INTERVISTA A G. CREA PSICOLOGO E FORMATORE

DISAGI E STRESS IN COMUNITÀ

 

I religiosi vivono insieme in comunità per testimoniare reciprocamente l’amore di Cristo. Sono definiti “esperti di comunione”, ma a volte condizioni conflittuali rischiano di bruciare il loro zelo e il loro entusiasmo. È allora che possono manifestarsi comportamenti di disadattamento con tutta una coda di disagi e di stress.

 

Relazioni autentiche, autentica considerazione delle persone e dei loro problemi, dialogo, apprezzamento, in una parola: saper andare veramente verso l’altro. È la strada che indica padre Giuseppe Crea, comboniano, psicologo e formatore, docente alla pontificia Università Salesiana di Roma, nel suo ultimo libro Patologia e speranza nella Vita Consacrata (EDB, 2007), che porta come sottotitolo Formazione affettiva nelle comunità religiose. Un tema importante, affrontato in maniera semplice e con molti esempi concreti, per aiutare le persone e le comunità a interrogarsi su se stessi migliorando la capacità di dialogo, accoglienza e ascolto. Lo spiega lo stesso padre Crea in questa intervista.

 

Perché “patologia”? Quale lettura e conoscenza della realtà della VC sono il presupposto del libro?

 

Il principio che mi ha spinto a trattare di questo argomento così particolare nella vita consacrata è stato il fatto che molte volte la patologia ci fa pensare alle cose sbagliate che preti e suore combinano. E ne combinano sicuramente, basti pensare alle polemiche che ritornano anche nei casi di cronaca sui mass media. Tuttavia, per noi psicologi, l’attuale dibattito sulla psicopatologia sta rivedendo i criteri di interpretazione della malattia e della normalità mentale. Non si può restare ancorati a una visione di malattia che non lascia spazio alla speranza del cambiamento, anche con i casi difficili. Ecco perché dobbiamo mettere l’accento su quell’ambito privilegiato della tras-formazione, quella che permanentemente caratterizza la vita delle persone, quella che nella vita consacrata chiamiamo formazione permanente. La storia di ogni persona è da leggersi in termini di significati attribuiti al suo comportamento, e questo richiede un faticoso impegno di attenzione e di rispetto, anche quando il confratello o la consorella si manifestano con una storia di vita che non ci saremmo mai aspettati di trovare: “ma come, si sono consacrati per essere modelli di amore per il mondo, e invece vedi che schifo”, diceva un giovane nel corso di un dibattito su alcuni fatti di cronaca in cui era coinvolto un sacerdote. Detto questo, il nostro compito è di indagare nella sofferenza umana con la sollecitudine di chi vuole accompagnare la guarigione del fratello.

 

Vuol dire che ci si può ammalare proprio per il fatto di far parte di una comunità religiosa?

 

Quando nella comunità religiosa manca una capacità relazionale autentica che permetta alle persone di essere sufficientemente “umane” tra loro, esse rischiano di rifugiarsi dietro etichette relazionali o pregiudizi che limitano il vissuto comunitario a dei rapporti stereotipati e poco significativi. Il peggior peccato della vita comune, diceva un superiore maggiore, è l’apatia! Quando le persone sentono che non c’è niente da fare, si trincerano dietro un modello di comunità ideale che se da un lato giustifica la convivenza, dall’altro non aiuta a riscoprire la gioia della vita comune. Allora i comportamenti relazionali difficili non saranno limitati solamente al rapporto tra i singoli confratelli “insopportabili” ma incidono sull’intero “clima relazionale”, dando adito a una atmosfera di “gruppo malato o stressato”. Tale malessere generalizzato si riflette in espressioni del tipo: “in questa comunità è impossibile organizzarsi”, oppure “chi più chi eno, ma nella mia comunità siamo proprio tutti strani!”. Fintanto che restiamo lì a rimuginare su quello che gli altri fanno o non fanno per farci star male, nulla cambia e noi restiamo con il nostro disagio, ma se pensiamo che possiamo fidarci e maturare con gli altri, allora sì che la nostra fiducia diviene un atteggiamento che genera vita per un nuovo modo di stare in relazione.

 

Una comunità religiosa può diventare fonte di stress e disagio?

 

Le persone vivono insieme in comunità per testimoniare reciprocamente l’amore di Cristo. Quando però il loro trasporto di dedizione reciproca deve fare i conti con le diverse realtà interpersonali, oppure con condizioni conflittuali presenti nella comunità, questi “esperti di comunione” rischiano di bruciare il loro zelo e il loro entusiasmo. È allora che possono manifestare comportamenti di disadattamento, quando in comunità ci sono persone che non sono responsabili nel loro lavoro, individui che non si parlano l’un l’altro, persone che litigano circa il modo migliore di procedere nei progetti comunitari, persone che sono irritatamente loquaci o noiosamente silenziosi. A volte, quando i rapporti sono altamente conflittuali e competitivi, le persone possono assumere atteggiamenti di irritazione o di ritiro, con dei comportamenti negativi che si manifestano in un clima di tensione persistente nel vissuto quotidiano della vita comunitaria. Quando invece le persone imparano ad apprezzarsi, la loro vita comune diventa vero luogo di accoglienza reciproca.

 

Quanto sono diffusi?

 

I casi sono tanti, e la mia esperienza clinica mi porta a dire che tanti sono sconosciuti, si consumano nel silenzio dei lunghi corridoi, nelle stanze vuote di tante comunità invecchiate, tra entusiasmi spenti e tragedie annunciate. Faccio un esempio preso da un giornale di un mese fa. Leggo: Tragedia in un monastero, suora si toglie la vita. A trovarla sono state le stesse compagne. La suora ha deciso di interrompere un’esistenza diventata a un certo punto un peso insostenibile. «Ne soffriva da un po’ di tempo – ha ammesso davanti ai carabinieri la madre superiora del convento – ma non credevamo che sarebbe arrivata a tanto». Quante volte la sofferenza del fratello passa accanto, anzi, si rinchiude nella porta della stanza accanto, ed è difficile percepirla. Forse perché siamo troppo presi dallo slancio dell’evangelizzazione, per cui è difficile che si possa “perdere tempo” con gli scomodi vicini. Oppure perché c’è la tendenza a sbrigarsela con etichette che servono a rassicurare chi le affibbia, piuttosto che per capire l’altro e la sua situazione. Il rischio di classificare l’altro è di ridurre le difficoltà psichiche a un’unica dimensione, limitando il processo di crescita di ognuno (anche di chi vive un disagio o una patologia psichiatrica) al criterio del “nient’altro che”: nient’altro che nevrotico, o nient’altro che psicotico, o nient’altro che sessualmente dipendente, o nient’altro che depresso…! In questo modo l’essere viene derubato del suo significato, viene ridotto a un homunculus in balia delle sue pulsioni o dei suoi traumi, senza più la ricchezza della sua capacità di maturare e di cambiare. C’è però anche un diffuso approccio al disagio, inteso come male da estirpare, che porta a ricercare un intervento di tipo “miracolistico” che delega a speciali alchimie il ripristino dell’equilibrio perduto, partendo dalla convinzione che gli assunti del metodo di cura siano validi. Molte volte infatti mi capita di avere di fronte persone che mi chiedono la risposta giusta alle loro situazioni. E il peggio è che spesso sono gli stessi superiori, responsabili di tali confratelli/consorelle, a chiedere la risposta giusta, a rivolgersi all’esperto di alchimie speciale perché faccia il miracolo: te lo portano lì, te lo scaricano, per nascondere la loro impotenza a gestire. Invece quei comportamenti sono invocazione o grido per la paura dell’isolamento, dell’espulsione affettiva e relazionale, dello stigma comunitario.

 

Si potrebbe dire allora che la vita consacrata, in qualche modo, o in qualche caso, è “malata”?

 

Il disagio e la malattia non è una specialità della vita consacrata, non esiste una patologia speciale per preti e suore. La malattia e il disagio sono parte dei vissuti reali che modellano le persone anche quando i rapporti sono disfunzionali e negativi, e con cui è bene fare i conti, altro che nascondere  e scusare. Il disagio del fratello impegna chi gli vive accanto. Altrimenti… predicano bene e razzolano male: predicano contro l’eutanasia e praticano invece l’esclusione e i codici di condotta per ghettizzare chi dà i numeri o è caratteriale. Non è la vita consacrata che è malata, ma è malato il modo di percepire il disagio, di vederlo come altro, innominabile, che non appartiene al nostro ambiente. Non dimentichiamo che lui è venuto per i malati, non per i sani.

 

Che uso si dovrebbe fare del suo libro?

 

Dovrebbe servire a capire che la capacità di uscire da sé per andare verso l’altro è la strada maestra per incontrare il fratello e per riscoprire e rileggere l’intero percorso della propria esistenza come un itinerario di conversione verso Dio. Nella vita consacrata in particolare questo aspetto è particolarmente fondante la scelta che le persone fanno, ed è operazionalizzato nel contesto interpersonale specifico della comunità. La persona che si decide a cambiare e uscire dalle situazioni conflittuali o di difficoltà relazionale è la persona che sperimenta insieme al mondo relazionale che la circonda la possibilità di qualcosa di diverso. Quando le situazioni interpersonali diventano difficoltose e complesse, quando per esempio un certo problema comunitario si ripresenta con una ossessiva ripetitività, quando la persona non sa più cosa fare perché le ha tentate tutte, è allora che potrebbe vedere la differenza dell’altro come una ricchezza, come una possibi­lità di alternative, di opzioni. La persona arriva a decidere per qualcosa di diverso quando sperimenta delle precise condizioni, che potremmo così sintetizzare. Anzitutto, quando si accorge di aver sofferto abbastanza nelle situazioni relazionali che si ripetono puntualmente (“quello ce l’ha con me”, oppure “non faccio mai abbastanza in questa comunità!”, oppure ancora “certe cose capitano sempre a me”), e comincia a rendersi conto che così non può più andare avanti. Oppure, quando avverte un profondo senso di noia e di indifferenza, soprattutto se mancano vere relazioni umane e c’è un clima di insofferenza e di scarso investimento relazionale. Un altro elemento che induce le persone a cambiare è la scoperta improvvisa ma efficace che qualcosa di diverso è finalmente possibile! Quando la persona entra in questa logica diversa, in cui si riappropria del suo “essere con l’altro” in una piattaforma di reciproca comprensione, allora si accorge realmente che ogni cambiamento non è in funzione di un risanamento di “parti malate” ma in funzione della continua crescita pedagogica dell’individuo. Solo allora ha senso parlare di cosa fare per trovare e perseverare su una strada diversa, totalmente diversa. Qui però comincia un’altra storia, dove i vecchi comportamenti non sono più soddisfacenti come una volta e ciò che conta è amare gli altri e relazionarsi con loro con un cuore rinnovato.

 

E che uso si dovrebbe fare della psicologia? E di “quale” psicologia?

 

I principi fondamentali di una psicologia che sappia guardare alla persona come frutto dell’amore di Dio si fondano su una concezione aperta della persona alle molteplici esperienze costruttive in cui essa viene a trovarsi, nonché sulla fiducia nella sua capacità creativa e propositiva dinanzi alle sfide dell’esistenza. Tale visione comporta un ruolo importante al progetto di vita, all’ideale, alla ricerca di senso ed orienta la persona ad andare al di là di se stessa. L’esigenza invece di guardare ai fenomeni psichici da una prospettiva propositiva che ridà alla persona, anche quella malata, la dignità della sua condizione di creatura, capace di rapportarsi con il suo Creatore. Tale visione non riduce l’individuo a dibattersi tra le sue ferite inconsce e le sue patologie psichiatriche, ma lo apre a un progetto di vita che lo trascende e che dà significato a tutti gli eventi della sua storia individuale ed interpersonale: sia agli eventi positivi che danno gusto e soddisfazione, e sia a quelli tristi che lo disorientano, come nel caso di una malattia fisica o psichica.

 

Fabrizio Mastrofini