UCCISO P. RAGHEED E TRE SUOI SUDDIACONI
ALTRI MARTIRI NEL TORMENTATO IRAQ
«Quello di non
disperare è un nostro dovere: Dio ascolterà le nostre suppliche per la pace in
Iraq». La testimonianza di p. Ragheed Aziz Ganni barbaramente assassinato in un
agguato il 3 giugno insieme a tre suoi suddiaconi al termine della celebrazione
domenicale dell’eucaristia.
Ogni giorno assistiamo impotenti alle continue ondate di violenza che
insanguinano il martoriato Iraq. Nel solo mese di maggio le vittime civili sono
state oltre 2000. Dall’inizio del conflitto fino ad oggi, secondo la
documentata fonte Iraq Body Count il numero complessivo dei civili morti in
seguito alle azioni militari dirette dagli USA e dalle forze alleate è compreso
tra un minimo di 64.000 a un massimo di 71.000 persone.1
IL GENOCIDIO
IRACHENO
In questo terribile quadro, da circa un paio d’anni si è pianificata una
sistematica persecuzione contro la minoranza cristiana.2 Già qualche numero fa
“Ti chiedo perdono,
fratello…”
«Ti chiedo perdono, fratello, di non essere stato accanto a te quando i
criminali hanno aperto il fuoco su te e i tuoi fratelli, ma le pallottole che
hanno trafitto il tuo corpo puro e innocente, hanno trafitto anche il mio cuore
e la mia anima». È l’inizio della lettera che l’amico Adnan Mokrani, teologo
musulmano e professore di islamistica all’Università Gregoriana di Roma5 ha
voluto scrivere all’indomani della notizia del barbaro assassinio di p. Ragheed
e dei 3 giovani che viaggiavano con lui.
Domenica 3 giugno – riporta l’agenzia AsiaNews – dopo la celebrazione
eucaristica, «p. Ragheed si stava allontanando dalla chiesa in macchina con
altre tre suddiaconi e la moglie di uno di questi, Gassan Isam Bidawed.
All’improvviso, all’angolo della strada, la macchina è stata fermata da uomini
armati. Gli aggressori hanno fatto allontanare la donna e freddato “con più
colpi d’arma da fuoco” i restanti. Intorno ai cadaveri, hanno poi piazzato
alcune autobombe, progettando di far morire altra gente che si fosse avvicinata
a recuperare i corpi. Nelle prime ore successive all’attentato, le salme sono
rimaste abbandonate per strada perché nessuno osava avvicinarsi. Solo verso le
22 le forze dell’ordine sono riuscite a disinnescare le bombe e recuperare le
salme». Nei giorni successivi l’attentato, la fonte araba Ankawa ha riferito il
particolare secondo il quale prima di aprire il fuoco, gli aggressori avrebbero
chiesto di convertirsi all’Islam».
«Lui tiene me
e tutti noi»
P. Ragheed giovane sacerdote caldeo era nato Mosul nel 1972. Laureato in
ingegneria all’università locale nel 1993, dal 1996 al 2003 aveva compiuto gli
studi in Italia presso la pontificia università S. Tommaso d’Aquino
“Angelicum”, conseguendo la licenza in teologia ecumenica. Rientrato a Mosul
(la città più pericolosa dopo Baghdad) «perché c’è la mia diocesi, ci sono i
miei cristiani» era stato nominato parroco nella sua città nativa. Stimato
collaboratore di AsiaNews, (l’agenzia del Pontificio istituto missioni estere),
nei prossimi mesi sarebbe dovuto ritornare in Italia per completare gli studi
teologici.
Unanime è stata la condanna dell’atroce assassinio. Il papa Benedetto XVI
nell’inviare un telegramma al vescovo mons. Rahho e a tutti i familiari dei
defunti ha parlato di «insensata uccisione di p. Ragheed e dei suoi tre
suddiaconi» e nello stesso tempo ha auspicato che «il loro prezioso sacrificio
ispiri nei cuori e nelle menti di tutti gli uomini e le donne di buona volontà
una rinnovata risolutezza a respingere le vie dell’odio e della violenza… per
collaborare nell’accelerare l’alba di riconciliazione, giustizia e pace in
Iraq».
L’uccisione di p. Ragheed è avvenuto nei giorni in cui si stava celebrando
il Sinodo Patriarcale dei vescovi caldei. In una dichiarazione congiunta i
vescovi hanno protestato con sdegno e denunciato «un crimine vergognoso che
qualsiasi persona di coscienza rifiuta. Coloro che lo hanno commesso hanno
compiuto un atto orribile contro Dio e contro l’umanità, contro loro fratelli
che erano cittadini fedeli e pacifici, oltre a essere uomini di religione che
sempre hanno offerto le loro preghiere e le loro suppliche a Dio Onnipotente
perché portasse pace, sicurezza e stabilità a tutto l’Iraq».
Nel 2005 p. Ragheed era stato invitato a Bari a intervenire durante la
veglia di preghiera in preparazione dell’arrivo di papa Benedetto XVI. La sua
testimonianza risuona oggi come una splendida eredità spirituale: «Dentro di
noi, da molte generazioni, è radicata una verità: senza domenica, senza
l’Eucaristia non possiamo vivere. Questo è vero anche oggi che la forza del
male in Iraq è giunta a distruggere le chiese e i cristiani in un modo
assolutamente imprevisto fino ad ora. I terroristi cercano di toglierci la
vita, ma l’Eucaristia ce la ridona. Qualche volta io stesso mi sento fragile e
pieno di paura. Quando, con in mano l’eucaristia, dico le parole: “Ecco
l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”, sento in me la Sua forza: io
tengo in mano l’ostia, ma in realtà è Lui che tiene me e tutti noi, che sfida i
terroristi e ci tiene uniti nel suo amore senza fine».
P. Ragheed è stato assassinato nel giorno della solennità della Trinità, al
termine della celebrazione eucaristica.
«MARTIRI DELLA
NOSTRA CHIESA»
«Martiri» è stato l’appellativo con cui sua beatitudine Mar Emmanuel III
Delly e tutti i vescovi caldei hanno definito la morte di p. Ragheed Aziz
Ganni, Barman Yousef Daoud, Ghasan Bidawid e Wahid Hanni.
P. Ragheed era consapevole del rischio che incontrava nella sua missione.
Nel giorno della sua ordinazione sacerdotale aveva confidato all’amico Adnane:
«Oggi sono morto per me». E in un’intervista rilasciata ad AsiaNews nel 2004,
era chiara in lui la percezione che vivere da cattolico nell’Iraq martoriato
dalla persecuzione anticristiana poteva voler dire la morte; al termine del suo
soggiorno in Italia sentiva un dovere tornare in Iraq perché «Questo è il mio
paese, qui c’è la mia gente». Il 7 dicembre 2004 era stato testimone oculare
del bombardamento dell’arcivescovado di Mosul: «è rimasto in piedi un muro,
sopra c’è la foto di Giovanni Paolo II». Anche in questa occasione si sentiva
un «sopravvissuto a morte certa»; il 2 marzo e il 30 marzo del 2006 erano state
messe altre bombe nella chiesa della sua parrocchia; consapevole dei rischi per
la propria incolumità fisica, qualche settimana fa aveva dichiarato:
«Attendiamo ogni giorno l’attacco decisivo, ma non smetteremo di celebrare la
messa, lo faremo sotto terra dove siamo più al sicuro. In questa decisione sono
incoraggiato dalla forza dei miei parrocchiani. Si tratta di guerra, guerra
vera, ma speriamo di portare questa croce fino alla fine con l’aiuto della
grazia divina». Più volte gli era stata offerta la possibilità di mettersi in
salvo rimanendo in Italia, ma la sua risposta era stata sempre chiara e
categorica: «Non ho paura. Ho sempre pregato perché si compia la volontà di
Dio. Qui a Mosul c’è la mia diocesi, ci sono i miei cristiani. La gente ha
bisogno di guide spirituali; e io non sono migliore di loro per stare lontano
da qui».
UN SORRISO
CHE NULLA SPEGNERÀ
Molti hanno visto in lui un’incredibile forza d’animo, la testimonianza di
un uomo sempre sorridente, ricco di speranza e di entusiasmo. Era consapevole
di essere obiettivo di ripetute minacce e attentati, aveva visto soffrire
parenti e scomparire amici, ma fino alla fine non ha smesso di credere che
tutto poteva avere un senso alla luce del mistero pasquale. Il 1 aprile scorso,
domenica delle palme, la sua parrocchia era stata nuovamente oggetto di
attacchi terroristici, ma voleva ancora credere alla forza dell’amore e del
perdono: «Ci siamo sentiti simili a Gesù quando entra a Gerusalemme, sapendo
che la conseguenza del suo amore per gli uomini sarà la Croce. Così noi mentre
i proiettili trafiggevano i vetri della chiesa, abbiamo offerto la nostra
sofferenza come segno d’amore a Gesù». Il giorno di Pentecoste un ultima bomba
caduta nella chiesa dello Spirito Santo aveva reso p. Ragheed più stanco e
debole: «Stiamo per crollare. In un Iraq settario e confessionale, che posto
sarà assegnato ai cristiani? Non abbiamo sostegno, nessun gruppo che si batta
per la nostra causa, siamo soli in questo disastro. L’Iraq è già diviso e non
sarà mai più lo stesso. Qual è il futuro della nostra Chiesa? Oggi sembra molto
vago da tracciare. Posso sbagliarmi, ma una cosa, una sola cosa, ho la certezza
che sia vera, sempre: che lo Spirito Santo continuerà a illuminare alcune
persone perché lavorino per il bene dell’umanità, in questo mondo così pieno di
male».
Anche i giovani cristiani che collaboravano con lui erano consapevoli del
rischio a cui andavano incontro, ma ugualmente si sentivano sostenuti dalla
fede: «Negli ultimi giorni – raccontano alcuni amici – i tre accompagnavano
sempre il sacerdote per cercare di proteggerlo. Erano giovani pieni di fede,
che viaggiavano con il loro parroco rischiando la vita credendo in Cristo».
UN’ALBA NUOVA
PER LA VITA E LA PACE IN IRAQ
«Padre Ganni – ha spiegato padre Philip Najim durante l’omelia nella messa
di suffragio celebrata a Roma – è martire di questa chiesa caldea oggi
sofferente e insanguinata che papa Benedetto chiama chiesa dei “martiri
viventi”. Il suo martirio deve essere un’alba nuova per la vita e per la pace
futura dell’Iraq. Abbiamo bisogno che la Sede Apostolica incoraggi la chiesa
irachena e tutti i cristiani all’unità. Il sacrificio di padre Ganni sia come
linfa nuova e vitale per la sua comunità, per la sua chiesa irachena e per
tutta la chiesa universale».
Quale, dunque futuro per i cristiani dell’Iraq? Mons. Sako, arcivescovo di
Kirkuk ha tracciato la via per oltrepassare questa notte oscura verso l’alba di
un luminoso giorno: «lavorare tutti insieme, cristiani di tutti i riti e
denominazioni, per unire la nostra posizione e rendere efficace il nostro
discorso politico nel quotidiano; lavorare per la riconciliazione degli iracheni,
collaborando con le autorità religiose e i partiti. Dialogo, riconciliazione e
spinta verso la cultura della pace sono la nostra missione oggi; mostrare con
fatti il nostro ruolo storico per la costruzione dell’Iraq, la nostra volontà
di vivere e collaborare con tutti per l’unità del paese rifiutando di essere
identificati con l’“invasore”; lavorare insieme in un gruppo unito per operare
emendamenti al testo della costituzione irachena e curda. Si tratta cioè di
portare a maturazione ciò che con umiltà, forza ed entusiasmo un giovane prete con
un gruppo di cristiani hanno seminato a larghe mani.
1_Questi dati sono consultabili e verificabili sul sito
www.iraqbodycount.org
2 Su una popolazione di 22 milioni di abitanti, i cristiani in Iraq
sono circa 800.000 e rappresentano il 3% della popolazione. Essi appartengono a
diversi riti: assiro-nestoriano, siro-cattolico e i siro-ortodosso; ciascun
rito rappresenta il 7% dei cristiani. Di numero più ridotto sono gli armeni
ortodossi. I cattolici sono 260 mila, il 70% dei quali di rito caldeo, e
rappresentano la maggioranza cattolica (203.000); seguono poi i siri (42.000),
i latini (2.500), gli armeni (2.000). I cristiani hanno sempre avuto buone
relazioni con la maggioranza musulmana nel paese: non si sono mai verificati
episodi di violenza, discriminazione o intolleranza a livello sociale se non
successivamente all’inizio della guerra nel 2003. (fonte AsiaNews)
3 Cf. Mastrofini F., «Un Iraq senza cristiani?»
4 Cf. Dichiarazione del Patriarcato di Babilonia dei Caldei sui
martiri di Mosul.
5 La lettera si può leggere nel sito dei cristiani
iracheni:_http://baghdadhope.blogspot.com