ASSEMBLEA UNIONE SUPERIORI GENERALI
QUALE PROFEZIA?
Una riflessione a tutto campo sulla dimensione profetica della vita
consacrata. Dalla Bibbia preziosi insegnamenti. Nessuna autentica profezia
senza esplicito riferimento alla comunità ecclesiale da una parte e a quella
religiosa dall’altra.
Fra i temi affrontati nelle ultime assemblee dei
superiori generali, quello del loro ultimo incontro – svoltosi eccezionalmente
presso la Fraterna Domus di Sacrofano (Roma) dal 23 al 25 maggio – è
sicuramente uno dei più attuali, impegnativi e problematici: Vita religiosa:
profezia nelle culture di oggi?. Questo interrogativo finale ci stava tutto. I
diversi relatori, pur dando il meglio della loro esperienza, della loro
riflessione biblica, teologica, pastorale e spirituale, parlando di profezia
nella vita consacrata, sapevano benissimo di camminare su un terreno minato,
dove troppo spesso la realtà è lontanissima dalla teoria. Mettendo a confronto
gli interventi dei relatori – Carlos Mesters, Josep Abella, José Cristo Rey
Garcia Paredes, José Ornelas Carvalho, Gabriele Ferrari – sarebbe facile
cogliere accezioni molto diversificate del termine “profezia”. Da tutti, però,
è stato ribadito con chiarezza che la “cartina di tornasole” della validità di
un atteggiamento profetico si ha nella sua capacità di far crescere o meno la
comunità.
BIBBIA
E PROFEZIA
L’assemblea di Sacrofano doveva essere la prima
presieduta dal nuovo presidente dell’Usg, don Pascual Chávez Villanueva, rettor
maggiore dei salesiani. Insieme al ministro generale dei frati minori, fr. José
Rodríguez Carballo e al rappresentante di p. Kolvenbach, il gesuita Ernesto
Cavassa Canessa, era stato, invece, invitato dal papa a partecipare, nello
stesso periodo, ai lavori dell’assemblea dell’episcopato latino americano
(Celam) ad Aparecida in Brasile. Don Chavez, comunque, ha voluto essere
presente con un suo breve messaggio anticipando alcune sue significative
riflessioni sul tema dell’assemblea. Per sua natura, ha detto, la vita
religiosa è profezia, anche se non si può ridurre solo a questo. Più che mai la
Chiesa e il mondo di oggi hanno bisogno di una vita consacrata profetica. In un
contesto sociale in cui si vive sempre più “come se Dio non esistesse”, la vita
religiosa è chiamata ad annunciare il disegno meraviglioso di Dio, a denunciare
tutto ciò che attenta contro di esso. «La nostra profezia, ha aggiunto, non
dev’essere qualcosa di esterno a noi, come può accadere ai profeti di sventure,
che non fanno altro che annunciare sciagure e castighi, o con i profeti di
corte, che non fanno che accarezzare gli orecchi degli ascoltatori, o con i
profeti della rivendicazione sociale, che mimetizzano un sistema politico o
economico e ne canonizzano un altro. La vita consacrata sarà “profetica” solo
se saprà rendere testimonianza dell’amore appassionato di Dio, sull’esempio di
Gesù venuto non per essere servito ma per servire e per fare la volontà del
Padre».
Ma fino a che punto, si è chiesto il primo dei relatori,
il biblista carmelitano Carlos Mesters, di origini olandesi ma da una vita in
Brasile, la Bibbia è fonte ispiratrice della dimensione profetica della vita
consacrata? Premesso e lamentato il silenzio generale che – diversamente da
quanto era avvenuto nelle precedenti profetiche assemblee di Medellin e di
Puebla – sta caratterizzando i lavori dell’assemblea di Aparecida, Mesters non
si è limitato a una rivisitazione del profetismo nella tradizione biblica. Ha
costantemente riletto la Bibbia in stretto riferimento alla vita consacrata di
oggi. Dispiace essere costretti, in questa sede, come sempre, a pochi cenni. In
quanto è andato svolgendo nel suo intervento, c’era tutta la densità di un
insegnamento che in passato aveva dato vita a tante comunità di base e a una
lettura popolare della Bibbia soprattutto in Brasile.
Se per certi versi tutta la storia del popolo di Israele
si può dividere in due periodi, quello in cui c’erano i profeti e quello in cui
non c’erano più profeti, di fatto fu proprio in questo secondo periodo che la
profezia trovò nuove e originali forme di espressione. È quanto, a suo avviso, sta avvenendo anche
oggi. La situazione di sconfitta, di morte e di secolarizzazione in cui si è
trovato Elia, ad esempio, e nel quale si viene a trovare ogni “popolo in
prigionia”, può essere di fatto percepita come il momento e il luogo dove
inaspettatamente si viene raggiunti da Dio. Purtroppo, oggi come allora, può
facilmente succedere che l’élite, la gerarchia, i capi e i sacerdoti non
apprezzino molto questo modo d’interpretare e di parlare della presenza di Dio.
La “nuova profezia” proposta da Gesù, che pur non appartenendo a nessuna casta
di potere, sapeva però insegnare “con autorità”, passa attraverso l’accoglienza
del popolo con tenerezza, sa insegnare agli altri su un piano di assoluta
parità e oggi soprattutto dovrebbe favorire e alimentare incontri settimanali
per pregare e meditare insieme, per aiutarsi reciprocamente.
L’ALA PROFETICA
DELLA CHIESA
In preparazione a questa assemblea erano state raccolte
alcune esperienze “profetiche” in atto nella vita di alcuni istituti religiosi.
Josep Abella, superiore generale dei clarettiani, ha provato a rileggerle,
mettendone in evidenza non solo le “costanti”, ma anche il loro “non detto”.
Tra le “costanti”, ha rilevato un’attenta osservazione della realtà, un clima
di libertà con cui si vive la propria consacrazione, un chiaro riferimento al
fondatore e insieme anche una doverosa riscoperta del carisma di fondazione, la
piena consapevolezza che “sono i poveri che ci evangelizzano”, una nuova
modalità di intendere e vivere la dimensione comunitaria, una nuova
collocazione ecclesiale, il discernimento e la capacità di intercettare le
nuove domande, l’attenzione continua ai grandi temi dell’umanità: la pace, la
giustizia, la riconciliazione, lo sviluppo integrale ed ecologico.
In queste testimonianze non appaiono, invece, la profezia
della vita consacrata “ordinaria”, la parola profetica di alcune comunità
contemplative, le nuove forme di vita consacrata, la dimensione profetica
presente anche nella riflessione teologica e nel dialogo con la cultura e,
infine, l’importanza della presenza profetica dei consacrati nei consessi
mondiali in cui si decide il futuro di milioni di esseri umani.
Il tema della profezia nella vita consacrata “ordinaria”
è stato ripreso anche dal clarettiano Garcia Paredes, attualmente direttore
dell’Istituto di teologia della vita consacrata a Madrid, nel suo suggestivo
tentativo di porre in evidenza i nuovi cammini, gli ostacoli e le opportunità
della profezia nella vita consacrata di oggi. Dopo aver rilevato che anche
negli ambienti dei religiosi c’è spesso un uso improprio e a volte forse troppo
disinvolto del termine “profezia”, non è così, invece, nei documenti più
recenti del magistero sulla vita consacrata. Qui, molto opportunamente, quando
si parla di profezia, lo si fa soprattutto in una prospettiva chiaramente
ecclesiale. Citando padre Tillard, Paredes ripetutamente ha parlato della vita
consacrata come il luogo in cui viene “potenziata l’ala profetica della
Chiesa”. Non ci può essere, quindi, profezia, anche tra i consacrati, senza uno
stretto rifermento alla Chiesa.
Non si può parlare di profetismo senza andare alle radici
teologicamente più significative della profezia stessa. È quanto Paredes ha cercato di fare, prima di
parlare delle nuove vie e delle non poche opportunità che potrebbero rilanciare
la vita consacrata come “alternativa profetica” nel mondo di oggi. Lo potrà
essere solo se saprà incarnare la profezia dell’ospitalità rispettando e
abbracciando tutte le differenze. Lo potrà essere se, nella sua scelta
preferenziale per i poveri, saprà denunciare la miseria della prosperità
attraverso un impoverimento volontario, se saprà camminare con i piedi per
terra, in modo molto realistico, senza “desiderare cose che vanno al di là
delle nostre possibilità”, se non ci si lascerà ossessionare dalla ricerca
della felicità a tutti i costi, se la profezia sarà sempre accompagnata da una
grande sapienza con cui superare le visioni fondamentaliste, dogmatiche, chiuse
a ogni riconoscimento delle diversità. È
proprio della profezia avere il coraggio di navigare contro-corrente. In
quanto religiosi, senza ritenersi mai superiori, unici, diversi dagli altri, ci
si dovrebbe preoccupare solamente di «stare lì dove soffia lo spirito profetico
e diventare suoi umili collaboratori, a partire proprio dalla nostra
particolare ispirazione carismatica».
PROFEZIA
E COMUNITà
Se un po’ tutti i relatori, parlando della profezia nella
vita consacrata, hanno fatto un costante riferimento alla comunità religiosa,
questa attenzione è stata posta al centro della relazione del superiore
generale dei dehoniani, p. José Ornelas Carvalho. Non è possibile parlare di
profezia e comunità religiosa, ha esordito, senza mettersi in attento ascolto
dello Spirito. La vita religiosa, infatti, costituisce una delle più feconde
manifestazioni della presenza dello Spirito nella comunità ecclesiale lungo i
secoli. Di fronte a tanti discorsi “disfattisti e scoraggiati” di oggi, non
bisogna dimenticare che “questo è il tempo che ci è dato vivere”, con tutti i
suoi aspetti positivi e negativi. Non viviamo in tempi peggiori rispetto a
quelli di Gesù, delle prime comunità cristiane e di quelli vissuti dai nostri
fondatori. Lo Spirito continua a parlare sia alla Chiesa che alla stessa vita
consacrata dei nostri giorni, con la stessa intensità con cui ha parlato nel
passato. Il problema allora è quello di saper ascoltare la sua voce.
Ora l’ambiente di ascolto per eccellenza dello Spirito è
la comunità. È lì che lo Spirito continua a suscitare la voce profetica dei
fratelli capaci di leggere in modo nuovo le Scritture, il carisma del
fondatore, le varie regole di vita degli istituti religiosi, suggerendo cammini
e proposte di conversione, in risposta alle tante attese della Chiesa e del
mondo di oggi. Ma non c’è profezia comunitaria credibile senza un rinnovato
esercizio dell’autorità che sappia promuovere la manifestazione e l’ascolto
dello Spirito nella comunità.
Lungi dall’essere e dal sentirsi un “domatore di leoni”
il superiore dovrebbe presentarsi come «il fratello maggiore che cerca di
conoscere e di incoraggiare lo sviluppo di ogni membro della propria comunità,
orientandolo verso il progetto comune». Solo in questo modo il servizio
dell’autorità diventa luogo di manifestazione profetica, sempre e solo in vista
del bene dei singoli religiosi da una parte e della comunità dall’altra. Per
essere profetica l’autorità non dovrà mai rinunciare al confronto e alla
dialettica creativa dei differenti ruoli presenti in ogni comunità. Non si può
correre il rischio di una “democrazia acefala” o di una “corresponsabilità
irresponsabile”. Sarà veramente profetica se saprà promuovere non solo il
confronto, ma anche il discernimento e il momento della decisione. «Se non lo
fa, priva la comunità di un servizio fondamentale per la vita fraterna e per la
missione. Non decidere per non correre il rischio di sbagliare è uno sbaglio
garantito».
IL BANCO DI PROVA
DELLA PROFEZIA
All’ultimo dei relatori, Gabriele Ferrari, già superiore
generale dei saveriani e nostro assiduo collaboratore, è stato affidato il
tema, per certi versi, più impegnativo: Sfide e interpellanze della società e
delle culture odierne alla dimensione profetica della vita religiosa. Aprendo
il suo intervento ha confessato un certo disagio per l’uso eccessivo di un
termine come quello di “sfida” per indicare le inevitabili difficoltà di fronte
alle quali si trova oggi la vita consacrata. In un tempo in cui si parla
continuamente di crisi della vita consacrata e di una sua possibile
rifondazione, il rischio che in una sfida del genere sia proprio la vita
consacrata a soccombere non è del tutto immaginario. Ciononostante mai come
oggi si continua a parlare – e lo si è fatto abbondantemente, come stiamo
vedendo, anche in questa assemblea – di dimensione profetica della vita
consacrata. Ma, si è chiesto Ferrari, siamo davvero profeti? Siamo pronti a
pagare, eventualmente, il conto di una profezia che, se è vera, non può non
disturbare soprattutto coloro che hanno il potere e sono responsabili di
situazioni intollerabili?
Di situazioni intollerabili il mondo, oggi, è
particolarmente pieno. Viviamo, infatti, in un mondo globalizzato segnato
dall’insicurezza e dalla paura, in un mondo contrassegnato dalle guerre, dal
terrorismo e dai flussi migratori, in un mondo pieno di inquietudini e di
incertezza, in un mondo in cui si vuol fare volentieri a meno di Dio. Se questo
oggi è il background culturale da cui non può prescindere neppure la vita
consacrata, «siamo in grado di tentare una risposta che porti il mondo a
ripensarsi e a sperare?». Questo, infatti, e non altri «sarà il banco di prova
della nostra profezia».
Ad un mondo che teme di essere stato lasciato solo, senza
sapere dove sta andando, i consacrati dovrebbero essere in grado di rispondere
che «il nostro Dio è un Dio che ci ama, che ci conosce, e che non ci ha
abbandonato, anche quando ci sentiamo soli». A un mondo come quello occidentale
che manifesta un bisogno di speranza, i consacrati dovrebbero saper
offrirgliela mostrando le ragioni della scelta della propria vita.
Ma nessuna risposta dei religiosi sarà convincente per il
mondo d’oggi fino a quando non si presenteranno come degli esperti in
comunione, come coloro che hanno fatto una convinta scelta preferenziale per i
poveri, come persone che hanno saputo fare delle proprie comunità scuole di
umanità autentica e di dialogo, come religiosi nuovi, poveri e indifesi, non
arroganti nelle loro certezze. Non c’è bisogno oggi, ha concluso, di “rodomonti della fede” che presumono di averne
tanta da affrontare tutte le prove della vita. Bastano persone umili che sanno
affidarsi alla grazia di Dio, chiedendogli con umiltà, ogni giorno, di non
“soccombere” mai di fronte alle inevitabili tentazioni del mondo in cui
viviamo.
COERENZA
E PROFEZIA
Sul tema della profezia nella vita consacrata è
ritornato, infine, anche il segretario della congregazione romana per la vita
consacrata, mons. Agostino Gardin, durante la concelebrazione nell’ultimo
giorno dell’assemblea. Non ci può essere profezia senza primato di Dio, senza
una reale ed effettiva fraternità, senza coerenza, non solo personale ma
soprattutto comunitaria, fra ciò che si annuncia e quello che si vive. Se un
tempo la coerenza era affidata e garantita dalla rigorosa osservanza della regola
comune, oggi invece dovrebbe essere perseguita attraverso l’incentivazione
della libera adesione del soggetto a un progetto comune.
Il rispetto della libertà della persona è un valore che
va salvaguardato, anche a rischio di una sua possibile deviazione in senso
individualistico. Il senso vero di un’autentica fraternità, prima che nel fare
insieme certe cose, sta nel vivere un’adesione di fondo a un progetto che dà
senso, che affascina la vita di un consacrato. La coerenza tra ciò che si
annuncia e ciò che si vive, ha precisato mons. Gardin, è uno di quegli
atteggiamenti che spesso potrebbero dar fastidio. La vita consacrata non
dovrebbe mai cessare di essere in qualche modo una spina nel fianco nella vita
della Chiesa.
Senza cedere a forme di contestazione assolutamente
gratuita, la vita consacrata non dovrebbe mai rinunciare a “tendere insidie al
giusto”, come si legge nel libro della Sapienza, a proporre richiami forti e
per certi versi anche provocatori. La condizione prima e ultima di questa profezia
della vita consacrata, però, è quella di avere a che fare con un profeta umile,
non arrogante. Allora anche la Chiesa stessa, per certi versi, non potrà non
percepire l’esigenza che al suo interno ci sia sempre qualcuno, e questo
dovrebbe essere il compito principale dei consacrati, che la richiami alla sua
fedeltà al Vangelo.
Angelo Arrighini