L’ASSEMBLEA PLENARIA DELLE SUPERIORE GENERALI

“TESSITRICI” DI NUOVE SPIRITUALITA’

 

Un tema fin troppo impegnativo. Centralità e insostituibilità della parola di Dio. La problematica “tessitura” dei “fili” della donna, degli immigrati, dell’ecologia, del dialogo interreligioso, dei laicato. Nessuna passione per l’uomo senza la passione per Cristo.

 

Sarebbe stato difficile organizzare nel novembre del 2004 il primo grande congresso internazionale sulla vita consacrata, Passione per Cristo, passione per l’umanità, senza l’esperienza ormai ampiamente collaudata delle assemblee “plenarie” dell’Unione internazionale delle superiore generali (UISG). È, questa, una doverosa “presa d’atto” dopo avere seguito di persona i lavori dell’ultima “plenaria” svoltasi a Roma dal 6 al 10 maggio u.s. Le quasi 800 superiore generali1 si sono ritrovate negli stessi ampi (e costosi) spazi dell’Ergife, in cui meno di tre anni fa le due unioni (dei superiori e delle superiore generali) avevano provato a porre, con una espressione anche fin troppo ottimistica, una pietra miliare sul futuro della vita consacrata nella Chiesa e nel mondo.

Sarebbe stimolante leggere in parallelo questi due eventi, la plenaria e il congresso internazionale del 2004. Una sola e più immediata constatazione. Per tutta una lunga serie di ragioni, le religiose, da sole, anche in questa plenaria, hanno ottenuto quello che le due unioni congiuntamente, allora, non sono riuscite ad avere, vale a dire l’udienza pontificia. È vero che la vita consacrata femminile nel mondo è ancora numericamente preponderante (800.000 religiose contro 200.000 religiosi, circa), ma è altrettanto certo che mai come nel congresso del 2004 un papa avrebbe potuto incontrare per la prima volta, nella storia, gli “stati generali”, maschili e femminili, della vita consacrata.

Il ricordo comunque del congresso del 2004 è stato più volte evocato anche in questa plenaria, il cui tema di fondo, frutto di una vasta consultazione delle numerose delegate dell’Uisg, era un vero e proprio programma di vita: sfidate a tessere una nuova spiritualità che generi speranza e vita per l’umanità. Di fronte a un titolo così onnicomprensivo e impegnativo, l’atteggiamento più adeguato non poteva essere che quello del “sogno”. È quanto si è permessa di fare, fin dall’inizio, la presidente Therezinha Rasera. «Come donne, ha detto, sogniamo di vivere pienamente la nostra identità e la nostra missione in questo nostro mondo. Sogniamo di poter superare le divisioni di stereotipi del genere, imposte da una società che ci giudica incapaci di pensare, esseri fragili, passivi, abusati e violentati nel corpo, nel cuore e nella mente». Solo delle donne “affascinate” da Dio possono percepire l’esigenza di “allargare la tenda” perché in essa trovino spazi di speranza e di vita tutti gli emarginati, gli esclusi, i senzatetto e senza terra, quanti sono costretti ad emigrare in cerca di sopravvivenza. Essere consacrate, oggi, significa “vivere nella radicalità” una proposta alternativa, contro-culturale e controcorrente. Significa fondare la propria vita sulla parola di Dio che sola può alimentare realmente la passione per Dio e per l’umanità. Significa scegliere una vita religiosa profetica, audace, propositiva, andando oltre ciò che è prestabilito e sicuro per abitare sulle tante frontiere sempre più pericolose del nostro mondo, con una scelta di vita religiosa meno strutturata, meno burocratica, più povera, più libera.

 

LA “SPINA DORSALE”

DI OGNI SPIRITUALITÁ

 

In questa prolusione della presidente (ormai giunta al termine del suo mandato), c’è in sostanza tutto l’afflato realistico da una parte e profetico, ma anche, in parte, zelantemente utopistico dall’altra, riecheggiato con insistenza durante i lavori della plenaria. Volutamente era stata programmata una sola relazione introduttiva, affidata a un biblista, il verbita Thomas Huges. Rifacendosi al tema generale della plenaria, questi ha chiarito subito che la spina dorsale di ogni spiritualità, nuova o meno che sia, è la parola di Dio. Anche se dopo il concilio c’è stata una indubbia riscoperta di questa Parola, i risultati però, anche nella vita consacrata, sono molto meno incoraggianti di quanto non ci si potesse aspettare. Se si perde il contatto con la Parola fondante di Dio, si finisce con l’accontentarsi semplicemente dell’efficienza delle opere, dimenticando così che la vita consacrata, come la Chiesa del resto, non è mai fine a se stessa, ma uno strumento del Regno, di quel Regno che «tutti sperimentiamo, paradossalmente, come già qui e allo stesso tempo non ancora». Purtroppo, dopo gli entusiasmi iniziali, «molte comunità e singole persone si conformano col mondo moderno accettando la visione e i valori della società dominante. Molto spesso non ci distinguiamo più dal mondo che ci circonda, non lo sfidiamo, ma gli permettiamo di assimilarci. La nostra voce profetica e la nostra testimonianza evangelica diventano più deboli e cessiamo di essere una presenza disturbatrice, provocatrice e liberatrice di Gesù e della sua Parola in una società di oppressione e di esclusione».

Se il mondo oggi «non ci perseguita come ha perseguitato i primi seguaci di Gesù, ciò è dovuto al fatto che non rappresentiamo per esso alcuna minaccia». Anzi, troppo spesso si distoglie il proprio sguardo dalla miseria circostante, rifugiandosi in una religione intimistica e desistendo da ogni impegno per trasformare la società. Troppo spesso si permette che Gesù e il suo Vangelo siano sequestrati a favore dell’alienazione dello statu quo, diventando così «servitori di un mondo che è più idolatra di quello del primo secolo, perché sacralizza il profitto, predica la buona notizia della competizione, esclude la maggioranza delle figlie e dei figli di Dio ed applaude all’avidità e all’accumulo dei beni».

Nonostante le pile di documenti dei vari capitoli generali e provinciali, la parola di Dio continua a occupare un “ruolo periferico” nella vita e nella spiritualità di tanti religiosi. In alternativa a questo elemento costitutivo, si ricercano inevitabilmente, allora, tanti surrogati: celebrazioni super emotive, ricerca frenetica di miracoli, culto della personalità tipico di certi leaders di movimenti, “bardature esterne di tipo militare medievale”. Perché stupirsi, allora, di tante crisi anche nella vita consacrata? Porre la parola di Dio al centro della propria vita non significa semplicemente aumentare nelle comunità il numero dei corsi, delle riunioni e degli studi biblici. Certamente tutto questo è della massima importanza. Ma non serve fino a quando la parola di Dio non diventa «l’asse trasversale della nostra vita e della nostra attività». Non è possibile perseverare nelle proprie opzioni evangeliche a favore dei poveri e degli esclusi senza radicare tutta la propria spiritualità in questa Parola.

 

“QUELLE DONNE

SIAMO NOI”

 

Anche solo da questi pochi cenni è facile cogliere la densità degli stimoli emersi durante la plenaria. È stato forse un peccato non aver ripreso, contestualizzato e sviluppato in maniera più sistematica, durante le intense giornate di lavoro, questi spunti. La tessitura dei cinque “fili” (la donna, gli immigrati, l’ecologia, i laici, il dialogo interreligioso) attraverso i quali si è voluto “tessere” il cammino di una nuova spiritualità e rispondere così alle sfide odierne, si sarebbe rivelata, a nostro avviso, sicuramente più efficace. La forte sensibilità “in orizzontale” emersa dalla tessitura dei “fili” avrebbe così più chiaramente evidenziato il suo insostituibile punto di riferimento “in verticale”, vale a dire la parola di Dio.

Non è facile, in questa sede, riprendere gli snodi più significativi di questi “fili”. Così, ad esempio, parlando della “donna dalle mani piene ed incallite”, sr. Marie-Angela Kitewo ha denunciato senza mezzi termini l’assoluta distanza tra i tanti bei discorsi sulla promozione della donna e la tremenda e tragica realtà delle tante donne violentate, emarginate, trafficate, maltrattate, ingannate, umiliate, disumanizzate. Le donne solo numericamente formano la “metà” dell’umanità. Ma accanto a un piccolo numero di donne socialmente “emergenti”, per ben due terzi non contano assolutamente nulla. Sono per lo più invisibili. Sono le donne dalle “mani piene”, per quanto fanno nella costruzione del mondo. Ma le loro mani sono rese callose dal duro lavoro, dalla lotta contro le leggi e le strutture ingiuste che impediscono loro di esistere realmente, offendendo in maniera inesorabile la loro bellezza e la loro dignità. Fino a che punto, si è chiesta la relatrice, «siamo pronte a incontrare queste donne curve davanti a noi?». Non lo si dovrebbe mai dimenticare, ha concluso, perché queste donne “siamo tutte noi”.

Sullo stesso piano di aperta denuncia si è posta anche sr. Christiane Lorcy, parlando della sempre più vasta schiera di profughi e di migranti, installati spesso lungo le frontiere, in condizioni disumane, prive di speranza e senza prospettive di sopravvivenza. E fra tutti le più esposte sono sempre le donne, discriminate e sfruttate sul piano economico e sociale.

Di fronte a questo quadro di un’umanità lacerata, sr. Christiane non poteva far altro che “provocare” le superiore generali con una raffica veramente inquietante di domande. «Quando, dove, come ho fatto l’esperienza di sentirmi sradicata, forestiera, perduta in un paese che non era il mio? Quali sono stati i miei sentimenti? Chi mi ha permesso di situarmi e sentirmi presto a casa mia? Quali sono le grida, le difficoltà che abbiamo appreso riguardo a questi rifugiati? Siamo pronte a far loro spazio nella nostra vita, nei nostri luoghi, nei nostri bilanci? Esiste forse già questo spazio, ma come andare ancora più oltre? Cosa possiamo immaginare perché noi stesse e le nostre suore prendano le misure di questa sfida mondiale? Noi religiose, discepole di Gesù, facciamo parte della folla di questi uomini e di queste donne anonimi che non hanno conosciuto il messaggio evangelico ma che, accogliendo i loro simili nel forestiero, hanno accolto il Signore stesso?».

 

SPECIALISTI

DEL PRIMATO DI DIO

 

Su una tessitura socialmente meno inquietante si sono dipanati gli altri tre “fili” di questa plenaria: il dialogo interreligioso, la terra e la sua sacralità (l’ecologia) e il laicato. È un fatto inusuale che in assemblee del genere a parlare di dialogo interreligioso venga invitato un teologo musulmano, docente presso la Gregoriana, il dr. Adnane Mokrani. Dopo aver tracciato il suo percorso personale nel campo del dialogo interreligioso, e dopo aver chiarito che, a suo avviso, questo dialogo non è una delle tante attività tra le altre, ma un modo d’essere, di agire e di pensare che abbraccia tutta la persona e la vita di un credente, ha subito però lamentato il fatto che il dialogo interreligioso non sia mai al centro delle preoccupazioni della gente comune. Si svolge, per lo più, nelle università e dei centri di studio, ma non rientra mai tra le priorità delle «masse affamate di pane e di libertà».

Non ha poi entusiasmato più di tanto il “filo” sull’ecologia e la cosmologia. Eppure sr. Donna Geemaert, rifacendosi alla sua tesi su Teilhard de Chardin, si è servita della cosmologia per dire qualcosa di nuovo e di insolito in un uditorio del genere. Ha provato a chiarire la sostanziale differenza, ad esempio, tra una concezione cosmologica tradizionale e una concezione invece più ricorrente oggi. Se nel primo caso Dio è visto come una causa esterna per portare tutte le creature all’esistenza, nella nuova concezione «Dio è visto come una causa interna, una presenza immediata nella realtà esplicativa dell’intero universo». Ora questo cambiamento di prospettive potrebbe avere delle ricadute anche nel campo della vita consacrata, e in particolare su una nuova possibile ricomprensione e riformulazione degli stessi voti religiosi.

Decisamente più realistico e concreto si è rivelato il “filo” del laicato. Senza mezzi termini, la relatrice australiana, sr. Katrina Brill, ha sollecitato tutte le generali presenti a lasciarsi trasformare gradualmente dal movimento dei laici, a veder fiorire in modo nuovo i carismi delle nostre congregazioni, a vedere le nostre particolari spiritualità condivise, vissute e sviluppate proprio grazie ai laici. Tutto questo non è possibile senza abbandonare la convinzione dell’autosufficienza e senza camminare convintamente con coloro che Dio chiama in “modi nuovi” a vivere il carisma di un determinato istituto religioso. Al centro degli interessi dei consacrati non ci dovrebbe più stare il proprio istituto, ma il carisma di fondazione, insieme a tutti i laici che in un modo o nell’altro, vi si sentono direttamente coinvolti. È un cammino di “trasformazione continua” grazie al quale sarà possibile «articolare i nostri doni e riconoscere i tipi di paura, di arroganza, di conformismo, di ignoranza, di mancanza di veridicità che ci impediscono di cambiare e di camminare come congregazione verso un nuovo futuro».

Se nel “tessere” questi “fili” si guardava con molta speranza al futuro, la conferma di quanto già nel presente le religiose sono direttamente coinvolte nella trasformazione spesso drammatica della realtà, è venuta da quanto testimoniato dalle responsabili delle diverse commissioni: giustizia e pace e integrità del creato, aids, tratta delle donne, Sudan. Bastava ascoltare queste testimonianze per capire quanto le religiose siano spesso impegnate sulle frontiere più rischiose ed esposte del mondo odierno.

La loro azione sarà tanto più efficace se, come ha ricordato il segretario del dicastero vaticano della vita consacrata, mons. Gardin – che insieme ai suoi più diretti collaboratori ha seguito significativamente quasi tutti i lavori della plenaria – saranno soprattutto degli «specialisti della spiritualità, del primato di Dio, della centralità di Cristo». Forse anche in questa plenaria, come già nel congresso internazionale del 2004, si è percepita una maggiore “passione” per l’uomo che non per Cristo. Però, senza amare l’uomo che “si vede”, è difficile amare Dio che “non si vede”.

 

Angelo Arrighini

 

1 Delle 795 generali presenti, 448 provenivano dall’Europa, 157 dalle Americhe, 101 dall’Africa, 67 dall’Asia, 21 dall’Oceania.