IL FONDATORE DEI DEHONIANI LEONE DEHON

UN BEATO IN “LISTA D’ATTESA”

 

Già ufficialmente fissata per il 24 aprile 2005, la beatificazione di Leone Dehon è stata rinviata a tempo indeterminato. Prima nella morte di Giovanni Paolo II e poi nelle accuse di antisemitismo nei confronti di alcuni suoi scritti sociali, le ragioni del rinvio. La rilettura e gli insegnamenti del “caso” in un documento del superiore generale dei dehoniani.

 

Che ne è della beatificazione di p. Leone Dehon? La domanda che i dehoniani si sentono ripetere da tempo, con una certa insistenza, è più che legittima. Anzi, loro stessi, per certi versi, sono i primi a porsela. Il 24 aprile di quest’anno, infatti, sarebbero già dovuti trascorrere esattamente ben due anni dalla sua avvenuta beatificazione e tre anni dalla lettura del decreto conclusivo del processo, avvenuta ancora il 19 aprile 2004, alla presenza di Giovanni Paolo II.

Come mai, allora, nonostante l’esplicita decisione di Giovanni Paolo II di beatificare il 24 aprile 2005 il fondatore dei dehoniani, si è ancora in attesa di questo evento?

 

UN PRETE

CON LA PENNA IN MANO

 

Ricordiamo tutti come proprio il 24 aprile 2005, in piazza San Pietro, ha avuto luogo, invece, la solenne inaugurazione del pontificato di Benedetto XVI, succeduto a Giovanni Paolo II, ritornato alla «casa del Padre» il 2 aprile precedente. Se i superiori dehoniani avessero accolto la prima proposta avanzata dal Vaticano per la beatificazione del loro fondatore, vale a dire nell’autunno del 2004, probabilmente oggi non avremmo più motivo di ritornare sul problema. Si era preferito attendere la primavera del 2005, con la data ufficiale e definitiva del 24 aprile, per conferire alla celebrazione, aveva detto il superiore generale, «un contenuto spirituale e formativo più intenso».

La prima comprensibilissima causa del rinvio è, quindi, da collegarsi alla morte di Giovanni Paolo II. Nel frattempo, però, sono andate sovrapponendosi altre e non certo irrilevanti ragioni. Già prima della morte di Giovanni Paolo II, ma soprattutto nei mesi immediatamente seguenti, da più parti, sugli organi di stampa italiani e internazionali, sono incominciate ad apparire insistenti accuse di “antisemitismo” nei confronti di alcuni scritti di p. Dehon.

Uno dei capitoli fondamentali della sua lunga esistenza (è morto a 82 anni, nel 1925) è quello riguardante il suo diretto e personale impegno nella complessa “questione sociale” particolarmente sentita e sofferta, a fine ottocento, proprio in Francia. La “Rerum novarum” di Leone XIII, del maggio 1891, ha trovato in Leone Dehon uno dei suoi più convinti e qualificati divulgatori. Laureato, giovanissimo, in diritto all’università di Parigi, ha poi completato – una volta entrato, contro il parere paterno, nel seminario francese di Roma – la sua formazione sacerdotale, spirituale e teologica con il conseguimento dei gradi accademici in filosofia, teologia e diritto canonico. Sempre in quegli anni aveva potuto ampliare la sua diretta conoscenza della vita e del magistero della Chiesa, seguendo come stenografo i lavori del concilio Vaticano I.

Fin da giovane prete a san Quintino, nel 1871, ma soprattutto a partire dal 1890 – dopo aver fondato, nel 1878, e consolidato, tra non poche sofferenze e contrarietà interne ed esterne, il suo istituto religioso – si è attivamente impegnato, a tutti i livelli e con tutti gli strumenti allora possibili, nella “questione sociale”. Lo ha fatto soprattutto con la penna_. Ha, fra l’altro, fondato un giornale (Le conservateur de l’Aisne), una rivista (Le Règne du Sacré Coeur) e ha pubblicato vari libri non solo di carattere spirituale, ma anche di contenuto prettamente sociale. Fra questi non possiamo non ricordare, almeno, il “Manuale sociale cristiano” (1894), il “Catechismo sociale” (pubblicato nel 1898, Giuseppe Toniolo ha voluto che venisse tradotto, con una sua prefazione, anche in italiano), il “Rinnovamento sociale cristiano” (1900). In quest’ultimo volume, che, come tutti gli altri suoi scritti, è sempre stato di pubblico dominio, aveva raccolto anche le cinque conferenze romane da lui tenute dal 14 gennaio all’11 marzo del 1897, alla presenza di alti esponenti della curia vaticana e di numerosi ecclesiastici. Il tema generale di queste conferenze verteva sulle cause e i rimedi del malessere sociale contemporaneo e sulla missione sociale della Chiesa. Nella terza conferenza, dell’11 febbraio 1897, su “Il giudaismo, il capitalismo e l’usura”, ha affrontato soprattutto la “questione ebraica”, riproponendo e rielaborando quanto aveva già avuto modo di esporre precedentemente a questo riguardo. La fiducia del papa e l’autorevolezza di p. Dehon erano allora fuori discussione. Lo stanno a confermare il fatto che dopo essere stato ricevuto in udienza da Leone XIII il 21 gennaio, poi, a distanza di un mese dal termine delle conferenze romane, il 10 aprile, è stato nominato consultore della Congregazione vaticana dell’Indice.

 

INGIUSTIFICATE

OMBRE DI DUBBIO

 

Mentre i testi “contestati” risalgono, pertanto, ancora agli ultimi anni dell’ottocento, le prime esplicite accuse di antisemitismo non sono state mosse contro p. Dehon né durante la sua lunga esistenza, né nei primi decenni dopo la sua morte e neppure durante il lungo processo di beatificazione, iniziato ancora negli anni ’50. Dobbiamo risalire, invece, ai giorni nostri.

Il 24 marzo 2005, una settimana prima, quindi, della morte di Giovanni Paolo II, un’agenzia di stampa israeliana pubblicava, in esclusiva, un suo servizio denunziando esplicitamente un “antigiudaismo viscerale” presente in alcuni scritti di Leone Dehon e meravigliandosi che la Chiesa, all’inizio del 21° secolo, intendesse beatificare un “antisemita e antimassone” come lui. La stessa agenzia, il 7 aprile successivo, in piena sede vacante, ritornava sull’argomento e apriva il servizio dando per certo che la morte di papa Giovanni Paolo II aveva provocato «il rinvio sine die della beatificazione del canonico Leone Dehon», un “indubitabile divulgatore”, vi si diceva, del cristianesimo sociale di Leone XIII, ma anche un “virulento pamphlétaire antisemita”.

La decisione del rinvio sine die, invece, è stata ufficialmente presa e comunicata dalla Segreteria di Stato al superiore generale dei dehoniani solo nella prima decade di novembre del 2006. Questa decisione, ha commentato p. Ornelas in una sua lettera informativa ai membri del suo istituto religioso_ «non mette in causa la “luminosa” figura del fondatore, né «la sua preziosa attività apostolica». Con molta onestà, dopo aver precisato di essersi sempre scrupolosamente astenuti, come istituto, da pubbliche discussioni sull’argomento, anche per non compromettere i lavori di un’apposita commissione pontificia incaricata di studiare tutta la questione, ha aggiunto che per i dehoniani dovrebbe essere «molto più importante il chiarimento storico-letterario dei testi contestati di p. Dehon e il riconoscimento della verità, che non la sua stessa beatificazione». Certo, considerato il fatto che la beatificazione era già stata ufficialmente annunciata e che quindi un rinvio a tempo indeterminato poteva dar adito a “ingiustificate ombre di dubbio” sulla figura e sull’opera di p. Dehon, la decisione vaticana non era sicuramente una delle più “positive”.

Ciononostante, i dehoniani sono stati invitati dal loro generale ad accogliere la decisione «con serenità e in spirito di fede». Questi eventi, letti in una “prospettiva evangelica”, «non aggiungono né tolgono nulla» a quanto storicamente p. Dehon ha fatto per il bene della Chiesa e della società del suo tempo». Se ci si è attivati anche per un pubblico riconoscimento della sua santità, è stato fatto unicamente nella convinzione di poterlo così proporre a tutta la comunità ecclesiale «come modello e intercessore». Il rinvio della causa di beatificazione non esime il suo istituto dal continuare «a vivere e a offrire alla comunità ecclesiale e al mondo l’eredità spirituale che da lui abbiamo ricevuto, ritenendola un tesoro prezioso per il rinnovamento della congregazione e della Chiesa». Senza “rammarichi disfattisti” e senza “complessi paralizzanti” «continuiamo a lavorare, fraternamente e liberamente, al servizio del Vangelo, in questa Chiesa che amiamo».

 

QUEI FONDATORI

E ANIMATORI DEL SOCIALE…

 

Il superiore generale è pienamente consapevole delle “difficoltà” che una “lettura sprovveduta” dei testi, di fine ottocento, potrebbe ingenerare nei lettori, in un contesto come il nostro in cui, tra i problemi “più sensibili” non si può certamente non annoverare quelli del razzismo e dell’antisemitismo. Con molta lealtà riconosce esplicitamente “alcuni limiti” di p. Dehon, come «la mancanza di una critica accurata delle fonti citate e il facile ricorso ad alcune espressioni o pregiudizi comuni del suo tempo». E da parte nostra, potremmo anche aggiungere e lamentare il fatto che i suoi numerosi biografi abbiano fin troppo sottovalutato questo problematico capitolo della sua vita.

Detto questo, però, «non si possono accettare, come vere, le accuse di antisemitismo e di razzismo così come sono apparse nei mezzi di comunicazione sociale e anche nell’argomentazione di alcune persone della Chiesa». Queste accuse «non rispettano i principi elementari del contesto storico, né l’insieme del pensiero di p. Dehon e lasciano in ombra testi importanti per coglierne il vero significato». Infatti, andrebbe sempre chiaramente ricordato che l’oggetto centrale del suo pensiero è la “giustizia sociale” e non «i giudei o i massoni in quanto tali». Il fatto che queste due categorie di persone vengano frequentemente citate insieme sta a significare, in p. Dehon, l’assenza di qualsiasi forma di razzismo. Si può certamente anche non concordare con la sua analisi della società, ma «non è lecito deturpare il suo pensiero» e non vedere nel complesso dei suoi scritti un contributo importante per la presa di coscienza, da parte della Chiesa, della complessa questione economica e sociale del suo tempo.

A conferma di tutte queste valutazioni, è forse il caso di richiamare, da parte nostra, un passaggio del discorso che Benedetto XVI ha tenuto a Colonia il 20 agosto 2005, in un periodo immediatamente successivo alle “polemiche” sul p. Dehon. Parlando durante la veglia con i giovani, dopo aver accennato ad alcuni santi del passato (Benedetto, Francesco, Teresa d’Avila, Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo) e prima di ricordare alcuni santi del nostro tempo (Massimiliano Kolbe, Edith Stein, Madre Teresa di Calcutta e padre Pio), il papa ha fatto un riferimento, senza nominarli esplicitamente, «ai fondatori degli ordini religiosi dell’ottocento che hanno animato e orientato il movimento sociale». Non sappiamo se il papa alludesse anche a Leone Dehon. È certo, comunque, che una sintesi più efficace e storicamente più adeguata e pertinente di gran parte della sua opera e della sua vita non poteva essere tracciata.

 

LA RICERCA COMUNE

DELLA VERITÀ

 

È nell’interesse di tutti, osserva sempre il superiore generale, «proseguire la ricerca della verità storica su p. Dehon», augurandosi di poter continuare questo cammino di ricerca «in dialogo libero con quanti hanno voglia di capire, senza pregiudizi, la complessità della storia». Non è mai corretto rileggere il passato sotto la pressione di determinate “circostanze del momento”. La ricerca comune della verità, anche in questo caso, dovrebbe sempre essere alla base di ogni dialogo ecumenico e interreligioso, un dialogo nel quale, da sempre, anche i dehoniani sono direttamente “impegnati”. «Parecchi nostri confratelli hanno sofferto e pagato con la vita la denuncia dell’oppressione e la difesa dei perseguitati, anche giudei».

Non è mai corretto, ci permettiamo di aggiungere noi, “forzare” certi dati storici con indebiti e forse, a volte, anche strumentali accostamenti fra persone e situazioni diversissime le une dalle altre, così come è avvenuto nel caso di p. Dehon e di Pio XII. Il 9 giugno 2005 Benedetto XVI, a meno di due mesi dalla sua elezione, aveva ricevuto in udienza i rappresentanti delle principali organizzazioni ebraiche mondiali. Nel suo breve discorso si era impegnato a continuare con convinzione il dialogo interreligioso con gli ebrei avviato dai suoi predecessori. Commentando l’incontro, il rabbino David Rosen – da quanto è stato riferito dal quotidiano torinese “La Stampa” del 10 giugno 2005 – facendosi portavoce del mondo ebraico, dopo aver ringraziato il papa per quanto aveva detto, si era però permesso di fargli notare che l’eventuale beatificazione di Pio XII sarebbe stato considerato un «atto di insensibilità voluta». Non solo, ma che “un analogo discorso” lo si sarebbe potuto fare anche nei confronti di p. Dehon.

Fortunatamente, però, non tutti gli ebrei la pensano allo stesso modo. Sono ben note le recenti polemiche scatenate dalla didascalia posta a fianco della foto di Pio XII nello Yad Vashem di Gerusalemme. Commentando l’episodio, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni – da quanto apprendiamo sempre dallo stesso quotidiano torinese del 13 aprile 2007 – ricollegandosi, crediamo, e prendendo in parte le distanze da quanto detto da David Rosen, aveva tenuto a precisare che «la beatificazione di Pio XII è oggettivamente un ostacolo al dialogo, molto più di quanto non lo fosse quella rinviata di p. Dehon per i suoi scritti antisemiti».

Da oltre 130 anni i figli di p. Dehon, precisa il superiore generale dei dehoniani, hanno continuato a gettare il “buon seme” del suo patrimonio spirituale, del suo impegno ecclesiale, sociale e missionario nella Chiesa e nella società lontanissimi da certe posizioni “razziste” che invece oggi gli si vorrebbero imputare. Certo, anche nella vita di p. Dehon e in quella del suo istituto, come in tutte le realtà ecclesiali, non mancano “limiti ed errori”. Ma sono i limiti e gli errori «propri delle persone che si impegnano nella storia e non temono di sporcarsi i piedi nei sentieri dell’umanità».

La causa di beatificazione di p. Dehon, è stata rinviata “sine die”? Non è sicuramente questo, almeno per i dehoniani, il problema più importante. Anzi, perché non vedervi uno “stimolo” per una maggiore conoscenza della sua figura, della sua opera, in una parola, della sua “eredità spirituale”, senza lasciarsi condizionare da nessuna paura e da nessun complesso? È una “sfida” in più, rispetto alle tante “sfide” di fronte alle quali si trovano oggi tanti istituti di vita consacrata. Se assunta consapevolmente, come un “appello dello Spirito”, non potrebbe che «rinnovarci e rinnovare la nostra missione nella Chiesa e nel mondo».

 

Angelo Arrighini

1 Ledure Y., Un prete con la penna in mano. Leone Dehon, EDB, Bologna 2005.

2 Cf, Il Regno-documenti 5 (2007).