MARIA ROSA PELLESI BEATA
COME ORO NEL CROGIOLO
Visse 27 anni di
grave malattia, senza mai lamentarsi. Lei stessa scrisse: «Sia benedetto il
Signore che _mi concede la grazia di un pochino della sua santa Croce e mi dà
la grande grazia di portarla _nella pace…come dono, non come peso». E ancora:
«Sono tanto felice che mi pare impossibile _esserlo di più».
Maria Rosa Pellesi (1917-1972) delle suore Francescane Missionarie di
Cristo è stata proclamata beata. La solenne funzione, presieduta dal
cardinale José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione delle cause dei
santi, ha avuto luogo il 29 aprile scorso nella basilica cattedrale di Rimini,
ossia nella chiesa locale, dove risiede la casa madre della sua congregazione,
secondo le recenti disposizioni di Benedetto XVI.
Hanno preso parte alla celebrazione anche due cardinali e una quindicina di
vescovi di varie nazioni, oltre a decine di sacerdoti.
Vera sposa di Cristo crocifisso, Maria Rosa ha seguito Gesù, con la
docilità dell’amore, sulla via stretta della croce, attraverso una sofferenza
che è andata via via accentuandosi fino al compimento finale. Sempre serena e
abbandonata nelle mani di Dio, ha vissuto l’intera sua esistenza in un continua
costante atto di offerta. Con piena ragione, avrebbe potuto ripetere con Paolo:
«Sono lieto(a) delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne
quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la
Chiesa» (Col 1,24). A riconoscere l’eroicità delle sue virtù è stato lo stesso
Benedetto XVI, firmando il 26 giugno 2006 il decreto per la sua beatificazione.
La sua vita è tutta incastonata nel panorama disadorno e monotono del
sanatorio che non lascia margine alla creatività e dove i giorni, gli anni si
perdono nell’indifferenza del calendario; eppure è inconfondibile e forte il
fascino che promana dalla sua fisionomia di cristiana e di consacrata: un apice
di bellezza e di felicità che ha un nome: santità.
Per i criteri del mondo, Maria Rosa non è certo stata avvantaggiata nella
fedeltà al Signore. Più la malattia portava scompiglio nel suo corpo, più il
Vangelo si faceva strada nella sua debolezza e la rendeva luminosa e lieta,
come se consolata dal più dolce appagamento. Era invece in sanatorio,
microcosmo con ritmi e riti propri, a mezza via tra la reclusione e la
clausura; luogo temibile dove la parola contagio non era uno spauracchio ma un
pericolo reale – ma anche luogo sacro, perché vi abitava il dolore. Ma la vita
di suor Maria Rosa non è stata una favola triste, è stata un rapporto d’amore
drammatico e stupendo: ventisette anni di travaglio interiore e di patimenti
fisici; appena elaborata una sofferenza ne sorgeva puntualmente un’altra,
inderogabile e peggiore; lei pativa ma non cedeva allo smarrimento, fieramente
in corsa, quotidianamente in lotta, costantemente protesa al dono e alla fatica
dell’amare, dell’offrire e dell’offrirsi. Il cuore innamorato appiana sempre la
strada all’Amore.
COMINCIÒ PRESTO
A SOFFRIRE
Suor Maria Rosa Pellesi nasce a Morano di Prignano, sulle morbide e
soleggiate colline modenesi, l’11 novembre 1917, da Attilio e Rosa Ternelli,
ultima di nove fratelli, e viene chiamata Bruna. Trascorre l’infanzia e la
giovinezza nella più genuina tradizione contadina e nell’intensa fede cristiana
della sua famiglia che impregna i suoi giorni di preghiera, di lavoro e di
canto.
Nel 1940, a 22 anni, entra in convento a Rimini, presso le suore Terziarie
Francescane di Sant’Onofrio e l’anno seguente veste il saio francescano col
nome di suor Maria Rosa di Gesù. Il suo carisma personale, il suo compito umano
sulla terra: sarà quello di essere “di Gesù”. «Che Gesù agisca per costruire
sulle macerie della mia miseria, quel capolavoro che egli si è prefisso fin
dall’eternità». Inizia il noviziato con zelo e radicalità impressionanti. Nel
1942 emette i voti temporanei, frequenta un corso accelerato di scuola
magistrale presso l’istituto delle Maestre Pie in Rimini e subito dopo viene
mandata all’asilo Sant’Anna di Sassuolo come insegnante. Vi rimarrà tre anni. È
appena finita la guerra e i tempi sono duri. Instancabile, suor Maria Rosa
sostituisce le sorelle nei servizi più pesanti adducendo che è abituata alle
fatiche della campagna. Nell’estate 1945, è mandata a Ferrara, poi a Tamara di
Ferrara. I disagi e la povertà estrema mettono definitivamente alla prova la
sua salute e si manifestano i primi sintomi della malattia. Le verrà
diagnosticata una lesione polmonare e dal 1945 al 1948 rimarrà nel sanatorio
“Pineta” di Gaiato.
All’alba della sua vita religiosa fu quindi isolata sia per essere curata,
sia per evitare il contagio ma non fu la tubercolosi e neppure la crudezza
della vita a isolarla; fu lo Spirito del Signore. La separò da una condizione
ordinaria per porla in quella ottimale, al fulcro di un Amore travolgente che
dall’eternità la voleva trasfigurata e santa. Non tolta di mezzo, quindi, ma
messa a parte, consacrata, riservata all’esclusivo possesso del suo Signore,
perché egli potesse amarla e colmarla a suo piacimento.
A due giorni dal ricovero i medici iniziano la terapia con lo pneumotorace,
ma la terapia fallisce come fallirà anche l’incisione chirurgica al torace due
anni dopo, con esiti di seria pleurite essudativa. La sua salute è così
compromessa che il 31 agosto 1947 viene anticipata la sua professione perpetua
in sanatorio e dirà: «Quanta gelosia c’è in queste due parole: tutta e sempre.
Ma per realizzarle, quanto soffrire! Io dico ogni giorno a Gesù: rubami il
cuore, rubamelo senza pietà. Prendilo anche se io a volte ne vorrei tenere un
po’».
UN SUSSEGUIRSI
DI INTERVENTI
Da Gaiato, passa il 7 dicembre 1948 al “Pizzardi”, oggi Ospedale Bellaria,
ma la situazione non migliora. La toracentesi, prima settimanale, diventa
quotidiana. Dalla cartella clinica sono rilevabili più di due mila toracentesi.
Un giorno del 1955, si spezzerà l’ago nella parete toracica. Falliranno gli
interventi al Sant’Orsola per estrarre il frammento; lei porterà la sua
“spada”in petto fino alla morte. Questa sarà la sua Verna: il serafino alato,
dalle frecce scelte, dalla mira giusta, già mandato dall’Onnipotente a
trasverberare il cuore di san Francesco le annuncia il martirio del cuore.
Infatti, mentre i referti medici documentano l’inesorabile accanirsi del male,
lei coglie le carezze del suo Signore.
Con un intervento chirurgico nel 1959 viene introdotto un sondino
endocavitario permanente che porterà per tredici anni. L’estrazione del pus
avviene cinque volte al giorno. È letteralmente liquefatta dal Signore.
Inabissa lo sguardo in quello di Gesù Crocifisso, accosta la bocca al calice
cui beve lo Sposo e le sue labbra si tingono di porpora. Non è più sanatorio, è
Golgota.
Nell’inverno 1965 si produce l’empiema pleurico che la rende maleodorante;
deve essere isolata: situazione imbarazzante. L’amor proprio è schiacciato,
umiliata la sua riservatezza. Il morbo è inesorabile, ma lei gli ha imposto un
limite: la gioia, costante ma ardua, che si solleva come un’onda cristallina
dal mare plumbeo dell’umiliazione e dell’impotenza, e si manifesta sul volto
con un umile, inconfondibile segno: il sorriso. L’amore la spreme nel frantoio
per renderla olio vergine di prima spremitura e la inchioda a quello che lei
chiama «il mio letto tanto caro». Ripeterà spesso: «Il mio cuore sta sotto il
torchio anche se sono felice, tanto, tanto tanto felice».
All’orario ospedaliero che sminuzza e riempie i giorni con implacabile
precisione lei frappone, con perfezione da certosina, i tempi della preghiera
cui è fedelissima. Ha assecondato la potatura per andare alla radice del suo
esistere e scoprire nel midollo della prova la fecondità del soffrire per grazia:
«Si succedono come litania senza fine, sorella febbre, influenze, coliche,
broncopolmoniti, interventi chirurgici, indebolimento della vista, il cuore che
impazzisce. Gesù è tutto per me, sono felice anche se ho il cuore stretto in
una morsa di ghiaccio».
IL CONVENTO
IN SANATORIO
Nel 1969, le sorelle riunite in capitolo speciale cercano una nuova
denominazione per la Congregazione. Lei fa la sua proposta, che viene
accettata: Suore Francescane Missionarie di Cristo. La sua appartenenza alla
famiglia religiosa trova qui conferma lampante, come pure la sua adesione al
carisma della madre fondatrice, suor Teresa di Gesù Crocifisso.
Lei, fuori, ha vissuto con noi, come noi e forse più di noi la vita
fraterna; assente ma presente, perché solo con il corpo era stato separata
dalle sorelle, il suo cuore era rimasto ancorato al porto. Per lei il sanatorio
era un transito, la sua casa era il convento. Lei era il respiro ampio, la
freschezza mentale, la nobiltà d’animo. Con memoria amante si calava in ogni
difficoltà e assumeva ogni servizio; le ore avanzavano sulla meridiana della
vita e lei, pensando alle sue sorelle si faceva lavandaia, insegnante,
portinaia, cuciniera, missionaria. «Ogni giorno, mettendomi spiritualmente
dinanzi a Gesù Sacramento faccio il giro di tutte le case del nostro istituto e
a lui dico i bisogni di tutte e di ciascuna in particolare».
IL COMPIMENTO
E LA BEATIFICAZIONE
Un giorno le viene messa in camera sua una prostituta gestante in
gravissimo stato con sua figlioletta. Poco dopo nasce un bimbo che morirà. Lei
si aggrava e per prudenza si pensa di trasferire suor Maria Rosa, che si
oppone: «Voglio seguirla fino all’ultimo, non si preoccupino per me». La malata
emanava un fetore insopportabile ma suor Maria Rosa pareva quasi non avvertirlo,
sempre pronta, sempre sorridente.
I suoi giorni e le sue notti erano alternativamente sezionati e unificati
attorno a due ritmi: quello delle terapie – come nel miglior ospedale – e
quello della liturgia e della carità, come nel miglior convento. È l’agnella
che aderisce all’Agnello, è tutta viscere di misericordia e di pace. È la
“paziente” che tutti vorrebbero avere: medici e degenti.
Dotata di sottile e sicuro intuito, suor Maria Rosa coglieva i gemiti
dell’anima: era il tormento di chi aveva contagiato i propri cari; la
disperazione di chi non voleva più vivere ma che aveva paura di morire; l’odio
contro Dio accusato di rubare la giovinezza, l’angoscia delle madri separate
dai loro figli, delle nozze spezzate, delle maternità negate. Lei andava al nodo
del patire, in punta di piedi, senza mettere a nudo il cuore. Erano mille i
volti, mille i nomi custoditi nella sua preghiera e tenerezza, tutti invitati
alla sua mensa, tutti incorporati alla sua preghiera. Si sentiva insignificante
ma utile, “coccio” ancora servibile. Non si sforzava più di mettere Gesù al
centro: c’era già; lei soltanto retrocedeva perché risaltasse lui. Un ponte,
contento di essere attraversato.
Suor Maria Rosa aveva detto un giorno: «Se Gesù mi guarisse, la mia vita
sarebbe tutta per le missioni, ma sono tutta sua e per sempre, faccia lui». Si
aggrava nell’ottobre 1972 proprio mentre stanno partendo le prime cinque
missionarie per l’Etiopia. Le superiore decidono di riportarla “a casa”
all’Istituto san Giuseppe di Sassuolo. Con un fil di voce regala il distillato
del suo cuore: «Lo dico in un momento in cui non posso tradire... quello che
conta è amare il Signore. Sono felice perché muoio nell’amore, sono felice
perché amo tutti». E ancora: «Vorrei dare un bacio a tutta l’umanità». Spira
all’ora del Magnificat il 1° dicembre 1972.
15 ottobre 1988. Nel cortile della casa madre a Rimini, suor Fiorenza
Manzan, 51 anni, salita su una piccola scala, afferra con troppa forza un ramo
di caco, perde l’equilibrio e cade sul selciato: frattura cranica,
pneumoencefalo, fratture alla clavicola e di alcune costole a cui si aggiungerà
in seguito una meningite acuta da pseudomonas aeruginosa. Le sorelle tutte
iniziano una catena di preghiera a suor Maria Rosa per ottenere la guarigione.
Pregano anche i bambini e i genitori delle scuole, gli anziani ospiti delle
case di riposo. Nella notte tra il 30 e il 31 ottobre si manifesta un radicale
miglioramento dell’ammalata fino a guarigione completa. Nessun postumo nessun
danno permanente sia di tipo intellettivo che neurosensoriale.
Nel sanatorio, terra di nessuno, con poco spazio e troppo tempo, dove anche
la degenza di decenni non ha potuto spegnere la fretta di tornare a casa; su
quella zattera troppo lenta, dove centinaia di degenti hanno racimolato le minute
forze per traghettare, suor Maria Rosa è rimasta sola, sospesa nel vuoto di una
giovinezza spezzata, stella solitaria nella notte siderale, a consumare la sua
storia d’amore e a crescere i figli del Padre. Nascosta per ventisette anni,
senza mostrare di esistere, ha navigato al largo, sulla rotta di Dio, come un
magnifico vascello dalle vele dispiegate. In apparenza la più povera era invece
ricca di bellezza. Per ospitare l’onnipotenza dell’amore il suo cuore si è
fatto trasparente come un fondale marino, la sua casa è stata quella
dimenticata da tutti: l’interiorità; e quale dote da sposa ha stretto al petto
il tesoro rifiutato dal mondo: il Crocifisso.
Suor Maria Rosa aveva detto: «Ho iniziato la mia vita sanatoriale
piangendo; ma ho chiesto al buon Dio di terminarla cantando le sue
misericordie, e sento che sarò esaudita».
Suor Maria Gabriella Bortot
Sup. gen, suore Francescane
Missionarie di Cristo – Rimini