LA DONNA NELLA CHIESA LOCALE
AL DI LÀ DEL “FARE”
La donna può offrire
un contributo unico e originale nella Chiesa se viene valorizzata per quello
che è, nel suo essere, più che non per quello che le viene chiesto di fare.
Questo vale anche per la donna consacrata a cui vengono spesso chiesti solo dei
servizi.
Ogni battezzato, pur appartenendo alla Chiesa universale, è chiamato a
vivere la sua vocazione cristiana nella chiesa locale. È un principio del tutto
assodato che nessuno mette in dubbio. Posto così il problema, mettendoci dal
punto di vista femminile, dal momento che questo aspetto continua a proporsi
con tutta una gamma di accentuazioni e di sfumature, e a volte persino di
rivendicazioni, qual è il contributo caratteristico che può dare la donna, e in
particolare la donna consacrata, alla chiesa locale? A questo argomento la
rivista dei religiosi del Cile
SUL PIANO
DELL’ESSERE
Due sono i punti su cui la Buckler attira l’attenzione: il dono di Dio
all’umanità per mezzo della dimensione femminile e questo medesimo dono vissuto
dalla vita consacrata.
Più direttamente: in che misura l’elemento femminile è un dono che la donna
offre alla chiesa locale? E di conseguenza, qual è la “carta di identità” della
donna nella Chiesa? Sono domande che ricorrono di frequente.
Alla prima di queste, osserva, bisogna rispondere che il principale
contributo della donna consiste nell’“essere se stessa”. Non si tratta quindi
di “ciò che può fare”, ma di “ciò che deve essere come donna”, ossia una
persona che si realizza umanamente vivendo i valori del vangelo e animando con
la sua condotta gli altri membri della comunità di fede. Cercare il contributo
nel servizio o nei compiti lavorativi, osserva, vuol dire lasciare l’essenziale
di ogni essere umano che è di crescere in umanità e di coltivare una umanità in
se stesso per poter amare il prossimo come ama se stesso. La mentalità
pragmatistica e utilitaristica ci porta a valorizzare le persone per quello che
sanno, per quello che possono e possiedono, anziché per quello che sono in se
stesse.
Questa prospettiva di cercare il femminile nell’“essere donna” e non
nell’“agire della donna”, osserva la Buckler, è tanto più necessaria in quanto
nella nostra cultura occidentale c’è una lunga tradizione che identifica il
femminile o il maschile in base ai compiti domestici o pubblici che ciascuno
dei due generi svolge. E forse, sottolinea, questa è anche una tentazione nel
modo di porre il problema della donna nella Chiesa, ossia quella di guardare ai
compiti che può svolgere e quali no e perché alcuni sì e altri no.
Una visione cristiana dei generi ci porta a superare la stretta visione dei
“compiti” per cercare il contributo di ciascuno di essi nell’identità stessa
del suo essere. I compiti da svolgere devono essere la manifestazione e
l’espressione, sul piano delle attività, di ciò che la donna è in se stessa.
Perciò la domanda circa la presenza della donna nella Chiesa non può ridursi a
ciò che essa fa, ma deve tenere presente ciò che è e anche ciò che la Chiesa,
come spazio in cui cresciamo in umanità e nella fede, ci aiuta nella
realizzazione personale.
LA SUA VOCAZIONE
DI MADRE E SPOSA
Secondo la Bukler è illuminante ciò che Giovanni Paolo II ha scritto sulla
dignità della donna. Ha affermato che il femminile assume rilievo a partire da
due prospettive: dalla persona di Maria, Madre di Gesù, e dalla Chiesa stessa
in quanto simbolo di sposa di Cristo.
Sono due aspetti molto femminili. Il primo, quello della maternità è
esclusivamente femminile poiché solo la donna può generare un essere umano,
anche se non da sola. Maria, Madre di Gesù, è un paradigma non solamente di
ogni donna chiamata alla maternità, ma di ogni essere umano chiamato da Dio a
svolgere un compito. Il dialogo di Maria con l’angelo nell’Annunciazione ci
rivela il modo di agire di Dio che non “usa le persone”, ma fa loro comprendere
quello che chiede ad esse e attende la loro libera decisione.
Osserva la Buckler: dovremmo meditare di più questo modello iniziale di
collaborazione libera di un essere umano con il progetto divino che è al centro
di tutta la storia, l’incarnazione. Qui Maria è un modello universale per
tutti, uomini e donne. Ma il valore del testo sta nel fatto che, contro il
costume antico di non considerare per niente la libertà della donna, fino a
sceglierle, per esempio, lo sposo con cui andare a vivere, l’angelo, che
rappresenta Dio, avanza la proposta come un invito e attende che gli venga data
una risposta nella libertà.
In maniera radicalmente diversa a queste tradizioni antiche, il racconto
dell’Annunciazione ci presenta un modo di agire di Dio in cui ciò che è chiesto
di “fare” a Maria deve scaturire da quello che lei “è” come essere personale
dotato di libertà. Maria si sente interpellata come persona libera per
cooperare al mistero della maternità del Messia promesso. Nutre dei dubbi a
questo riguardo e li fa presenti, soprattutto ha una fiducia illimitata nella
bontà di Dio, e per questo accetta.
La Chiesa è “impregnata” dell’elemento femminile per la presenza di Maria.
Il suo esempio è il cammino che deve seguire ogni vocazione ecclesiale. Dire:
“si compia in me secondo la tua parola” è l’espressione più profonda che ogni
membro della Chiesa può pronunciare affinché la volontà di Dio si realizzi
nella nostra storia.
In questo senso, ciascun membro della Chiesa, compresi i maschi, ha una
missione: far sì che il germe del Vangelo, seminato nel cuore delle persone,
cresca e maturi. Il rispetto della vita e dei suoi processi, qualcosa che la
donna capisce molto bene nella concezione del nuovo essere, è una lezione di
umile docilità al tempo della maturazione e della crescita. Maria si associa
alla missione del suo Figlio, lo sostiene, lo accompagna fino alla croce. La
Chiesa intera deve seguire questo “cammino” che è la vita di ciascun essere
umano e stare con ciascuno nelle sue gioie e tristezze, come scrive la
costituzione Gaudium et spes.
Un’altra figura femminile che appare nella Chiesa deriva dalla sua immagine
di Sposa di Cristo. È un’immagine, sottolinea la Buckler, che orienta a
comprendere in forma globale ciò che significa il fattore femminile per la
Chiesa. Le relazioni tra Cristo e la Chiesa sono relazioni di amore, non di
leggi e istituzioni.
Per molti cristiani, invece, la Chiesa è una istituzione governata da
vescovi e sacerdoti a cui si deve obbedienza; essi non sentono, salvo casi
eccezionali, la Chiesa come una comunità di fratelli nell’uguaglianza, i quali,
pur essendo guidati da coloro che li animano, si sentono tutti veri fratelli.
La donna, per il fatto di essere tale, dovrebbe costantemente ricordare a tutta
la comunità, uomini e donne, che la Chiesa nella sua totalità non può mai
definirsi per se stessa; essa non è né “celibe” né “vedova”, ma Sposa innamorata
del suo Sposo. Cristo dovrebbe essere il centro vitale della permanente
affettività ecclesiale; non la legge, ma l’amore, o meglio, “la legge
dell’amore” che unisce lo Sposo alla Sposa.
Se la Chiesa trova difficoltà a essere Sposa di Cristo dipende dal fatto
che non siamo sufficientemente fratelli e sorelle per sentirci un’unità
collettiva vitale. Di qui gli atteggiamenti di sfiducia, i progressi e i
regressi, l’uso e l’abuso del potere di comandare.
Indubbiamente è difficile per la Chiesa sentirsi Sposa, ma senza questo suo
“farsi” non giungerà mai a comprendere che Gesù l’ama nella sua totalità così
come è, con i suoi errori e le sue miserie, e che essa deve amare Gesù con
tutto il cuore e con tutta l’anima. Non giungerà mai a comprendere i doni che,
per mezzo dello Spirito, lo Sposo ci regala per formare una comunità.
Per questo non percepiamo la tenerezza di Cristo per la comunità in quanto
tale e il suo dolore quando ci disuniamo e più ancora la sofferenza di vedere i
suoi carismi e i suoi doni che invece di essere strumenti di comunione e di
servizio diventano strumenti di potere e di emarginazione o discriminazione.
È qui che la donna, in quanto tale, ha una parola da dire, poiché sacerdoti
e vescovi, non vivendo l’esperienza coniugale, possono dimenticare la relazione
di amore verso la Chiesa come comunità e sostituirla con la relazione della
legge. Solo la donna con la sua maturità umana può aiutare coloro che governano
e sono celibi a maturare se stessi così da avere una relazione con la comunità
libera da ogni maschilismo, consapevole o inconsapevole.
VITA RELIGIOSA
FEMMINILE PER LA CHIESA
Per quanto riguarda il contributo della vita religiosa femminile occorre
dire anzitutto che oggi si sono aperte alle religiose nuove possibilità in
numerosi campi: nell’educazione della fede, nella pastorale della salute,
nell’attenzione ai gruppi emergenti, tra i drogati, i giovani da recuperare.
Insieme a tante laiche che lavorano in questi campi, le religiose si
caratterizzano oggi per la loro preparazione, la loro esperienza e soprattutto
per il modo di vivere i loro doni femminili nel servizio.
Ma, osserva la Buckler, ricollegandosi con quanto detto sopra, il
contributo essenziale consiste nell’“essere” stesso della donna consacrata, e
perciò nel suo modo di vivere, di pensare, di amare, di reagire in tutte le
circostanze.
È stato utile ritornare alla teologia dei voti come caratteristica della
consacrazione e di avere considerato il voto di obbedienza come la prima e
fondamentale forma di dedizione a voler compiere la volontà di Dio. Certamente
ci sono delle mediazioni di questa volontà, ma esse non possiamo dimenticare
che questa volontà nella sua purezza e profondità è stata rivelata da Cristo e
dal Regno che annuncia.
Come poter dire, si chiede la Buckler, che facciamo la “volontà di Dio” se
non siamo dedite con tutto il nostro essere di donne a far sì che si manifesti
la “bontà di Dio”? In questo gioco di parole si nasconde una profonda verità
teologica: Dio creando l’uomo l’ha fatto come “espansione della sua Bontà”
nella sua creazione; solo noi esseri umani possiamo riconoscere questa Bontà e
collaborare con essa facendocene messaggeri.
La Buckler esclama: come è lontana dalla volontà divina un’obbedienza a una
legge che nasconde motivi di potere, di discriminazione, di repressione; per
questo il criterio del Vangelo deve essere l’unico modo di intendere la legge,
a partire dall’amore e per amore; qui s’incontrano la volontà e la bontà.
Questo modo di comprendere l’obbedienza per la sua centralità e radicalità
non sacrifica niente di ciò che è femminile e che ogni donna porta in sé.
«Parlo, afferma, di centralità, perché l’obbedienza ha un tronco e dei
rami, e molte volte si esige obbedienza ai rami senza collegarli col tronco; si
esigono dettagli “periferici” e si dimenticano le grandi esigenze della carità.
Parlo di radicalità poiché ogni obbedienza, come quella di Gesù, sa distinguere
il posto che occupa il “sabato” e quello che occupa l’“uomo”. Non si possono
sacrificare persone per il bene delle istituzioni, ma bisogna mettere le
istituzioni al servizio delle persone.
La vita religiosa dovrebbe aiutare noi donne a realizzarci come persone
mature capaci di cogliere le chiamate di Dio nelle parole umane e nelle norme e
indicazioni delle persone. Né le ribellioni né l’infantilismo sottomesso ci
fanno crescere come persone adulte in grado di consacrarci all’assoluto nel
quotidiano e nel relativo.
Un altro aspetto della consacrazione, che tocca il nostro essere e che deve
poi irradiarsi nel nostro agire, è la povertà. In particolare per la vita
religiosa femminile il riconoscimento di Cristo nei poveri è una questione
vitale. La verginità come opzione di vita significa avere un cuore intero per
vivere affettivamente il mistero dell’amore di Cristo. Ciò deve fare tutta la
Chiesa come Sposa, la donna consacrata deve sentirlo come sua vocazione più
intima; deve testimoniare con tutta la sua vita che il centro dell’affettività
della Chiesa è Cristo e che bisogna saperlo riconoscere nei poveri. Non saranno
le “attività” o i “compiti” speciali a caratterizzare il servizio della donna
consacrata nella Chiesa, ma le sue energie profuse con cuore di donna
polarizzate dall’amore a Gesù Cristo. Essa deve essere la profetessa che
ricorda che Cristo continua a stare con i poveri, che l’umanità si gioca il suo
destino attorno a questo gruppo umano abbandonato e trascurato.
Un altro aspetto importante consiste nel ricostruire le relazioni di
fraternità pregiudicate dall’odio, dalla vendetta e dalla malvagità. In quanto
credenti in Cristo siamo tutti obbligati a seguire il consiglio di Gesù di
“rendere bene per male”. Di fronte al male che ci circonda non dobbiamo alzare
muri, ma aprire porte e finestre per fare quel bene che conquista i cuori e
rivela in noi il regno di Dio. Certamente queste esigenze non sono esclusive
della donna consacrata, essendo comuni a tutti, ma la consacrazione conferisce
ad esse un “sapore” e un “colore” speciale.
Sono tre le domande che derivano dal nostro essere, conclude la Buckler:
come obbediamo alla volontà di Dio di manifestare al mondo la sua bontà? Come
viviamo nella nostra chiesa la vocazione profetica secondo cui la chiesa locale
si rinnoverà profondamente scoprendo nei poveri Cristo suo Sposo? Come tradurre
nella pratica quotidiana l’impegno di fare il bene in tutte le cose e sempre
verso coloro che ci fanno del male?
Accennando infine brevemente al problema del sacerdozio alle donne, senza
entrare nelle polemiche relative a questo argomento, la Buckler osserva che
tutti i battezzati sono partecipi del sacerdozio di Cristo e sono chiamati a
vivere e a morire come lui, rendendo bene per male e donando la propria vita
per causa del regno di Dio. «Nel momento attuale – conclude – credo che la
donna nella Chiesa sia chiamata a ricordare a tutti, anche ai ministri
ordinati, che la nostra partecipazione al sacerdozio di Cristo passa attraverso
il mistero della croce. Che solo vivendo e morendo come Gesù doniamo al mondo
la vita dei figli di Dio in cambio della malvagità che nega a tanti esseri umani
il diritto di vivere, o almeno, di vivere con dignità. Per attuare questo
compito così trascendente mi chiedo se noi donne siamo cresciute in umanità –
nel nostro caso in femminilità – per offrire alla chiesa locale più quello che
siamo in quanto donne che non quello che possiamo in quanto tali realizzare».
A.D.