IL CAMBIAMENTO NELLA VC

PROMOTORI O DESTINATARI?

 

È possibile il passaggio da una concezione piuttosto statica di cambiamento a una concezione più dinamica ed evolutiva per poter esserci nel futuro come lievito della civiltà dell’amore nella vita di tutti i giorni?

 

L’occasione per un tentativo di risposta al’interrogativo mi è data dalla domanda di un religioso che scrive: «Il mio istituto sta vivendo un momento di intensa riflessione … però quanto viene a galla non rispecchia le spinte o gli interrogativi che continuamente emergono nei documenti “alti” o nelle assemblee nazionali e internazionali sulla vita consacrata… Una parola ricorrente è “formazione”… ma quale? Che frutti ha dato quella di questi ultimi decenni?.. un’altra parola che non manca mai è vocazioni, pensando che queste siano la soluzione per l’attuale situazione».

Penso valga per la VR quanto G. Garelli scrive in riferimento alla Chiesa: «Questa privilegia strumenti pastorali e un’azione sociale e religiosa che tende a perpetuare l’orientamento di maggioranza» Credo però che il motivo, per quanto riguarda la VR, non sia dovuto al fatto che coloro che, oggi, hanno compiti di autorità manchino di un pensiero capace di interpretare fino in fondo la direzione evolutiva, ma perché il maggior numero dei religiosi/e a motivo dell’età non sono più in grado – con il dire di M.Guzzi – di «diventare tutti un po’ surfisti e prendere l’onda in modo da usarne la potenza travolgente per volare, invece di costruire inutili difese di sabbia intorno ai nostri recinti mentali già allagati».

 

PASSARE

ALL’ALTRA RIVA

 

Ormai si è d’accordo sulla necessità di passare all’altra riva per esserci nel futuro, ma non basta diventare gondolieri pensando di attraversare un canale: è necessario diventare degli argonauti per poter ritornare “a casa”, lì da dove si è partiti. Un ritorno non retrospettivo, a ritroso verso il passato, ma alle radici, in profondità verso quel “fuoco sacro” che sta al cuore di ogni riscoperta di senso (Antonella Simonetta).

Attualmente si è portati a imputare il tutto all’età dei consacrati/e ma qualche decennio fa gli orizzonti odierni erano già configurabili e l’età media ottimale. Ci sembra allora di intravedere le cause dell’attuale situazione nel tipo di formazione ereditata dal tempo della crescita lineare e continua all’interno di un mondo culturale chiuso, fatto di verità e di usanze che si credevano intangibili. Questo tipo di certezze ha reso incapaci di comprendere e adattarsi ai rapidi cambiamenti portando a rifugiarsi in una qualche figura identitaria del passato, irrigidita. La VR ha sofferto e soffre di un deficit di profezia: «è la sua anima profetica e mistica a essere malata, e questa crisi dell’anima si riflette ora anche nel corpo» (S.P. Arnold). La malattia sta nell’aver fatto consistere la profezia nella “santa osservanza”, in definitiva nella norma, che è andata via via configurandosi prevalentemente come sedimentazione delle consuetudini. Tutto ciò ha spinto a far nascere, provvidenzialmente, nuove forme espressive dei valori evangelici che specie in questi ultimi cinquant’anni si sono sviluppate al di fuori delle canoniche configurazioni della vita religiosa.

Ora l’interrogativo circa l’efficacia della formazione di questi anni sono in molti a porselo. Certamente tutti gli istituti vedono nella formazione la strada al cambiamento e negli studentati molto si è fatto per una adeguata preparazione teologica e spirituale dei “formandi”. È cresciuta anche l’attenzione antropologica che induce a passare da una formazione che dà forma (pure necessaria), a una formazione che aiuta la persona a essere se stessa agevolando, nello stesso tempo, il processo di unificazione tra vita e cultura, tra vita e fede, ma di questa formazione sono stati destinatari piccoli numeri di religiosi/e, pari a circa il 5-6%, essendo approssimativamente questa la percentuale dei “formandi” nella nostra Europa. Rimane fuori oltre il 90% dei religiosi/e che non sono stati influenzati da questa sistematica formazione, ma solo da qualche periodico incontro di studio o mese formativo una tantum; opportunità che ora trovano sempre meno persone interessate. Tra costoro non ci sono soltanto coloro per i quali formazione vuol dire riappropriazione, approfondimento, conferma in funzione rassicurativa delle conoscenze acquisite che non intacchino le venerande figure storico-culturali di identità, ma anche coloro, spesso dell’età di mezzo, che cercano di ridurre al minimo i movimenti di trasformazione, aggrappati all’albero delle consuetudini e a protettive formule istituzionali. Credo che tutto ciò sia da accettare come conseguenza, difficilmente oppugnabile, del fatto che, i più, provengono «da una formazione che ci voleva riproduttori nel modo più fedele possibile di quei modelli di conoscenza e di vita che provengono dalla più veneranda età» (Pina Del Core).

 

NON BASTA

UN AGGIUSTAMENTO

 

Tutto ciò viene rilevato non per dire deterministicamente che non c’è futuro ma per affermare che questo va impostato su altre basi passando dalla conformizzazione al pensare l’inedito, perché in questo momento di sistemi bloccati e di esaurimento delle risorse disponibili, il futuro – che certamente ci sarà – non consisterà nell’aggiustamento dell’esistente per continuare a fare ciò che sempre si è fatto.

La domanda che la VR deve porsi è: «come rispondere con sapienza evangelica alle domande poste oggi dall’ inquietudine del cuore umano»? (VC 81). La risposta sarà ricca di promesse per coloro che considerano il tempo presente difficile ma fecondo e come tale appassionante. Realizzare un progetto di vita innovativo «è saper cambiare punto da cui guardare le cose, accedere a un nuovo modo di fare, riconoscere relativo un proprio valore, è misurarsi con il mondo, accettare un limite, ristrutturare una certezza: tutti processi che richiedono di uscire almeno in parte da un campo di conoscenze e di rassicurazioni per entrare in un altro che all’inizio non rassicura ma inquieta» (U. Morelli). Nuova progettualità significa non solo il “cosa” ma ridescrivere le finalità.

C’è un quadretto illustrato da Paul Watzlawich, che narra dello sceicco il quale chiese al servo: “Vuoi andare dalla Mecca a Medina in cammello o col cavallo?” E il servo rispose: “Vorrei discutere se andare o no dalla Mecca a Medina!” Per pensarsi in modo nuovo è necessario guardarsi con occhi diversi, osservandosi dall’esterno per riconoscersi in una identità e appartenenza non più declinate unicamente nel solco di tradizioni ma plasmate dalle richieste di senso e avvenimenti della vita, a partire da una sofferta consapevolezza che c’è un passato sparito come elemento vivo. A tal fine non è più sufficiente chiedersi «che cosa non possiamo più fare» ma la domanda cui rispondere è «che cosa possiamo fare oggi?» a partire da ciò che i nostri occhi vedono scrutando in simultanea l’ «orologio della storia, della Chiesa e del mondo» per abilitarsi a testimoniare la speranza in un’era nuova la cui realtà sta nel divenire continuo.

 

NON CONTROLLARE

MA PROMUOVERE

 

In particolare queste domande interpellano coloro che hanno compiti di autorità, il cui servizio «non è quello di servire l’ordine attraverso il controllo della realtà ma di promuovere il compimento del Vangelo nella vita dei membri e nelle scelte di comunità» (Silvia Recchi); persone dunque che abbiano l’idea della VR non come istituzione ma come mondo vitale per il quale un’azione di governo che non sia capace di introdurre discontinuità all’interno del sistema, di non perturbare la situazione esistente, è un’azione volta più alla conferma degli assetti in atto che al sostegno dell’evoluzione. Inoltre nel mondo vitale il nascente è piccolo, povero, marginale; l’istituzione al contrario è portata ad accogliere ciò che è grande e riconosciuto, con il conseguente pericolo di non vedere nascite.

Un provinciale alla domanda di come si sentisse alla fine del mandato rispose: «Ho iniziato con l’obiettivo di camminare tutti assieme verso nuove mete già precise nella mia mente, ora mi ritrovo con la sindrome di Sisifo ai piedi della montagna». Nella società della vulnerabilità non c’è più la soluzione già pronta, uguale per tutti, che porta definitivamente al sicuro. «Ci sono azioni “qui e ora” che aprono o chiudono delle prospettive, che preparano la strada per altri interventi o li compromettono, che consentono di formulare un progetto o chiudono gli orizzonti, che aumentano o restringono il numero delle cose raggiungibili».1 E tutto ciò non avverrà tutti insieme. Ne era convinto un p. generale (p. G. Biffi) a fine mandato – come già ho scritto tempo fa – dicendo ai capitolari: «l’ordine, lungo la storia, si è sempre rinnovato grazie a gruppi di frati appassionati e capaci di sognare».

Una espressione di Hermann Hesse dice: «In ogni inizio c’è dentro un mago». Ci è spontaneo pensare al fondatore/trice. L’affermazione di Hesse dice inoltre che «con le fasi di cominciamento nulla è dato per scontato, ma tutto è possibile; progetti e disegni sono necessari in modo vitale, ma esporsi alla magia, all’incanto dell’inizio è altrettanto vitalizzante come il sapere intorno a quello che è già stato». Sarà faticoso cambiare registro, ma questo appartiene alla magia dell’inizio, una magia che per alcuni sarà affascinante, produrrà capacità nuove, iniziative inconsuete, passione e responsabilità.

Perché ciò sia reso possibile è urgente che gli istituti si impegnino per una missione condivisa tra laici e religiosi; ciò richiede la fatica di tradurre la diversità in complementarietà per una reciprocità spirituale e apostolica, rispettosa delle caratteristiche complementari di ciascuna realtà. Si tratta di scoprire vocazionalità nuove che, a partire da una visione spirituale carismatica comune, legga insieme le sfide per orientare le scelte in rapporto al territorio.

È questo un cammino provvidenzialmente già intrapreso da vari istituti che incomincia a dare i suoi frutti.

 

Rino Cozza csj

 

 

1 Cf. Negri N., in Animazione sociale 11 (2006).