GRANDI LAGHI, QUALI PROSPETTIVE?

TACCIONO LE ARMI MA NON È PACE

 

Dopo le elezioni e la costituzione di governi regolari, la regione dei Grandi Laghi continua ancora a essere un pericoloso focolaio di guerra. Tutto è ancora fragile e precario e l’attuale equilibrio potrebbe rompersi da un momento all’altro.

 

Molti si chiedono se nel­la regione dei Grandi Laghi la pace sia finalmente ritornata, dopo le importanti scadenze elettorali che hanno segnato il cammino del Burundi nel 2005, e quello della Repubblica Democratica del Con­go (RDC) lo scorso autunno 2006. Tutti coloro che hanno a cuore le sorti dell’Africa hanno sperato che queste scadenze segnas­sero la fine della guerra e l’inizio della rinascita di questi paesi e con essi dell’intera regione dei Grandi Laghi. Sarebbe bello poter rispondere affermativamente, ma non pare sia ancora possibile farlo, almeno per ora. Burundi, Congo, Rwanda hanno vissuto insieme una quindicina d’anni molto tormentati. Da alcuni anni è in corso un processo di transizione verso la pacificazione che si prefiggeva di condurre questi paesi a forme di governo condivise e democratiche. Per ora si può dire che le armi, almeno ufficialmente, tacciono e non si combatte più la guerra classica, fatta di eserciti e di armi, di profughi e di rifugiati, di morti e di distruzioni come nel recente passato. Ma basta questo per dire che è scoppiata la pace?

È vero che non si sentono più soffiare i venti di guerra, altrettanto vero è che la gente è abbastanza libera di seguire le proprie occupazioni, a casa e nei campi, che i giovani vanno a scuola, ma non si può dire che la pace sia ritornata e che questi paesi abbiano ripreso la strada dello sviluppo e della crescita economica. Essi sono ancora oggetto di attenzioni, pericolose e sospette, da parte di altri paesi e di quei poteri anonimi che sono stati dietro i conflitti di questi ultimi quindici anni.

 

IL BURUNDI

SEMPRE A RISCHIO

 

Prendiamo ad esempio il Burundi. Dall’agosto del 2005 ha un nuovo governo, eletto da un parlamento, uscito da un voto quasi plebiscitario. Molte speranze hanno accompagnato la salita al potere di Pierre Nkurunziza, capo del Comitato Nazionale per la Difesa della Democrazia – Fronte di Difesa della Democrazia (CNDD-FDD) che aveva combattuto contro l’esercito nazionale una lunga guerra civile. Suo scopo era di prendere il potere e restaurare la democrazia, cancellata dal colpo di stato militare e dall’assassinio del primo presidente della repubblica eletto democraticamente. Si poteva legittimamente sperare che il paese avrebbe ricominciato a crescere dopo più di un decennio di guerra. Invece sembra che le speranze non riescano a fiorire. I problemi irrisolti sono ancora molti, dalla smobilitazione dell’esubero delle forze armate al riaggiustamento etnico dell’esercito, dal ritorno dei rifugiati al rilancio dell’industria, del commercio e del turismo, in un paese che da anni vive una dolorosa stagnazione.

Ma il problema principale, radice di tanti altri, sembra essere la nuova classe politica che non riesce a mettersi in moto. La si accusa di ingenuità. Si è detto che fino a qualche settimana fa essa era ostaggio di un signore, Hussein Rajabu, presidente del CNDD-FDD che condizionava tutti con nascoste mire di potere e bloccava il futuro del paese e del suo governo. Dal mese di febbraio di quest’anno, Rajabu è stato finalmente estromesso, ma l’inerzia del governo continua. Inesperienza, impreparazione, ingenuità, oggettiva difficoltà della situazione? Forse tutto insieme.

Il presidente della repubblica, Pierre Nkurunziza, cerca di stare quanto può in mezzo alla gente, di ascoltarne i problemi e di risolvere quelli più urgenti, ma riesce a farlo con promesse che sono più demagogiche che reali. Per esempio, ha promesso la scuola elementare gratuita per tutti i ragazzi del paese, le cure gratuite alle mamme che mettono al mondo un figlio, le cure gratuite ai bambini sotto i cinque anni… Le promesse sono facili, ma i mezzi per mantenerle sono pochi, anche perché i bailleurs de fonds (i finanziatori) hanno promesso il loro aiuto, ma non si muovono finché non c’è un minimo di stabilità sociale e politica. La quale non c’è ancora e allora tutto rimane sospeso alle belle parole. C’è un gruppo di ribelli che non ha ancora deposto le armi dal 1993: esso ha firmato un accordo di pace con il governo lo scorso 7 settembre 2006, ma non si decide ancora a metterlo in esecuzione. Dalla metà di febbraio i negoziati in corso tra FNL (è il nome del gruppo) e il governo nazionale battono il passo e, tra sospensioni e riprese, i colloqui sono ancora… al punto di partenza. Nel frattempo si attribuiscono ai membri del FNL gli atti di banditismo che ancora costellano le notti dei burundesi: furti a mano armata, regolamento di conti, sparatorie e quant’altro. Ma nessuno sa se siano proprio gli FNL dietro questi fatti, mentre molti pensano che la presenza di questo gruppo sia un comodo pretesto per altri interessi inconfessabili. Non sarà per questo che i negoziati battono il passo?

 

NELLA RDC I PROBLEMI

NON SONO FINITI

 

Chi passa la frontiera del Burundi e si reca a Bukavu, in quell’immenso e ingovernabile continente che è il Congo, sente subito che neppure qui la fine delle ostilità militari ha segnato l’inizio della pace. Certamente anche qui la gente di guerra non ne può più. Il paese è stato sottoposto a due guerre successive l’ultima delle quali non è ancora del tutto finita, malgrado gli accordi di pace. La presenza della MONUC (militari del­l’ONU) è onnipresente: i baschi azzurri per salvaguardare la pace e garantire la ripresa della vita. Li ho visti costruire un ponte sulla strada che va da Uvira a Bukavu, girare sui loro blindati con il mitra sempre pronto e puntato, ma ho sentito anche che, diversamente dal Burundi, la gente del Kivu non ha alcuna fiducia in loro e nella loro protezione. Non vede l’ora che se ne vadano.

Dopo le elezioni dello scorso autunno, che hanno confermato Joseph Kabila alla presidenza della repubblica, e la formazione del governo Gizenga, vecchio dinosauro dell’opposizione a Mobutu, ritornato alla ribalta, il processo di ripresa del paese è ancora di là da venire. Il candidato che ha perso il ballottaggio con il presidente Kabila, Jean-Pierre Bemba, è stato oggetto di attacchi da parte dell’esercito nazionale, perché non ha voluto smobilitare la sua guardia del corpo, facendone invece una forza militare parallela e un suo esercito personale. La sua posizione non era giustificabile, ma l’esercito nazionale alla fine di marzo ha preso d’assalto il quartiere generale di Bemba a Kinshasa meritandosi il biasimo delle potenze internazionali, Unione Europea per prima, per la durezza con cui è intervenuto. Negli scontri sono morti molti militari e anche civili. Fonti ufficiali hanno parlato di duecento morti, ma pare che siano molti di più, seicento o giù di lì. Tutto questo rivela l’instabilità della situazione. Ad essa si aggiunge una specie di paralisi del potere che non riesce a governare un paese che per le sue dimensioni si rivela sempre più ingestibile.

Nelle regioni orientali, il Kivu in particolare, permangono i problemi irrisolti degli interahamwe rwandesi, gli hutu fuggiti dal Rwanda al momento degli avvenimenti del 1994, che non sono più inquadrati da nessuno e che vivono di razzie e di violenza all’interno della foresta orientale Congo. Nel Sud-Kivu la gente vive ancora oggi, alla fine di aprile, nel terrore di questi militari sbandati che non obbediscono a nessuno e che, dovendo pur mantenersi, lo fanno alle spalle della povera gente. Violenze sulle donne, prese come schiave per portare i bagagli, fare la cucina e per altre prestazioni immaginabili, banditismo notturno, furti a mano armata e insicurezza sono ancora per molta gente all’interno del paese problemi di ordinaria amministrazione. Ma anche nel Nord-Kivu, a un centinaio di chilometri a nord-est di Goma, la gente di giorno si nasconde nella fitta boscaglia ed esce di notte per coltivare il proprio campo. L’ha detto l’alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati che ha anche quantificato in 64.000 gli sfollati di questi ultimi mesi nella zona del Congo. Sono notizie di queste ultime settimane di aprile.

Lo stato in Congo brilla per la sua assenza, l’amministrazione della cosa pubblica è inesistente. Parlo soprattutto della parte orientale del paese, del Kivu, che peraltro è molto più grande dell’Italia. Visitare una città come Bukavu, che è stata in passato una città splendida, piena di attività commerciali e industriali, è un’esperienza desolante che lascia allibiti. Le strade della città non mostrano che qualche ricordo di un passato in cui erano asfaltate, ora sono solo un’interminabile serie di buche profonde che si devono aggirare, in un pericoloso slalom, e che diventano una trappola di fango in occasione delle piogge. La corrente elettrica è erogata a singhiozzo, le comunicazioni sono inesistenti, il commercio è bloccato e tutto funziona sulla base dell’improvvisazione e dell’iniziativa privata.

 

DAL RWANDA

VOCI DI PAURA

 

Dal Rwanda vengono voci di una pace “da esposizione”, nel senso che chi visita la città di Kigali, capitale del paese, potrebbe pensare che ci sia pace e sviluppo, ma chi riesce ad avvicinare la gente o si addentra nel paese, si rende conto della precarietà della pace, del terrore che continua ad attanagliare la gente che non ha dimenticato la catastrofe del 1994 e la repressione che ne è seguita. Oggi coloro che non appartengono al FPR, il partito dei rwandesi rientrati dall’Uganda, vive nel terrore dei tribunali, detti Gacaca, una riedizione dei tribunali popolari della Cina maoista. Sono stati voluti dal governo rwandese per accelerare i processi per genocidio di 130.000 prigionieri e sfoltire le prigioni superaffollate del paese, ma essi si stanno rivelando istituzioni pericolose che, invece di promuovere la giustizia, finiscono per fomentare le vendette e dare spazio all’etnismo più esasperato. La gente è costretta alla delazione per poter salvarsi dalla prigione.

Ciò che ancora più preoccupa è il fatto che il Rwanda non ha ancora messo da parte i suoi progetti espansionistici per i quali nel 1996, col pretesto di salvaguardare le frontiere nazionali, ha messo a ferro e fuoco tutta la parte orientale della RDC, seminando morte e distruzione. È di questi ultimi giorni la notizia che, insieme con la ripresa della Comunità economica e politica dei Grandi Laghi (CEPGL), riavviata dopo anni di inazione, il giorno 19 aprile u.s., i capi di stato maggiore di Burundi, Rwanda, RDC e Uganda si sono riuniti a Bujumbura e hanno concordato azioni militari congiunte contro le “forze negative”, cioè i diversi gruppi armati attivi nella regione, che destabilizzano cioè la zona dei Grandi Laghi, al fine di “riportare pace e sicurezza durevoli” (MISNA del 20.4.07). Si tratta di un progetto che di primo acchito potrebbe sembrare positivo e in linea con il processo di pacificazione della regione. In pratica si tratta, però, del permesso che questi signori si sono dati di invadere nuovamente l’est del Congo, ufficialmente per liberarlo dalle minacce di guerra che vengono dagli interahamwe rwandesi, che si trovano ancora nelle foreste del Sud-Kivu, e dai ribelli ugandesi dell’Esercito di Resistenza del Signore, da qualche anno nelle foreste del nord-est, ma in realtà per permettere soprattutto a Rwanda e Uganda di continuare il saccheggio sistematico di questa parte del Congo, ricca di materie prime minerarie e forestali e anche per riprendere quell’antico progetto di una Tutsiland. In altre parole, si sta ripetendo la situazione che ha portato alla guerra del 1996-97 che, se ha messo fine all’amministrazione corrotta del presidente Mobutu, ha tuttavia innescato un processo di instabilità e di conflitti che a tutt’oggi non sono ancora conclusi. Qualche giorno dopo quella riunione di Bujumbura, il presidente Kabila ha fatto ufficialmente sapere che nessuno potrà varcare armato la frontiera del Congo, ma siccome il presidente Joseph Kabila è il figlio di quel Kabila che nel 1996 ha iniziato la prima invasione del Congo, allora Zaire, e lo ha fatto per conto del Rwanda di Kagame, il suo no sembra essere dovuto, formale, ma per nulla convincente.

Non si tratta certo di una buona notizia, anzi! Gli Interahamwe non sono certamente dei santi, ma neppure lo sono gli altri militari ugandesi, rwandesi e burundesi e già si è visto quello che da essi ci si deve aspettare. Molti missionari che lavorano in Congo e che hanno visto lo svolgersi della storia in questi ultimi trent’anni, scuotono la testa e ripetono che la zona dei Grandi Laghi si pacificherà, solo quando il Congo sarà veramente in pace e quando anche gli altri paesi attorno rimarranno dentro le loro frontiere. Per ora non sembra che questo sia ancora una realtà certa.

Gabriele Ferrari s.x.

Bujumbura, 25 aprile 2007