “compiti” speciali a caratterizzare il servizio della donna consacrata nella Chiesa, ma le sue energie profuse con cuore di donna polarizzate dall’amore a Gesù Cristo. Essa deve essere la profetessa che ricorda che Cristo continua a stare con i poveri, che l’umanità si gioca il suo destino attorno a questo gruppo umano abbandonato e trascurato.

Un altro aspetto importante consiste nel ricostruire le relazioni di fraternità pregiudicate dall’odio, dalla vendetta e dalla malvagità. In quanto credenti in Cristo siamo tutti obbligati a seguire il consiglio di Gesù di “rendere bene per male”. Di fronte al male che ci circonda non dobbiamo alzare muri, ma aprire porte e finestre per fare quel bene che conquista i cuori e rivela in noi il regno di Dio. Certamente queste esigenze non sono esclusive della donna consacrata, essendo comuni a tutti, ma la consacrazione conferisce ad esse un “sapore” e un “colore” speciale.

Sono tre le domande che derivano dal nostro essere, conclude la Buckler: come obbediamo alla volontà di Dio di manifestare al mondo la sua bontà? Come viviamo nella nostra chiesa la vocazione profetica secondo cui la chiesa locale si rinnoverà profondamente scoprendo nei poveri Cristo suo Sposo? Come tradurre nella pratica quotidiana l’impegno di fare il bene in tutte le cose e sempre verso coloro che ci fanno del male?

Accennando infine brevemente al problema del sacerdozio alle donne, senza entrare nelle polemiche relative a questo argomento, la Buckler osserva che tutti i battezzati sono partecipi del sacerdozio di Cristo e sono chiamati a vivere e a morire come lui, rendendo bene per male e donando la propria vita per causa del regno di Dio. «Nel momento attuale – conclude – credo che la donna nella Chiesa sia chiamata a ricordare a tutti, anche ai ministri ordinati, che la nostra partecipazione al sacerdozio di Cristo passa attraverso il mistero della croce. Che solo vivendo e morendo come Gesù doniamo al mondo la vita dei figli di Dio in cambio della malvagità che nega a tanti esseri umani il diritto di vivere, o almeno, di vivere con dignità. Per attuare questo compito così trascendente mi chiedo se noi donne siamo cresciute in umanità – nel nostro caso in femminilità – per offrire alla chiesa locale più quello che siamo in quanto donne che non quello che possiamo in quanto tali realizzare».

A.D.