CHIAMATI PER ESSERE INVIATI

LA MISSIONE RICHIEDE L’AMORE

 

L’anima della missione è l’amore di Dio. È questo amore che ci spinge ad uscire dal nostro piccolo io, per incontrare gli altri. La missione sta nel trovare gli altri nell’amore, andare loro incontro nell’amore. Essere inviati da Gesù nell’amore verso gli altri fa parte dell’identità stessa dei suoi discepoli.

 

La missione trae origine dal mistero di Dio che è amore (1Gv 4,16), dal suo amore traboccante e infinito verso l’intera umanità e la creazione.1 Nella «pienezza dei tempi» questo amore ha inviato Gesù in mezzo a noi (cf. Gn 3,16). Gesù è un “inviato” dal Padre. La missione fa parte dell’identità di Gesù. Non c’è che una sola missione: la missione di Dio, dell’amore di Dio che si estende a tutto il genere umano e alla creazione. Ne deriva che la missione è ciò che Dio fa, ciò che Dio compie nel suo amore. In molti modi Dio precede la Chiesa e i suoi missionari nell’amare gli uomini. Dio è in missione fin dalla creazione.

Un tempo pensavamo che le tradizioni religiose diverse dal giudaismo e dal cristianesimo non fossero che dei modi e degli sforzi umani o dei tentativi di raggiungere Dio. Ma, forse, siamo più vicini alla verità se pensiamo che queste tradizioni sono dei modi e dei mezzi impiegati da Dio nel suo ineffabile amore, per raggiungere tutti gli uomini. Missione vuol dire scoprire il mistero e la bellezza dell’amore di Dio per persone che non sono familiari alla nostra tradizione cristiana. In certo senso, «la missione consiste nel­l’indi­care alla gente che l’amore di Dio esiste già nella loro vita».

 

CERCARE L’ALTRO

NELL’AMORE

 

Seguire Gesù vuol dire condividere la sua vita e la sua missione. Coloro che Gesù chiama, li sceglie per inviarli agli altri a predicare il Vangelo (cf. Mc 1,18; 3,14). Il discepolato cristiano è un discepolato in missione. Tutti i cristiani partecipano alla missione di Dio. Ciò è reso possibile dall’amore di Dio che viene a noi e ci unisce a Cristo e ci invia agli altri affinché portiamo frutto (Gv 15,7). È questo amore che ci spinge a uscire dal nostro piccolo io, dal nostro mondo di egoismo, dalla nostra vita di tranquillità e sicurezza, dalle nostre case per incontrare gli altri. Perciò la missione sta nel trovare gli altri nell’amore, andare loro incontro nell’amore.

Essere inviati da Gesù nell’amore verso gli altri fa parte della identità stessa dei suoi discepoli.

Con o senza un movimento geografico da un luogo all’altro, o da una nostra cultura ad un’altra, è questa identità e questa coscienza a rendere uno missionario. In questo senso ciascun cristiano, ogni religioso è un missionario, a prescindere dal luogo in cui svolge il servizio al Vangelo. La stessa cosa vale anche per i monaci e le monache di clausura. Nonostante siano dentro le mura dei monasteri, essi vivono una vita di amore per gli altri, per la Chiesa e il mondo.

Ogni religioso, infatti, ha approfondito la propria identità missionaria in forza della sua consacrazione. Mediante la professione, uno si consacra a Cristo e alla sua missione di annunciare il regno di Dio agli altri. Non basta annoverare la missione come un valore fra gli altri della vita religiosa.

Piuttosto, essa deve essere ritenuta come il valore primario, vale a dire, come l’elemento organizzatore attorno a cui sono orientati tutti gli altri elementi della vita religiosa. «Questo compito di donarsi interamente alla “missione” è implicito perciò nella loro chiamata; in effetti, mediante l’azione dello Spirito Santo che è all’origine di ogni vocazione e di ogni carisma, la vita consacrata stessa è una missione, come è stata tutta la vita di Gesù».

Il modo di essere che il religioso deve recuperare oggi è di sentirsi inviato agli altri, di essere consapevole di dover vivere la propria vita per gli altri nell’amore.

 

AMARE GLI ALTRI

NELLA LORO ALTERITÀ

 

Ci sono oggi molte sfide della missione che ci obbligano a ri-visitare la missione e a ri-orientarci ad essa. Vorrei sottolinearne una che mi sembra della massima importanza per la missione: la sfida più grande della missione oggi è come amiamo gli altri. «Quando diciamo gli altri, intendiamo delle persone viste nella loro diversità. In questo senso, ciascuno, anche il prossimo più vicino, è irriducibilmente un altro. La stessa cosa vale per le società, le culture, le religioni che non sono le nostre». Per quanto riguarda l’amore, nella missione l’altro ci precede. La missione come amore è definita dalla qualità del rapporto con l’altro.

Più che in passato, oggi siamo confrontati con la forte diversità, e la totale “alterità” dell’altro. Questo è vero non solo in senso numerico ma anche qualitativo. Quando siamo mai stati messi così fortemente a confronto con la realtà della diversità?

Ci rendiamo conto di come la diversità ha energicamente resistito, e della nostra incapacità di vivere con la diversità? Il nostro è un mondo di arretramento nell’identità primaria, di odio dell’altro, del culto di sé.

Sembra che la resistenza alle diversità sia in aumento oggi, con le sue fosche punte di spietata imposizione, da una parte, e di violento terrorismo dall’altro, un segno questo della incapacità del mondo contemporaneo di trattare in maniera sana le differenze.

L’Asia è un’area ampiamente segnata da grandi differenze. La nostra regione è il luogo delle più grandi religioni del mondo e delle più piccole tradizioni religiose che esistono una accanto all’altra. Esso ospita un’ampia gamma di culture uniche e ricche, grandi e piccole, antiche e moderne. Ampie diversità sociali, politiche ed economiche separano dei paesi tra di loro e la gente entro una stessa nazione. Nella nostra area sono presenti i ricchi e i poveri, i deboli e i potenti, gli aderenti a vedute ideologiche e politiche divergenti.

In passato, e in certa misura anche oggi, la missione si attuava da una posizione di superiorità, di arroganza, di negazione, o di violenza in presenza della alterità e della diversità. Ma, se la missione significa amore, il modo con cui ci rapportiamo o incontriamo gli altri costituisce il problema primario della missione nel nostro tempo. Di fronte alle differenze dobbiamo resistere alla tentazione di ridurre gli altri a noi stessi o di plasmarli a nostra immagine. L’amore insegna ad amare gli altri per quello che sono, in maniera unica e diversa da noi. Di qui la sfida di fondo della missione oggi: come amare gli altri nella loro alterità.

 

IMPLICAZIONI

PER LA FORMAZIONE

 

Quali sono le implicazione di quanto è stato detto sopra per la preparazione dei missionari?

Se la missione appartiene primariamente a Dio e a ciò che egli nel suo amore opera per il mondo, allora la prima risorsa spirituale dei missionari è la loro esperienza personale dell’amore di Dio.

Essi devono avere fatto l’esperienza di come Dio nelle sue vie misteriose li ha raggiunti personalmente, li ha abbracciati nel suo amore e li ha fatti suoi eletti. Senza questa esperienza fondazionale di Dio sarà difficile per loro raggiungere gli altri nell’amore. Inoltre, potrà essere difficile per loro vedere che l’amore di Dio è vivo e operante anche nella vita degli altri.

Siccome Dio occupa il primo posto nella missione è necessario che i missionari siano uomini e donne di Dio, persone di preghiera.

Dio e i suoi interessi occupano il posto centrale e se essi vogliono mettere la loro vita al servizio dell’azione di Dio nel mondo, non possono che sforzarsi di crescere nel loro rapporto intimo con Dio, di sintonizzare i loro cuori e le loro menti con la volontà di Dio e cercare di adempiere alle sue richieste. Sono spronati a essere sensibili alla presenza di Dio e alla sua azione nella vita delle persone e nel mondo, e a diventare persone spirituali. In caso contrario potrebbero pensare che la missione consista primariamente in ciò che essi fanno anziché in quello che Dio fa.

Ciò equivale a dire che abbiamo bisogno di missionari che siano imbevuti di contemplazione. Questa ci radica in Dio e ci dona la capacità di vedere l’attività amorosa di Dio verso la gente e il mondo. Inoltre, ci motiva a partecipare all’azione di Dio, secondo una bella espressione di Yves Congar «così che posso essere là dove Dio mi aspetta, il tramite tra la sua azione e il mondo».

Questa è la ragione per cui oggi si mette una così grande enfasi sul ruolo della contemplazione nella missione. Come ebbe a dire Giovani Paolo II: «Un missionario che non abbia una profonda esperienza di Dio nella preghiera e nella contemplazione avrà poca influenza spirituale o successo nel ministero. Si tratta di una riflessione che traggo dalla mia personale esperienza sacerdotale e, come ho scritto altrove, il contatto con rappresentanti delle tradizioni spirituali non cristiane, particolarmente quelle asiatiche, mi ha confermato nel convincimento che il futuro della missione dipende in grande misura dalla contemplazione» (Ecclesia in Asia, 23).

Siccome noi partecipiamo alla missione di Dio diventando tramite della sua azione amorosa nel mondo, allora la virtù più essenziale ai missionari è la virtù dell’amore. C’è una sola virtù della carità: l’amore di Dio e l’amore del prossimo che costituiscono un unico e singolo movimento dell’amore divino. Un missionario è chiamato a diventare una persona che ama. Solo una persona che ama può effettivamente condividere l’amore di Dio verso gli altri. La virtù della carità è un dono di Dio, come afferma Paolo, che «è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Ma se si vuole che questo dono operi nella nostra vita dobbiamo avere una corrispondente capacità umana di amare, il cosiddetto amore di amicizia, un amore maturo verso gli altri. San Tomaso d’Aquino spiega che il nostro rapporto con Dio ha la natura di un amore di amicizia. La carità è l’amore di amicizia di Dio nei nostri riguardi e l’amore di amicizia di una persona nei riguardi di Dio.

Gesù ci chiama “amici” e ci ama come “amici” e ci chiede di «amarci gli uni gli altri» («come lui ci ha amato», Gv 15,14-17). Perciò la benevolenza verso gli altri «è il cuore della missione». I missionari, con il loro amore di amicizia, più che con ogni altra cosa, attirano i cuori a Cristo. Se la missione oggi significa amare gli altri nella loro alterità, allora abbiamo bisogno di missionari formati al dialogo, un valore tanto necessario oggi per onorare l’alterità dell’altro. Il passaggio dall’imposizione o dal confronto al dialogo costituisce una sfida quanto mai cruciale della missione. Questo è particolarmente vero in Asia. Noi siamo provocati a entrare in dialogo con le culture, le tradizioni religiose e le realtà socio-economiche della gente, soprattutto dei poveri.

Il dialogo richiede soprattutto un’ «apertura per imparare dall’altro». Recentemente sono stato in Giappone a visitare i Fratelli. Ho chiesto a uno di loro, missionario da 49 anni, che consiglio darebbe a chiunque voglia andare in missione. Mi rispose andando giù dritto: «Uno dovrebbe andare in missione non per voler insegnare ma per imparare». Questo mi sembra il primo requisito del dialogo, la convinzione e la volontà di imparare dagli altri: la lingua, la cultura, la tradizione religiosa, la storia, la filosofia e le realtà socio-economiche. Si tratta di una sfida ardua, dell’esperienza sofferta di imparare nuovamente da zero, di essere un mendicante della verità dell’altro. Ma questo è l’unico modo di entrare nel “mondo”, nel mistero dell’altro, se si vuole amare gli altri nella loro alterità.

Il dialogo chiede anche ai missionari di cercare di conoscere il contesto sociale della gente che servono. Meglio è se essi si abituano e si impegnano a conoscere e comprendere il contesto e i bisogni della gente. In caso contrario, uno si limita a fare solo ciò che pensa o che vorrebbe (e questa è di gran lunga la cosa più facile da fare), ma non risponderebbe ai veri bisogni della gente.

Il dialogo non impedisce al missionario di condividere le sue più care convinzioni e i suoi valori. Non vuol dire in alcun modo dimenticare o nascondere la sua unica identità di discepolo di Cristo. Ma, come il Maestro, lo può fare meglio con la sua vita di testimonianza, specialmente nella nostra area geografica, dove la gente si lascia persuadere più dalla santità di vita che dal ragionamento intellettuale. Un fuoco può essere acceso da qualcosa che già è acceso. Il modo più efficace per noi cristiani di condividere la nostra fede, rispettando la libertà degli altri, consiste semplicemente nell’essere veri a ciò che siamo. I missionari sono spronati a diventare testimoni autentici dell’amore di Dio. La migliore testimonianza che possono offrire è la qualità delle loro azioni e relazioni amorose verso tutti coloro che incontrano. In questo amare gli altri nella loro alterità, Gesù stesso è nostro modello. Quando il divin Figlio fu inviato a noi per amore del mondo, egli era in missione (Gv 3,16) e ha reso un immenso omaggio alla nostra alterità. Si «è fatto carne» e «ha piantato le sue tende in mezzo a noi» (Gv 1,14). «Spogliò se stesso» e «non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio» (Fil 2,6): egli è venuto per “servire” Mc 10,45) e a dare la vita per i suoi amici (Gv 15,45). In effetti egli ha percorso un lungo cammino nell’accogliere l’alterità. In vita e in morte, ossia per dare a noi in pienezza la sua vita egli «spogliò» pienamente se stesso della sua divinità. Ma mediante questo suo abbraccio amoroso della nostra alterità egli poté salvarci e portare la vita al mondo.

 

1 Da: Quirico T. Pedregosa, «The Love that is Mission», SEDOS 3/4 (2007).<<inizia una nuova colonna>>