UCCISO P. RAGHEED E TRE SUOI SUDDIACONI

ALTRI MARTIRI NEL TORMENTATO IRAQ

 

«Quello di non disperare è un nostro dovere: Dio ascolterà le nostre suppliche per la pace in Iraq». La testimonianza di p. Ragheed Aziz Ganni barbaramente assassinato in un agguato il 3 giugno insieme a tre suoi suddiaconi al termine della celebrazione domenicale dell’eucaristia.

 

Ogni giorno assistiamo impotenti alle continue ondate di violenza che insanguinano il martoriato Iraq. Nel solo mese di maggio le vittime civili sono state oltre 2000. Dall’inizio del conflitto fino ad oggi, secondo la documentata fonte Iraq Body Count il numero complessivo dei civili morti in seguito alle azioni militari dirette dagli USA e dalle forze alleate è compreso tra un minimo di 64.000 a un massimo di 71.000 persone.1

 

IL GENOCIDIO

IRACHENO

 

In questo terribile quadro, da circa un paio d’anni si è pianificata una siste­matica persecuzione contro la minoranza cristiana.2 Già qualche numero fa Testimoni aveva riportato il grido d’allarme di mons. Sako sulla “tragica situazione dei cristiani a Baghdad”,3 ma l’escalation di atti criminali che si stanno perpetrando contro le minoranze religiose rende assolutamente urgente l’intervento dei responsabili iracheni e delle organizzazioni interna­zionali.4 La Chiesa irachena ha de­nun­ciato l’esodo di oltre 100mila cristiani. In una recente intervista a Radio Vaticana pa­dre Philip Najim, visitatore apostolico per i fedeli Caldei in Europa ne ha spiegato le ragioni: «Per creare nei cristiani un senso di paura, li stanno costringen­do a lasciare il pae­se o a convertirsi all’islam. Se non lo fanno, sono costretti a pagare una tassa mensile. I cristiani stanno dando una fortissima testimonianza di coerenza e vivono la loro fede con grande coraggio, ma anche con paura. Speriamo che le cose si aggiustino, perché certo non vediamo alcun impegno, alcuna responsabilità da parte del governo iracheno nei confronti di tutti i cittadini iracheni che vivono attualmente in una situazione molto difficile, perché manca la sicurezza e mancano i beni di primaria sopravvivenza».

“Ti chiedo perdono,

fratello…”

«Ti chiedo perdono, fratello, di non essere stato accanto a te quando i criminali hanno aperto il fuoco su te e i tuoi fratelli, ma le pallottole che hanno trafitto il tuo corpo puro e innocente, hanno trafitto anche il mio cuore e la mia anima». È l’inizio della lettera che l’amico Adnan Mokrani, teologo musulmano e professore di islamistica all’Università Gregoriana di Roma5 ha voluto scrivere all’indomani della notizia del barbaro assassinio di p. Ragheed e dei 3 giovani che viaggiavano con lui.

Domenica 3 giugno – riporta l’agenzia AsiaNews – dopo la celebrazione eucaristica, «p. Ragheed si stava allontanando dalla chiesa in macchina con altre tre suddiaconi e la moglie di uno di questi, Gassan Isam Bidawed. All’improvviso, all’angolo della strada, la macchina è stata fermata da uomini armati. Gli ­aggressori hanno fatto allontanare la donna e freddato “con più colpi d’arma da fuoco” i restanti. Intorno ai cadaveri, hanno poi piazzato alcune autobombe, progettando di far morire altra gente che si fosse avvicinata a recuperare i corpi. Nelle prime ore successive all’attentato, le salme sono rimaste abbandonate per strada perché nessuno osava avvicinarsi. Solo verso le 22 le forze dell’ordine sono riuscite a disinnescare le bombe e recuperare le salme». Nei giorni successivi l’attentato, la fonte araba Ankawa ha riferito il particolare secondo il quale prima di aprire il fuoco, gli aggressori avrebbero chiesto di convertirsi all’Islam».

«Lui tiene me

e tutti noi»

P. Ragheed giovane sacerdote caldeo era nato Mosul nel 1972. Laureato in ingegneria all’università locale nel 1993, dal 1996 al 2003 aveva compiuto gli studi in Italia presso la pontificia università S. Tommaso d’Aquino “Angelicum”, conseguendo la licenza in teologia ecumenica. Rientrato a ­Mosul (la città più pericolosa dopo Baghdad) «perché c’è la mia diocesi, ci sono i miei cristiani» era stato nominato parroco nella sua città nativa. Stimato collaboratore di AsiaNews, (l’agenzia del Pontificio istituto missioni estere), nei prossimi mesi sarebbe dovuto ritornare in Italia per completare gli studi teologici.

 

Unanime è stata la condanna dell’atroce assassinio. Il papa Benedetto XVI nell’inviare un telegramma al vescovo mons. Rahho e a tutti i familiari dei defunti ha parlato di «insensata uccisione di p. Ragheed e dei suoi tre suddiaconi» e nello stesso tempo ha auspicato che «il loro prezioso sacrificio ispiri nei cuori e nelle menti di tutti gli uomini e le donne di buona volontà una rinnovata risolutezza a respingere le vie dell’odio e della violenza… per collaborare nell’accelerare l’alba di riconciliazione, giustizia e pace in Iraq».

 

L’uccisione di p. Ragheed è avvenuto nei giorni in cui si stava celebrando il Sinodo Patriarcale dei vescovi caldei. In una dichiarazione congiunta i vescovi hanno protestato con sdegno e denunciato «un crimine vergognoso che qualsiasi persona di coscienza rifiuta. Coloro che lo hanno commesso hanno compiuto un atto orribile contro Dio e contro l’umanità, contro loro fratelli che erano cittadini fedeli e pacifici, oltre a essere uomini di religione che sempre hanno offerto le loro preghiere e le loro suppliche a Dio Onnipotente perché portasse pace, sicurezza e stabilità a tutto l’Iraq».

Nel 2005 p. Ragheed era stato invitato a Bari a intervenire durante la veglia di preghiera in preparazione dell’arrivo di papa Benedetto XVI. La sua testimonianza risuona oggi come una splendida eredità spirituale: «Dentro di noi, da molte generazioni, è radi­cata una verità: senza domenica, senza l’Eucaristia non possiamo vivere. Questo è vero anche oggi che la forza del male in Iraq è giunta a distruggere le chiese e i cristiani in un modo assolutamente imprevisto fino ad ora. I terroristi cercano di toglierci la vita, ma l’Eucaristia ce la ridona. Qualche volta io stesso mi sento fragile e pieno di paura. Quando, con in mano l’eucaristia, dico le parole: “Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”, sento in me la Sua forza: io tengo in mano l’ostia, ma in realtà è Lui che tiene me e tutti noi, che sfida i terroristi e ci tiene uniti nel suo amore senza fine».

P. Ragheed è stato assassinato nel giorno della solennità della Trinità, al termine della celebrazione eucaristica.

 

«MARTIRI DELLA

NOSTRA CHIESA»

 

«Martiri» è stato l’appellativo con cui sua beatitudine Mar Emmanuel III Delly e tutti i vescovi caldei hanno definito la morte di p. Ragheed Aziz Ganni, Barman Yousef Daoud, Ghasan Bidawid e Wahid Hanni.

P. Ragheed era consapevole del rischio che incontrava nella sua missione. Nel giorno della sua ordinazione sacerdotale aveva confidato all’amico Adnane: «Oggi sono morto per me». E in un’intervista rilasciata ad AsiaNews nel 2004, era chiara in lui la percezione che vivere da cattolico nell’Iraq martoriato dalla persecuzione anticristiana poteva voler dire la morte; al termine del suo soggiorno in Italia sentiva un dovere tornare in Iraq perché «Questo è il mio paese, qui c’è la mia gente». Il 7 dicembre 2004 era stato testimone oculare del bombardamento dell’arcivescovado di Mosul: «è rimasto in piedi un muro, sopra c’è la foto di Giovanni Paolo II». Anche in questa occasione si sentiva un «sopravvissuto a morte certa»; il 2 marzo e il 30 marzo del 2006 erano state messe altre bombe nella chiesa della sua parrocchia; consapevole dei rischi per la propria incolumità fisica, qualche settimana fa aveva dichiarato: «Attendiamo ogni giorno l’attacco decisivo, ma non smetteremo di celebrare la messa, lo faremo sotto terra dove siamo più al sicuro. In questa decisione sono incoraggiato dalla forza dei miei parrocchiani. Si tratta di guerra, guerra vera, ma speriamo di portare questa croce fino alla fine con l’aiuto della grazia divina». Più volte gli era stata offerta la possibilità di mettersi in salvo rimanendo in Italia, ma la sua risposta era stata sempre chiara e categorica: «Non ho paura. Ho sempre pregato perché si compia la volontà di Dio. Qui a Mosul c’è la mia diocesi, ci sono i miei cristiani. La gente ha bisogno di guide spirituali; e io non sono migliore di loro per stare lontano da qui».

 

UN SORRISO

CHE NULLA SPEGNERÀ

 

Molti hanno visto in lui un’incredibile forza d’animo, la testimonianza di un uomo sempre sorridente, ricco di speranza e di entusiasmo. Era consapevole di essere obiettivo di ripetute minacce e attentati, aveva visto soffrire parenti e scomparire amici, ma fino alla fine non ha smesso di credere che tutto poteva avere un senso alla luce del mistero pasquale. Il 1 aprile scorso, domenica delle palme, la sua parrocchia era stata nuovamente oggetto di attacchi terroristici, ma voleva ancora credere alla forza dell’amore e del perdono: «Ci siamo sentiti simili a Gesù quando entra a Gerusalemme, sapendo che la conseguenza del suo amore per gli uomini sarà la Croce. Così noi mentre i proiettili trafiggevano i vetri della chiesa, abbiamo offerto la nostra sofferenza come segno d’amore a Gesù». Il giorno di Pentecoste un ultima bomba caduta nella chiesa dello Spirito Santo aveva reso p. Ragheed più stanco e debole: «Stiamo per crollare. In un Iraq settario e confessionale, che posto sarà assegnato ai cristiani? Non abbiamo sostegno, nessun gruppo che si batta per la nostra causa, siamo soli in questo disastro. L’Iraq è già diviso e non sarà mai più lo stesso. Qual è il futuro della nostra Chiesa? Oggi sembra molto vago da tracciare. Posso sbagliarmi, ma una cosa, una sola cosa, ho la certezza che sia vera, sempre: che lo Spirito Santo continuerà a illuminare alcune persone perché lavorino per il bene dell’umanità, in questo mondo così pieno di male».

Anche i giovani cristiani che collaboravano con lui erano consapevoli del rischio a cui andavano incontro, ma ugualmente si sentivano sostenuti dalla fede: «Negli ultimi giorni – raccontano alcuni amici – i tre accompagnavano sempre il sacerdote per cercare di proteggerlo. Erano giovani pieni di fede, che viaggiavano con il loro parroco rischiando la vita credendo in Cristo».

 

UN’ALBA NUOVA

PER LA VITA E LA PACE IN IRAQ

 

«Padre Ganni – ha spiegato padre Philip Najim durante l’omelia nella messa di suffragio celebrata a Roma – è martire di questa chiesa caldea oggi sofferente e insanguinata che papa Benedetto chiama chiesa dei “martiri viventi”. Il suo martirio deve essere un’alba nuova per la vita e per la pace futura dell’Iraq. Abbiamo bisogno che la Sede Apostolica incoraggi la chiesa irachena e tutti i cristiani all’unità. Il sacrificio di padre Ganni sia come linfa nuova e vitale per la sua comunità, per la sua chiesa irachena e per tutta la chiesa universale».

Quale, dunque futuro per i cristiani dell’Iraq? Mons. Sako, arcivescovo di Kirkuk ha tracciato la via per oltrepassare questa notte oscura verso l’alba di un luminoso giorno: «lavorare tutti insieme, cristiani di tutti i riti e denominazioni, per unire la nostra posizione e rendere efficace il nostro discorso politico nel quotidiano; lavorare per la riconciliazione degli irache­ni, collaborando con le autorità religiose e i partiti. Dialogo, riconciliazione e spinta verso la cultura della pace sono la nostra missione oggi; mostrare con fatti il nostro ruolo storico per la costruzione dell’Iraq, la nostra volontà di vivere e collaborare con tutti per l’unità del paese rifiutando di essere identificati con l’“invasore”; lavorare insieme in un gruppo unito per operare emendamenti al testo della costituzione irachena e curda. Si tratta cioè di portare a maturazione ciò che con umiltà, forza ed entusiasmo un giovane prete con un gruppo di cristiani hanno seminato a larghe mani.

 

Sergio Rotasperti

1_Questi dati sono consultabili e verificabili sul sito www.iraqbodycount.org

2 Su una popolazione di 22 milioni di abitanti, i cristiani in Iraq sono circa 800.000 e rappresentano il 3% della popolazione. Essi appartengono a diversi riti: assiro-nestoriano, siro-cattolico e i siro-ortodosso; ciascun rito rappresenta il 7% dei cristiani. Di numero più ridotto sono gli armeni ortodossi. I cattolici sono 260 mila, il 70% dei quali di rito caldeo, e rappresentano la maggioranza cattolica (203.000); seguono poi i siri (42.000), i latini (2.500), gli armeni (2.000). I cristiani hanno sempre avuto buone relazioni con la maggioranza musulmana nel paese: non si sono mai verificati episodi di violenza, discriminazione o intolleranza a livello sociale se non successivamente all’inizio della guerra nel 2003. (fonte AsiaNews)

3 Cf. Mastrofini F., «Un Iraq senza cristiani?» Testimoni 9 (2007) 1-3.

4 Cf. Dichiarazione del Patriarcato di Babilonia dei Caldei sui martiri di Mosul.

5 La lettera si può leggere nel sito dei cristiani iracheni:_http://baghdadhope.blogspot.com