I SALESIANI RI-PROGETTANO L’ORATORIO
CON LA PORTA SEMPRE APERTA
Il “cortilaio” è un nuovo tipo di animatore che riscopre un ruolo antico,
quello della presenza educativa, dello “stare sulla porta” e dell’essere
presente. La presenza in oratorio però non si improvvisa, va organizzata e
preparata; è un ruolo al quale occorre formarsi nella logica della nuova
evangelizzazione.
Il salesiano don Valerio Baresi e il laico sociologo
Fabio Fornasini, nell’ambito della Ispettoria salesiana di Liguria-Toscana,
hanno elaborato un progetto di prima accoglienza e di gestione del cortile
dell’Oratorio.1 Il percorso progettuale, definito Il Sogno, è un cammino di
ampio respiro contraddistinto da tre tappe (rivisitazione dei tre pilastri
irrinunciabili dell’azione educativa e sintesi del sistema preventivo di don
Bosco: a) nella prima, denominata I cortilai, l’attenzione va alla creazione in
oratorio di un clima educativo centrato sull’accoglienza e sulla formazione di
educatori, che hanno il compito di animare i punti di accesso all’oratorio
stesso (bar, sala giochi, cancello), per cercare anche “il traghettamento” di
alcuni dei giovani verso esperienze più significative di maturazione personale;
b) nella seconda tappa (Vieni e vedrai) ci si preoccupa di rispondere alla
ricerca di senso dei giovani, con esperienze spirituali e di servizio,
attraverso i gruppi e i percorsi formativi per tutti; c) la terza tappa (La
scelta), è attenta all’orientamento vocazionale.
IL TRAGHETTAMENTO
DEI GIOVANI
Il cammino proposto ha un orizzonte ampio (6/7 anni),
necessario per rendere l’oratorio un vero laboratorio educativo, che dia unità
e senso alle molteplici proposte che i giovani ricevono ogni giorno. Molti
giovani infatti vivono persi e abbandonati in ambienti umanamente impoveriti,
frammentati e talvolta marcati da forti contraddizioni. L’Oratorio di don Bosco
era un “mondo”, una realtà multiforme e plurale ma con una chiara unità: una
persona, un progetto conosciuto e condiviso. Oggi tutto questo può essere reso
con la logica dei cerchi concentrici: dal cerchio più esterno che rappresenta
il luogo del primo impatto, delle proposte meno impegnative, verso i cerchi più
interni delle proposte più impegnative e formative; e dall’interno verso
l’esterno: una comunità educante che si apre ai giovani, è presente tra loro
per promuovere il passo dei giovani per crescere (metafora del “traghettamento”
per andare oltre la semplice fruizione dei servizi). Un’intuizione feconda è
l’importanza e il valore che vengono attribuiti alla figura dell’animatore di
questa prima accoglienza: il cortilaio, traduzione odierna di una delle figure
tipiche dell’Oratorio di don Bosco, i giovani migliori ai quali dava l’incarico
di curare e seguire i ragazzi nuovi e i più difficili.
Alcune convinzioni hanno guidato la stesura di questo
percorso progettuale: la coscienza di cogliere le situazioni della vita
(immigrazione, povertà, scarsità di vocazioni alla vita religiosa...) come
segni dei tempi e risorse, non solo come problemi; la persuasione che oggi un
oratorio animato di semplice buona volontà e con la porta sempre aperta non è
più in grado di fronteggiare la situazione e di svolgere un’azione educativa
(necessità di fare proposte concrete e divenire laboratorio formativo); la
ricerca di un dialogo che veda nel territorio una risorsa, uno spazio con cui
confrontarsi e lavorare in rete; l’esigenza dell’assunzione e della presa in
carico di alcune situazioni (progetti mirati di prima accoglienza) da seguire
con figure professionali; l’interrogarsi sulla relazione fra pastorale
giovanile e comunità ecclesiale, affinché i giovani possano confrontarsi con un
autentico interlocutore (il vero problema è che, troppo spesso, è inesistente
la comunità!).
Un oratorio a “cerchi concentrici” dunque , dove ogni
cerchio rappresenta una fase della proposta educativa. Il cerchio più esterno è
la porta d’ingresso dell’ambiente, dove si attiva il primo incontro con i
ragazzi (cortile, sale gioco, spazi informali). Il movimento verso i cerchi più
interni consente il passaggio alle proposte più forti, intense e qualificanti
(gruppi di animazione, catechesi, servizi di volontariato, missione...). I
ragazzi che frequentano un oratorio possono “saltellare” da un’area all’altra:
giocano a pallone, poi vanno a un corso di musica e poi partecipano a un gruppo
formativo. Ognuno fa le sue scelte e frequenta in base alle sue possibilità e
sensibilità, o alla capacità di coinvolgimento egli
animatori.
LA GEOMETRIA
DELL’ACCOGLIENZA
Questa geometria dell’accoglienza nasce quando Baresi e
Fornasini hanno sentito l’esigenza di mettere insieme le loro competenze per
uscire dall’improvvisazione e dalle pie intenzioni: «Stiamo tentando di dare
della metodologia, di abilitare chiunque a rileggersi il proprio ambiente. In
questo senso ha importanza l’idea dei cerchi concentrici, che va oltre il solo
linguaggio salesiano. Da qui anche la necessità di scambiarsi buone prassi
sull’animazione giovanile».
Dopo 150 anni del primo Oratorio, come rilanciare questa
intuizione?
«Ci sono alcuni aspetti, ci dice don Baresi, che fanno
dire che siamo nelle stesse condizioni. Per esempio le immigrazioni: al tempo
di don Bosco quelli che occupano di più l’oratorio sono gli immigrati da altri
luoghi italiani, poveri della campagna. L’oratorio nasce come punto di
riferimento solo festivo, per curare la loro fede; poi diventa residenziale e
comincia a dare risposta alle domande di lavoro e di istruzione. Ecco perché
oggi, di fronte al nostro progetto, molti rispondono che lo stanno già facendo!
La nostra fatica è allora quella di far verificare i frutti dell’esperienza
educativa, per prendere coscienza che la debolezza sta nella mancanza di
progetto educativo».
«Interessante a questo proposito, sottolinea Fornasini, è
il tema del rapporto tra carisma dei fondatori e professionalità della gestione
degli spazi. L’oratorio sta diventando uno spazio dove c’è bisogno di
professionisti. Il ruolo pedagogico di una comunità religiosa è tutelare il
carisma nella relazione con i laici. Si scopre però che il religioso tende a
essere un battitore libero, che in buona fede non riesce a farsi condurre dal
progetto».
Quali sono i punti qualificanti del vostro progetto?
Fornasini: «Innanzitutto si parte dalla crisi di
identità. I ragazzi oggi non hanno più bisogno dell’oratorio. Il filo
conduttore sociologico è quello di comprendere che i ragazzi sono oggi nella
cultura del “mordi e fuggi” (vari campi aggregativi con regole diverse), quindi
non sono sempre lì e l’educazione è sull’istante. Oltre alla pluriappartenenza
c’è allora la crisi della relazione educativa: manca chi rischia per
l’educazione. Gli adulti come comunità devono assumersi questa responsabilità,
non lasciando soli quattro educatori. Da qui il nostro lavoro sulla ricerca di
senso. Noi tendiamo a trasformare la ricerca di senso in azioni da fare
(preghiera, riunione ecc.); il problema invece è come rendere un ambiente lo
spazio di una ricerca di senso per vivere. Questo accade solo se ti confronti
con adulti significativi: oggi invece gli adulti in un attimo trasformano tutto
in un parcheggio, in una logica di delega a partire dai propri figli. In questo
luogo di deleghe la ricerca di senso di un giovane, che è tutta competizione e
spinta a realizzare molte cose, per forza si perde. Come un ambiente può
strutturarsi come ricerca di senso? E come verificare il servizio in questa
direzione? Cerchiamo i cosiddetti “indicatori dell’intangibile”: posso
verificare il clima, gli stili?
Baresi: «Offriamo, lo ripeto, non pie intenzioni ma un
accompagnamento in un percorso educativo. Con strumenti, le idee organizzative,
gli indicatori di verifica. I laici ci dicono che cominciano a capire, i
religiosi salesiani che invece si tratta di una cosa in più di cui farsi
carico. Nonostante queste resistenze e nella consapevolezza di essere in fase
ancora sperimentale, il nostro Rettor maggiore ci ha incoraggiato a portare il
progetto in tutta l’ispettoria dell’Italia centrale».
Come si coniuga il progetto dei Cortilai con l’annuncio
di Gesù Cristo?
«Lo spirito del progetto, affermano don Baresi e
Fornasini, rientra nella prima evangelizzazione, con attenzione privilegiata
all’85% della gente che non viene in chiesa. Questo si coniuga con il carisma
salesiano dell’accoglienza dei minori. Il cortilaio deve perciò assimilare la
distinzione tra servizio e intervento educativo, altrimenti noi facciamo un
servizio di sussidiarietà statale. Il cuore è l’azione educativa: noi aiutiamo
a far sì che la sala prove musicali o la sala giochi non siano solo luoghi di
prima accoglienza ma anche di obiettivi relazionali e di annuncio. Il metro di
verifica dunque non può essere quanti ragazzi riesci a portare a Messa: occorre
riconoscere gli obiettivi sbilanciati, riconoscere il cambiamento e farsi
aiutare a traghettare verso mete più alte».
La sfida è quello di portar i giovani a capire la propria
fede e alla disponibilità a evangelizzare i compagni e la comunità. Lo slogan
dei giovani per i giovani non significa che essi devono comunque restare in
oratorio: il giovane deve evangelizzare tutta la comunità, anche quella civile.
Qui si rileggono anche gli orientamenti vocazionali in chiave laica, sottolinea
il sociologo: «Vocazione non è iniziare a fare il chierichetto; si tratta di
cominciare a parlare di lavoro, a fare delle scelte. In un contesto in cui il
futuro lavorativo è incerto, dare orientamenti a scegliere la vita è
responsabilità sociale molto grande da parte dell’ambiente religioso. Per fare questo
occorre aver riflettuto, avere un progetto culturale. Nell’ottica salesiana la
pastorale giovanile è anche sociale ed educativa». «Per questo, conclude il
sacerdote, facciamo la fatica di tenere sempre viva l’attenzione al progetto e
alla comunicazione tra i soggetti sulla consapevolezza degli obiettivi.
Altrimenti i religiosi permangono, in buona fede, nel loro classico
atteggiamento accentratore. Una verifica mensile diventa informazione per tutti
che si sta camminando insieme.
Oggi la nostra ascesi come religiosi è quella di entrare
nella fatica di progettare, una sorta di nuovi esercizi spirituali del nostro
tempo. La fatica di fermarsi a riflettere e scrivere il progetto personale e
comunitario, perchè ti chiarisce e ti spinge al confronto; perchè costringe a
prendere coscienza di aver bisogno di comunità cristiane mature per proporre
percorsi di senso ai ragazzi».
Servono luoghi dove ci si può fermare, per essere aiutati
a sciogliere i nodi della vita, dove essere ascoltati ed essere di qualcuno,
che ti sostengono e hanno bisogno di te. Questo è la domanda di nuove comunità,
non autoreferenziali, di bassa soglia perché aperte a tutti, a cui sono
chiamati a contribuire con la loro fantasia carismatica soprattutto religiose e
religiosi attenti alle nuove mosse dello Spirito.
Mario Chiaro
1 Don Baresi è salesiano, già parroco a Firenze
(esperienza del progetto NIP,
Nuova immagine di parrocchia) responsabile della
pastorale giovanile di Liguria e Toscana e coordinatore dell’Ufficio vocazioni
per l’Italia salesiana; Fabio Fornasini è sociologo, si occupa di sviluppo
organizzativo e qualità per imprese sociali con particolare attenzione
all’animazione culturale dell’area giovanile (ass. “Porto delle idee” di
Verona). Hanno scritto la prima tappa del percorso progettuale Il Sogno: il
volume “I cortilai” (Ed. Elledici, 2005, pp. 134, € 12,00), sulla scia della
riflessione avviata dalla Congregazione salesiana sulla pastorale giovanile
(convegno di Collevalenza del 2001 sugli Oratori, «Ponti tra la strada e la
Chiesa» e il convegno ispettoriale del 2002 a Calambrone, Pisa, «Rilanciamo
l’Oratorio»).