ASSEMBLEA USG. RELAZIONE DEL SUP. GEN. DEI DEHONIANI
COMUNITÀ PROFETICHE
La profezia dono
dello Spirito per la comunità. Un doveroso cammino di purificazione del
passato. Il servizio dell’autorità come occasione e luogo di manifestazione
profetica. Il dono della vita per amore, questa la vera profezia.1
Nel giudaismo del tempo di Gesù e delle prime comunità cristiane la
profezia era vista come una caratteristica dei tempi passati, che aveva
lasciato una indelebile impronta nelle Scritture che continuavano ad alimentare
la vita del popolo. Si pensava, però, che lo Spirito di Dio, legato alla
profezia, si fosse spento con la morte degli ultimi profeti. La parola scritta
e orale tramandata dal passato costituiva la base della preghiera, della
riflessione e della morale.
D’altra parte, accanto e dentro la comunità radicata nella Legge,
sopravviveva un’altra prospettiva, basata sui testi dei profeti, che
intravedeva, annunciava e, in un certo modo, anticipava un futuro diverso e
rinnovato.
Gesù e la tradizione cristiana partono da questa proiezione futura della
profezia, interpretando i nuovi tempi come realizzazione dell’annuncio fatto ai
padri. Particolarmente nell’annuncio di Giovanni Battista, nella scena del
battesimo e nell’auto-presentazione nella sinagoga di Nazareth, Gesù è percepito
come colui che viene a portare non solo a “compimento”, ma anche alla loro
pienezza le profezie del passato. Infatti, la parola, le opere e tutta la vita
di Gesù fanno capire che lui non è semplicemente un profeta in più, ma il
“profeta promesso”, che conosce il Padre e parla di lui in forma unica, come
leggiamo nella lettera agli Ebrei: «Dio che aveva già parlato nei tempi antichi
molte volte e in diversi modi, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi
per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2).
LA COMUNITÀ
AL CENTRO
Ma Gesù non è soltanto colui che parla e agisce nella pienezza dello
Spirito. Come Figlio, ha il potere di comunicare la vita del Padre, il suo
Spirito, come annuncia il Battista: «Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi
battezzerà con lo Spirito Santo» (Mc 1,8). Gesù stesso, particolarmente nella
tradizione di Luca e di Giovanni, orienta lo sguardo dei discepoli verso un
traguardo futuro caratterizzato dal dono dello Spirito alla sua comunità:
«Avrete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete
testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi
confini della terra» (At 1,8). Per questo, la missione di Gesù raggiunge il suo
punto culminante nella Pentecoste, poiché è attraverso il dono dello Spirito
che essa diventa efficace e perenne.
Come risulta dai primi discorsi degli Atti degli apostoli, l’esistenza
della comunità, in seno alla quale si manifesta lo Spirito, costituisce il
punto centrale di questa nuova realtà. È un nuovo modo di leggere la tradizione
del passato che si realizza adesso. Viene affermata la validità del Vangelo di
Gesù nel preannuncio dei tempi nuovi. Così come Gesù nella sinagoga di Nazareth
aveva affermato: «Oggi si è adempiuta questa profezia» (Lc_4,21), allo stesso
modo, nel discorso della Pentecoste, Pietro può affermare: «Accade quello che
predisse il profeta Gioele» (At 2,16).
La presenza dello Spirito è la caratteristica dominante del libro degli
Atti. Non soltanto gli apostoli, ma tutta la comunità è costantemente
unificata, guidata, vivificata dalla presenza dello Spirito di Gesù. I doni
dello Spirito si estendono a tutti e non sono caratteristica di un singolo
membro della comunità. La profezia viene inquadrata in un insieme più organico
e diversificato di altri doni, come la parola, la misericordia, la solidarietà,
il governo, tutti elementi che contribuiscono alla crescita della comunità e
all’annunzio del Signore risorto.
In quanto dono specifico, nell’insieme degli altri doni, la profezia si
distingue come parola ispirata dallo Spirito per le circostanze in cui è
chiamata a vivere la comunità. Essa discerne il valore del momento presente,
suggerisce soluzioni concrete, ammonisce ed esorta i fratelli e proietta lo
sguardo sul cammino futuro. Si tratta di una lettura della realtà ecclesiale
alla luce dello Spirito, normalmente in un contesto di preghiera comune. C’è,
inoltre, la consapevolezza che il dono profetico è destinato alla comunità. È
la comunità, infatti, che lo riceve e gli attribuisce valore, sia nel discernimento
che nell’accettazione. Per questo Paolo raccomanda di non sopprimere la
profezia, ma di esaminarla nella comunità, perché sia secondo la fede e serva
all’edificazione comune (1Cor 14,29.32.37).
I testi neotestamentari non attribuiscono a nessun personaggio un’autorità
simile a quella dei profeti della prima alleanza. Il punto di riferimento
assoluto è la persona, la parola e l’opera di Gesù morto e risorto. Coloro che
parlano sotto l’influsso dello Spirito, non fanno altro che rendere
testimonianza (martyria) a Gesù e al suo Vangelo.
Questo Spirito non è caratteristica soltanto delle prime comunità
cristiane. Non si è mai spento, ma è costantemente all’opera nella Chiesa,
suscitando persone, movimenti e istituzioni che la rinnovano e la orientano nel
suo cammino. La vita religiosa costituisce, senza dubbio, una di queste feconde
manifestazioni della presenza dello Spirito nella comunità ecclesiale lungo i
secoli. Mossi dallo Spirito, numerosi fondatori/fondatrici si sono messi
all’ascolto di ciò che il Signore dice in ogni tempo alla sua Chiesa. Hanno
risposto con generosità, fondando comunità di discepoli con frutti abbondanti
di testimonianza evangelica nel rinnovamento della Chiesa, nell’approfondimento
del mistero cristiano e nella sollecitudine verso i più poveri e bisognosi.
TROPPO
DISFATTISMO
E oggi? Dobbiamo vivere semplicemente contemplando e narrando
nostalgicamente le vicende gloriose del passato, come gli ambienti legalisti
del giudaismo del tempo di Gesù? Non dovremmo dare ascolto al messaggio del
profeta dell’esilio che invitava i suoi connazionali a smettere di andare col
collo rivolto all’indietro e a rendersi conto che Dio stava operando nuove cose
nei loro giorni (cf. Is 43,18s)? I nostri tempi sono forse più difficili di
quelli in cui sono vissuti i nostri fondatori e tutte le schiere di consacrati
nel corso dei secoli? Lo Spirito di Dio ha forse perso la sua forza? O la
nostra società è, forse, peggiore delle generazioni che l’hanno preceduta? E se
fosse così, non sarebbe questa una ragione in più per un impegno ulteriore di
testimonianza della dimensione profetica _del Vangelo?
Perché, allora, tanti discorsi disfattisti sulla vita religiosa e sulla
Chiesa? Forse perché siamo calati di numero? Ma quando mai Gesù ha misurato il
successo della sua missione in termini numerici? Non ha forse chiamato i suoi
“piccolo gregge” (Lc 12,32) e indicato il Regno come un minuscolo seme?
Attraverso un cammino di purificazione dal peso di certe opere del passato, non
è che il Signore, con la forza del suo Spirito, ci stia facendo riscoprire il
valore della fraternità?
Questo è il tempo che ci è dato da vivere, con tutte le sue caratteristiche
positive e negative. Mentre mettiamo in discussione certe consuetudini del
passato, dovremmo però preoccuparci di non buttar via, allo stesso tempo, tutti
i valori irrinunciabili e determinanti per la costruzione del futuro. Non credo
che la società del tempo di Gesù, delle prime comunità cristiane o dei nostri
fondatori fossero molto migliori! Viviamo in un tempo di cambiamenti veloci,
dove è difficile ambientarci, adattarci, discernere il senso delle cose. Come
Chiesa e come consacrati, siamo parte di questo mondo. Non siamo qui né per
condannare, né per fuggire il nostro tempo, chiudendoci nei nostri conventi.
Siamo qui per essere segni della luce e della speranza _di Cristo.
La vita religiosa non è stata inventata oggi. Non è nemmeno, però, solo un
passato da conservare gelosamente intatto. Per essere profezia, cioè annunzio e
trasparenza del Signore Gesù, essa deve stare costantemente in ascolto di ciò
che il suo Spirito dice ed opera.Tanto per la Chiesa apostolica come per Gesù
stesso, la tradizione, il passato conservano indubbiamente una grande
importanza. Il passato, infatti, spiega e dà senso al presente. Ma oggi lo
Spirito continua vivo e vitale in mezzo a noi e ci guida nella ricerca di nuovi
cammini di fedeltà e di servizio.
Come coloro che ci hanno preceduto, abbiamo bisogno, prima di tutto, di
renderci conto che non siamo soli. Siamo o non siamo stati chiamati da Dio al
suo servizio? Ci ha, forse, chiamati a una impresa destinata al fallimento? Ci
ha, forse, abbandonato nelle nostre difficoltà? Come ai discepoli nella barca
sul mare burrascoso, lui ci rivolge parole di rimprovero e di rassicurazione:
«Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).
No, il Signore non ci ha abbandonato e non ci abbandonerà mai, perché è
fedele anche quando noi siamo infedeli nei suoi confronti. Potrebbe anche darsi
che, come è successo con i discepoli di Emmaus (Lc 24), lui cammini accanto a
noi, senza che noi, troppo occupati a piangere sulle nostre delusioni, non lo
riconosciamo neppure. Bisogna allora accettare di rifare con lui il percorso
delle Scritture, lasciare che il cuore ci bruci nell’ascolto, domandare per
trovare le risposte e capire le vie di Dio. Ma, soprattutto, abbiamo bisogno di
sviluppare il senso dell’ospitalità e della fraternità, aprendogli non solo il
nostro cuore, ma anche gli ambienti delle nostre case, delle nostre comunità.
Allora lui spezzerà per noi quel pane che ci unisce e che infonde nuovo vigore
al nostro cammino, anche e soprattutto durante la notte. Allora, proprio come i
discepoli di Emmaus, anche per noi sarà più facile ritornare a Gerusalemme per
ritrovarvi la grande comunità ecclesiale. Là, ascolteremo il grande annuncio
degli apostoli: “Il Signore è veramente risorto!”. È un annuncio di fede che,
anche nella Chiesa e nella società di oggi, dà senso a tutti i nostri drammi, a
tutte le nostre sofferenze, a tutti i nostri dubbi, aprendoci gli occhi e
spezzando per noi il pane della gioia e della speranza.
IN ASCOLTO
DELLO SPIRITO
Questa è la prima dimensione della profezia nella vita consacrata:
ascoltare lo Spirito del Signore risorto. È la prima dimensione perché senza
ascolto di Dio, non si può parlare in nome di Dio. Ma se non ci sarà profezia,
non ci sarà nemmeno vita consacrata. Ora, questo ascolto, nella misura in cui
afferma l’unicità e la priorità di Dio su tutto il resto, è già profezia. Parlo
di ascolto e non semplicemente di preghiere o di devozioni. Da sempre i
consacrati hanno imparato a santificare la loro vita di tutti i giorni con dei
richiami incessanti a Dio. Se non stiamo attenti, si può correre il rischio di
pensare che saremo ascoltati da Dio anche solo recitando materialmente molte
preghiere (cf. Mt 6,7). Certe volte mi domando (anche guardando me stesso) come
mai, persone che fanno tante preghiere e che partecipano a tante funzioni
liturgiche, non diventano veramente donne e uomini di Dio. Penso che la ragione
fondamentale sia una sola: il tempo che pensiamo di concedere a Dio, di fatto
lo occupiamo interamente per noi. Parliamo, parliamo, diciamo salmi e rosari
(tutte cose buone, se fatte nello Spirito). Ma Lui, quando mai avrà la
possibilità di dirci qualcosa? Il profeta è soprattutto, e prima di tutto,
colui che ascolta Dio, secondo _l’esperienza del profeta dell’esilio: «Mattina
dopo mattina, egli sveglia il mio orecchio, perché io ascolti come discepolo»
(Is_50,4).
La profezia, la si può promuovere? La si può imparare? È forse possibile
programmare in maniera sistematica uno sviluppo profetico delle nostre
comunità? Non è essa, invece, un dono libero dello Spirito, che lo dà come,
quando e a chi vuole? Paolo dice che si deve almeno desiderarla (1Cor 14,1). È
evidente che la profezia è un dono dello Spirito che noi possiamo solo invocare
e accogliere con gioia e umiltà. Ma anche da parte nostra ci vuole una specie
di cammino dell’incarnazione, che consenta alla profezia di diventare parola,
gesto, atteggiamento, vita. Lo Spirito parla, ma, perchè ci sia comunicazione,
bisogna che ci sia qualcuno che lo ascolti. E questo possiamo e dobbiamo farlo
noi.
I profeti della Bibbia dimostrano di essere persone formate nell’intimità
di Dio, che hanno messo al servizio della parola e della loro testimonianza
tutte le conoscenze e risorse che potevano trovare. I discepoli di Emmaus hanno
fatto il cammino della Scrittura per riconoscere il Signore e diventare
annunciatori della risurrezione. La profezia è un dono prezioso dello Spirito:
merita di essere accolta con gratitudine e raccoglimento, fatta oggetto di
riflessione e comunicata con l’efficienza di tutti i mezzi possibili. Ma non
potrà mai portare frutto senza la sua dimensione originaria, quella dell’amore.
Non ho dubbi che lo Spirito parla alla Chiesa e concretamente alla vita
consacrata oggi, come ha parlato nel passato. Il problema è quello di sapere se
noi lo ascoltiamo. Solo diventando luoghi d’ascolto di Dio, centri rivelatori
della sua presenza trasformatrice, le nostre comunità potranno riscoprire la
loro più autentica dimensione profetica.
NUOVI SPAZI
DI CONDIVISIONE
L’adesione a Cristo nella vita religiosa è, anzitutto, una decisione
individuale, come risposta a una chiamata personale di Dio, ma si concretizza
sempre nel contesto di una comunità. Sin dall’inizio del Vangelo, infatti,
all’invito fatto ai pescatori, sulla riva del lago di Galilea, segue la
formazione di un gruppo di discepoli, che condividono con il Maestro la vita,
le risorse e la missione. La venuta dello Spirito, che dà origine alla Chiesa,
consolida questa comunità come luogo dove vive, agisce e si comunica lo
Spirito. Da questo momento in poi, l’adesione a Gesù risorto, non avverrà che
attraverso l’ingresso nella sua comunità.
Nella Chiesa, e in particolare nella vita religiosa, la comunione fraterna
diventa, dunque, l’elemento centrale della fedeltà a Cristo e della missione.
Non c’è verità, né credibilità in una consacrazione o in una spiritualità che
non diventino comunione fraterna. La fraternità in se stessa è, quindi, la
prima realizzazione del regno di Dio, testimonianza e presenza sacramentale del
Signore risorto e segno profetico della nuova umanità generata dallo Spirito.
Per l’edificazione di questo progetto non bastano le nostre regole o il
ricorso ai mezzi tecnici più aggiornati (anche se necessari e utili). Bisogna
creare, nella comunità, l’ambiente di ascolto dello Spirito di cui abbiamo già
parlato. La comunità religiosa non si fonda sull’affinità familiare, nazionale
o culturale, ma sull’essere stati chiamati insieme da Dio, sullo stare
congiuntamente all’ascolto dello stesso Maestro e sul solidale invio in
missione. È molto importante per noi essere capaci di guardarci e ascoltarci
vicendevolmente. È ancora più importante guardare e ascoltare insieme Colui che
ha chiamato ognuno di noi e che ispira i criteri della nostra vita comunitaria
e della nostra comune missione.
Promuovere l’ascolto dello Spirito significa creare nella comunità spazio e
libertà di condivisione fraterna all’ombra della parola di Dio. Allora, lo
Spirito susciterà sempre la voce profetica di fratelli e sorelle che leggeranno
in modo nuovo le Scritture, il carisma del fondatore, le nostre regole e le
tradizioni, suggerendo cammini e proposte per rinnovare la nostra vita e
missione in un mondo in continua trasformazione. Un’organizzazione comunitaria
di ascolto e di partecipazione corresponsabile, in clima di rispetto e di
dialogo, è condizione fondamentale per chi si pone veramente alla ricerca della
volontà di Dio. Così, la fraternità generata dallo Spirito potrà diventare
sorgente di costante aggiornamento, di rinnovamento delle nostre strutture.
Favorirà una nuova sensibilità per rispondere, con criteri evangelici, a tutte
le situazioni in cui siamo chiamati a servire il regno di Dio.
La profezia è sempre a servizio degli altri. Ha sempre due punti di
riferimento: Dio da una parte e la realtà concreta della comunità e del mondo
dall’altra. È in questa bipolarità che si realizza la mediazione profetica. Nel
contatto con Dio, il profeta impara a guardare il mondo con occhi nuovi,
diventando capace di esprimere, in parole e gesti, la preoccupazione di Dio nei
suoi confronti. Perciò, una comunità profetica, ha bisogno di essere aperta al
mondo che la circonda, in atteggiamento di ascolto, di dialogo, di
discernimento e di solidarietà. Per una comunità religiosa è tanto importante
lo spazio di silenzio e di comunione interna, quanto l’apertura alla Chiesa e
alla società, dove è chiamata a portare, nella solidarietà e in un
atteggiamento di speranza, la parola ascoltata.
Ma, vivendo in comunità sempre imperfette, è inevitabile che la ricerca
della fedeltà allo Spirito sia contrassegnata dalla diversità di percorsi.
Anche ammettendo che tutti gli interventi siano animati dalle migliori
intenzioni, non mancheranno mai tensioni e malintesi. Ciascuno ascolta lo
Spirito in modo personale e questo offre il grande vantaggio di valorizzare le
sue capacità e i suoi doni. Comporta anche dei limiti, dal momento che nessuno
di noi è pienamente permeabile all’azione dello Spirito. Le sue ispirazioni si
scontreranno facilmente con le nostre visioni personali, con tutti i limiti
delle nostre situazioni personali, spirituali e culturali. Per questo, la
profezia dev’essere integrata nell’insieme degli altri doni e funzioni che sono
al servizio della comunità. La convinzione del profeta diventerà allora una
verità condivisa, una riforma o un progetto corresponsabilmente assunti, un
cammino che rinnova la comunità.
LA RIVOLUZIONE
EVANGELICA
Il profeta sa essere umile, senza perdere la convinzione e la forza di ciò
che propone. Se ha una parola che ritiene provenire dallo Spirito, la deve
sottoporre al discernimento degli altri, come dice Paolo (1Cor 14,32). Solo
così manifesta la sua libertà nella ricerca della volontà di Dio e solo così la
profezia sarà veramente al servizio dell’edificazione della comunità. Il
profeta sa che, a lungo termine, la forza della ragione è più forte della
ragione della forza. La rivoluzione evangelica, infatti, non si impone mai con
la violenza degli argomenti o dei mezzi. Sa attendere il tempo più opportuno
per germogliare nel cuore dei fratelli e delle sorelle. Gesù non ha mai visto,
su questa terra, il Regno che ha annunciato. Ha potuto, però, intravedere con
grande gioia, grazie alla sua fede nel Padre, i germi iniziali di quel seme da
lui gettato con abbondanza nel cuore dei suoi discepoli per i quali ha saputo
dare, soprattutto, la sua stessa vita. È questo il motivo per cui la profezia
deve saper accettare, nella fede e nella speranza, la tensione, il conflitto e
il peccato stesso, senza scoraggiamenti per la mancanza di risultati immediati
da una parte, ma anche senza dover ricorrere alla rottura e alla violenza per
conseguirli a tutti i costi dall’altra.
Quanti fratelli e sorelle hanno abbandonato i progetti di trasformazione
della comunità, si sono scoraggiati e spesso hanno abbandonato tutto! Per quale
motivo? Perchè, a loro dire, non sono stati capiti, la comunità non funziona,
la Chiesa è impermeabile ad ogni trasformazione! E tutto questo, purtroppo,
molto spesso è vero. La Chiesa e la vita religiosa non sono realtà perfette, ma
sempre in costruzione. La vera profezia, da parte sua, non è mai il risultato
di quello che già esiste, ma forza dello Spirito per costruire una nuova
realtà. Proprio per questo la profezia diventa allora importante là dove c’è
crisi, dubbio, rancore, infedeltà.
Nella vita religiosa, nella Chiesa e nel mondo, abbiamo bisogno di questi
profeti, e ce ne sono! Anche oggi, infatti, non mancano persone che sanno
ascoltare lo Spirito, vedono con chiarezza il cammino da compiere, parlano con
convinzione e procedono con sicurezza secondo il progetto di quel mondo nuovo
che Dio ha fatto germogliare nel loro cuore. Sono persone che non si
appiattiscono nella mediocrità solo per non avere problemi o non causare
tensioni, ma nemmeno si scoraggiano per non vedere i risultati di quello che
hanno seminato. Anche se il profeta deve scomparire con il terreno in cui ha
gettato il seme, queste persone son consapevoli del fatto che Dio farà
germogliare questo seme nell’amore, meta e punto culminante, come dice Paolo,
di ogni profezia (1Cor 13).
Il binomio profezia-amore è importante nel discernimento della vera
profezia e nella costruzione della comunità. L’amore della profezia fa sì che
la fraternità si costruisca sulla verità e la fedeltà allo Spirito, e non su un
semplice gioco di convenienze e complicità tendenti a evitare conflitti e
tensioni. _La conseguenza di questo atteggiamento sarebbe la mediocrità e la
distruzione dei presupposti della comunità stessa.
NON SERVONO
“DOMATORI DI LEONI”
Nell’edificazione della comunità, la profezia è chiamata ad avere un ruolo
preminente, in collegamento con altri doni e servizi che sono ugualmente suscitati
dallo Spirito. Tra questi si trova il servizio dell’autorità o di
coordinamento. Spesso, per influsso della mentalità socio-politica, siamo
tentati di concepire l’autorità e la profezia come poli opposti e antagonisti,
rappresentando, uno, la stabilità istituzionale e l’altro la novità creatrice.
Oggi, questo modello non può funzionare, nemmeno in un’impresa che voglia avere
successo. Una direzione che non permetta di essere messa in discussione, di
essere fecondata e rinnovata dagli altri membri è condannata all’invecchiamento
e all’inefficacia. D’altra parte, un gruppo che non sia in grado di generare
meccanismi di coordinamento e decisione non sarà capace di mantenersi e di
progredire.
Il primo compito dell’autorità, allora, non può che essere quello di
promuovere la manifestazione e l’ascolto dello Spirito nella comunità. Solo
dopo verrà quello del discernimento, del coordinamento e dell’approfondimento.
Un modello di autorità preoccupata soprattutto di mantenere l’ordine e
garantire l’osservanza delle regole, non lasciando spazio all’intervento e alla
partecipazione corresponsabile dei fratelli, non solo risulta traumatizzante e
inefficiente, ma, anzi, rischia di trasformarsi in un elemento di infedeltà e
di ostacolo alla voce di Dio. Chi non crede nella presenza di Dio nella
comunità cercherà soltanto di controllarla e di amministrarla. Chi invece crede
che lo Spirito è vivo e presente nella nostra vita, si preoccupa, prima di
tutto, di ascoltarlo. Per questo è importante che coloro che esercitano questo
servizio siano i primi a mettersi in ascolto dello voce dello Spirito.
Una conseguenza di questo atteggiamento è la preoccupazione di dare spazio
all’espressione delle qualità e capacità di ciascuno. Solo così la ricchezza
dei doni dello Spirito potrà essere messa al servizio di tutti e della missione
della comunità. Colui che presiede non deve vedersi come un domatore di leoni,
ma come fratello maggiore, che cerca di conoscere e di incoraggiare lo sviluppo
di ogni membro della propria comunità, orientandolo verso il progetto comune.
Invece di essere in opposizione alla profezia, il servizio dell’autorità
diventa luogo di manifestazione profetica. A chi presiede compete essere
espressione del Signore risorto come buon Pastore, che conosce le sue pecorelle,
si prende cura di loro, e offre per loro la propria vita (cf. Gv 10). Nei
diversi servizi ai fratelli, con gesti e parole di accoglienza, di attenzione,
di cura e di orientamento, chi è preposto all’esercizio dell’autorità
attualizza il gesto profetico della lavanda dei piedi (cf. Gv 13), come
rivelazione di uno stile di autorità che «non è venuta per essere servita, ma
per servire e dare la vita» (Mc 10,45).
Il richiamo a Gesù servo e pastore come modello dell’autorità ci fa capire
anche come sia importante, per la costruzione della comunità, non rinunciare al
confronto e alla dialettica creativa dei differenti ruoli nella comunità, in
nome di una “democrazia acefala” o di una “corresponsabilità irresponsabile”,
dove nessuno si prende cura di nessuno. La comunità ha bisogno del servizio di
discernimento, di coordinamento, di orientamento e di decisione. E lo stesso
Spirito che agisce nei profeti assiste anche, e in modo adeguato al loro ruolo,
coloro che esercitano tali ministeri. Il confronto di prospettive diverse nella
comunità non deve far paura. Semmai, si dovrebbe seriamente sospettare della
troppa “unanimità”. Se siamo sinceramente animati dallo Spirito, il confronto
diventerà allora sicuramente un momento di rispetto, di scoperta, di chiarimento,
di discernimento, con l’unico scopo di individuare insieme il cammino da
percorrere.
In questo processo, l’autorità profetica non saprà soltanto ascoltare e
promuovere il confronto, ma anche discernere e decidere. Se non lo fa, priva la
comunità di un servizio fondamentale per la vita fraterna e per la missione.
Deve farlo nella ricerca onesta della volontà di Dio, ma anche con l’umiltà di
chi riconosce i propri limiti e sa di poter sbagliare. Non decidere per non
correre il rischio di sbagliare è uno sbaglio garantito. Accettare, invece, la
fallibilità delle decisioni mi sembra molto in sintonia con la profezia. Il
profeta parla in nome di Dio, ma non si colloca mai al suo posto. Pur convinto
della parola ascoltata e suggerita dallo Spirito, è sempre consapevole, però,
della sua limitata comprensione delle vie di Dio. Così anche chi è preposto
all’esercizio dell’autorità, non dovrebbe mai lasciarsi prendere dall’angoscia
di poter sbagliare. Con umile e gioiosa fiducia dovrebbe, invece, continuare ogni
giorno ad ascoltare, a servire e a pregare con i propri fratelli.
LA SFIDA
DELLA COMUNIONE
La profezia chiama in causa soprattutto quanti vivono all’interno della
comunità credente, quanti accettano che qualcuno possa parlare loro in nome di
Dio (1Cor 14,22). Nel riferimento, invece, a quandi sono al “di fuori” della
comunità credente, si dovrebbe, parlare di testimonianza o di segni che rendono
credibile l’annuncio fatto dalla comunità stessa. In questa testimonianza è
fondamentale il segno individuale di fede e di vita del credente, ma non è meno
importante la testimonianza della comunità nel suo insieme. Il Vangelo,
infatti, non intende mai essere semplicemente un cammino individuale di
salvezza. Si propone, invece, la trasformazione anche della società e
soprattutto dei rapporti tra le persone. Questo essere insieme in nome di Dio,
impegnati nella trasformazione del mondo, costituisce la grande testimonianza
della vita religiosa.
Prima di elencare alcune dimensioni di questa testimonianza della comunità
religiosa nella Chiesa e nel mondo, dovremmo guardare alla comunità di
Gerusalemme. Luca descivendoci la vita fraterna della prima comunità cristiana
basata sull’ascolto della parola, sulla preghiera, sullo spezzare il pane e
sulla condivisione dei beni, ci fa capire che sono proprio questi segni di
credibilità che provocano l’adesione di nuovi credenti e che conferiscono
autorità alla parola degli apostoli nel loro annuncio del Signore risorto (At
2,42-47; 4,32-36).
La comunità è, in se stessa, annuncio della validità del Vangelo per
trasformare il mondo a partire dalla riconciliazione e dal comandamento nuovo
dell’amore. La condivisione di tutti i beni spirituali e materiali all’interno
della comunità, si trasforma in capacità di accoglienza verso coloro che si
sentono attratti dalla curiosità o dalla ricerca di un mondo diverso e migliore
di vivere. Oltre a essere annuncio, la comunità diventa, allora, cammino, dove
si impara a conoscere Cristo e a lasciarsi trasformare da lui. Per questo, la
vitalità missionaria di una comunità sarà sempre legata alla qualità della vita
fraterna che essa vive: «Riconosceranno tutti che siete miei discepoli, se vi
amate gli uni gli altri» (Gv 13,35).
Nella vita religiosa, la sfida della comunione fraterna è fondamentale per
capire la sua missione nella Chiesa e nel mondo. Non siamo stati chiamati come
semplice forza di lavoro per l’evangelizzazione o per le opere di carità.
Formare la comunità è il nostro primo compito, che darà senso e stile a tutto
ciò che facciamo, così come la vita dei discepoli con Gesù precede e determina
la loro futura missione.
L’invio dei discepoli “due a due” (Mc 6,7) ci ricorda una modalità
strettamente comunitaria di ogni missione, anche se, occasionalmente, l’uno o
l’altro si viene a trovare da solo in un determinato lavoro. La comunità non è
mai solo punto di partenza e di arrivo della missione. È il luogo dove insieme
viene programmato, _sia negli obiettivi che nelle modalità, un determinato
progetto. Solo in questo modo, allora, dovrebbe apparire con chiarezza che
nessuno è inviato a nome proprio da una parte, e che la missione è sempre
impegno di una comunità animata dallo Spirito dall’altra.
Solo partendo dall’esperienza della comunità e lavorando insieme, gli
“inviati” sapranno conferire sempre un carattere comunitario a tutto ciò che
fanno, valorizzando le persone e aiutandole a sviluppare la propria
responsabilità, cercando la soluzione e la riconciliazione nei conflitti,
lottando insieme per il proprio sviluppo e per la costruzione di un mondo più
fraterno.
AMMIREVOLE
TESTIMONIANZA
Per il fatto di avere origine in una varietà di chiese particolari, situate
in differenti contesti culturali ed etnici, i religiosi rappresentano per la
Chiesa universale una vera profezia di comunione, di collaborazione e di
solidarietà. Si pensi soltanto alle centinaia di migliaia di religiosi e
religiose che lavorano fuori del proprio ambiente di origine, gran parte di
loro in comunità multi-etniche e multi-culturali. Essi danno testimonianza
della forza di comunione della loro consacrazione e costituiscono un prodigioso
seme di solidarietà e di cooperazione tra le differenti chiese locali.
In un mondo globalizzato, ma sempre più diviso, dove si allarga il fosso
tra chi ha molto e la folla immensa di chi non riesce a vivere, il carattere
universale della vita religiosa acquista un nuovo valore. Attraverso la
solidarietà, la comunione fraterna e la collaborazione nella costruzione del
futuro che cerchiamo di vivere nelle nostre comunità, vogliamo dare un contributo
per umanizzare la globalizzazione, in modo che possa diventare vera opportunità
di sviluppo, di giustizia e _di pace.
Secondo quanto detto da Gesù nella sinagoga di Nazareth, la prima
testimonianza del Vangelo è il lieto annunzio ai poveri, la liberazione dei
prigionieri, il dono della vista ai ciechi, lo scioglimento di ogni oppressione
e la proclamazione della grazia e della bontà di Dio. Possiamo dire, con gioia,
che le comunità religiose hanno dato, lungo la storia, e continuano a dare
ancora oggi, un’ammirevole testimonianza di questi segni della venuta del regno
di Dio. Essi parlano da sé e sono, per una moltitudine di persone, gesti di
solidarietà, di misericordia, di gratuità e di vita, che alimentano la speranza
nella possibilità di un mondo nuovo.
Parlando di testimonianza e di profezia, non vogliamo presentarci come
“l’alternativa buona al mondo cattivo”. Ben coscienti delle difficoltà che noi
stessi troviamo nella costruzione della fraternità a livello delle nostre
comunità e istituti, delle ingiustizie tante volte commesse nel passato e della
fragilità in cui portiamo il tesoro che ci è stato affidato, ci sentiamo
solidali con il dramma di dolore, di ingiustizia e di miseria che troviamo nel
nostro mondo. Quello che possiamo dire è che abbiamo sperimentato la
possibilità di liberazione nel Vangelo di Gesù e che siamo disposti ad
assumerci, nella speranza e sorretti dall’azionie dello Spirito, le nostre
responsabilità nella trasformazione del mondo.
In questo modo ci veniamo a trovare, allora, nella linea dei profeti e di
Gesù, che invece di ritirarsi e di allontanarsi dai problemi e dai peccati del
mondo e senza condannarlo, vi si sono immischiati, assumendo su di sè, anzi, il
peso e il dramma delle moltitudini. Spesso nella sofferenza e anche nella
morte, hanno affermato la gioia della presenza di Dio nella loro vita e la
speranza sicura nella possibilità di trasformare il mondo alla luce della nuova
Gerusalemme. Il dono della vita per amore, infatti, è la vera profezia.
Per concludere si potrebbe dire che per essere profezia nel mondo di oggi,
la vita religiosa non ha bisogno di campagne di marketing. Le basterà essere
affermazione gioiosa della presenza del Cristo risorto nella Chiesa e nel
mondo. È lo Spirito che continua a “chiamare” uomini e donne, rendendoli
disponibili a seguire la voce del Padre e a essere solidalmente presenti nel
mondo di oggi. La vita religiosa dovrà essere, inoltre, testimonianza di
comunione fraterna, resa possibile dalla presenza e dall’azione dello Spirito,
che non distrugge, ma integra la ricchezza della diversità delle persone e
delle culture, nella costruzione di un’umanità più giusta, riconciliata e
fraterna. Infine, è proprio della vita religiosa essere annuncio della buona
novella della misericordia e del dono della propria vita al servizio dei
fratelli, incominciando sempre, sull’esempio di Gesù, dai più piccoli e dai più
dimenticati.
1 Relazione tenuta durante l’Assemblea dei superiori generali a
Sacrofano (Roma) dal 23 al 25 maggio. Cf.