GRIDO DI ALLARME DI MONS. SAKO
UN IRAQ SENZA CRISTIANI?
In Iraq i cristiani
stanno morendo, la chiesa sta scomparendo sotto i colpi di persecuzione,
minacce e violenze da parte di estremisti che non danno scelta: o la
conversione o la fuga e le croci vengono tolte dalle chiese; su tutti pende la
minaccia di rapimenti e ricatti. La situazione è ormai insostenibile.
Chiese chiuse, autobombe, conversioni forzate, rapimenti, non solo a
Baghdad, ma anche a Ninive. E intorno a Pasqua, l’arcivescovo caldeo cattolico
di Kirkuk, mons. Louis Sako, ha lanciato non un appello ma un vero e proprio
grido di allarme sulla tragica situazione dei cristiani, chiedendo una
soluzione politica e non militare. Grido ripreso e riportato in Occidente
dall’agenzia Asia-News, del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime). «In
Iraq i cristiani stanno morendo, la Chiesa sta scomparendo sotto i colpi di
persecuzione, minacce e violenze da parte di estremisti che non danno scelta: o
la conversione o la fuga», ha detto mons. Sako che è presidente del Comitato
per il dialogo interreligioso del Consiglio delle Chiese cattoliche in Iraq.
Il vescovo ha firmato una dichiarazione sulla “tragica situazione dei
cristiani a Baghdad”, denunciando gruppi che sotto la minaccia delle armi
chiedono ai cristiani l’immediata conversione all’islam o la fuga e la confisca
dei beni. A Mosul succede lo stesso, ma imponendo un’altra scelta: pagare un
tributo in denaro ai gruppi fondamentalisti se non si vuole essere uccisi.
Da tempo la comunità cristiana irachena, in patria e all’estero, aspettava
una presa di posizione della chiesa locale, soffocata da rapimenti, ricatti e
intimidazioni, ormai senza più protezione né da parte del governo né da parte
delle forze di coalizione. E mentre si fa più concreto il controverso piano di
istituire una regione sicura per i cristiani nella zona di Ninive, proprio qui
i terroristi hanno colpito dopo Pasqua. «Quasi un gesto politico – ipotizza
mons. Sako – come dire che possono colpire ovunque e che nessuna regione è sicura».
Gli attacchi su base confessionale avvengono ormai non solo a Baghdad e a
Mosul, ma anche in piccoli centri abitati del nord. Sempre nei giorni di fine
aprile, un gruppo di fondamentalisti ha giustiziato 23 yazidi sulla strada da
Mosul a Ba’ashika, un villaggio a maggioranza cristiano: hanno fermato
l’autobus di linea e dopo aver fatto scendere arabi e cristiani hanno ucciso i
fedeli di questa religione molto antica, basata su un forte dualismo Bene-Male.
Poi un’autobomba è esplosa vicino a una scuola a Tell-el-skop, villaggio
completamente cristiano: sono morte 9 persone, fra cui 2 bambini; 60 sono
rimasti feriti. Il convento delle suore domenicane, che si trova nelle
vicinanze, ha subito danni gravissimi. «Non possiamo più tacere – ha spiegato
mons. Sako raggiunto al telefono da AsiaNews – bisogna ricordare alla comunità
musulmana in Iraq e a tutto il mondo l’importanza della presenza cristiana nel
paese, per il bene di tutti». «I cristiani sono una delle componenti più
antiche della popolazione irachena – si spiega nella dichiarazione – fin
dall’inizio si sono fusi con altre realtà come gli arabi, i curdi, i turcomanni
e gli yezidi; hanno fatto da pionieri nella civilizzazione dell’Iraq. Inoltre
hanno sempre difeso l’integrità del paese in modo coraggioso insieme ai loro
fratelli musulmani.
Nell’attuale situazione i cristiani sono presi di mira come un capro
espiatorio, da sfruttare o da eliminare. Non possono professare la loro fede
liberamente, alle donne viene imposto il velo e le croci vengono tolte dalle
chiese, su tutti pende la minaccia di rapimenti e ricatti. Mons. Sako ha poi
svolto un impressionante elenco di violenze: «Oggi i cristiani in certe zone
dell’Iraq soffrono per emigrazione, stupri, rapimenti, pagamenti di riscatti,
minacce e uccisioni perpetrate con moventi religiosi. Questo comportamento
inusuale contraddice i valori umanitari del popolo iracheno e quelli morali
della religione islamica. È necessario capire che un Iraq senza cristiani sarà
disastroso per tutti gli iracheni!...Costringere i cristiani alla fuga porta al
deterioramento del concetto di coesistenza e alla distruzione culturale, civile
e religiosa di un mosaico di etnie e religioni di cui l’Iraq è considerato la
culla».
Nell’appello, mons. Sako chiede a tutte le autorità religiose e politiche e
a tutti i cittadini iracheni di rimanere uniti, perché «non esiste salvezza
senza la nostra unità e il nostro venirci incontro. Lasciate che gli elementi
esterni in Iraq vadano via o restino in modo che il pericolo della morte e il
rischio di una divisione scompaiano per lasciare posto al ritorno della vita».
A conferma ulteriore, se possibile, della gravità della situazione, dopo
Pasqua mons. Sako in una dichiarazione resa all’agenzia Sir, della Conferenza
episcopale italiana, è ritornato sugli eventi e ha detto di nuovo che «la
tensione religiosa e il fondamentalismo diventano sempre più pericolosi.
Dobbiamo accettarci a vicenda e ammettere le nostre differenze. Nessuno ha più
fiducia. Insieme, cristiani e musulmani, dobbiamo ripartire da zero e
ricostruirla».
Per il futuro dei cristiani in Iraq, il presule si dice convinto che «gli
americani hanno un piano, ma non sappiamo di cosa si tratti, ma che cercheranno
di attuarlo. Noi iracheni non abbiamo alcuna idea sul nostro futuro, viviamo
nella paura e nell’attesa e speriamo che domani sia migliore». Della
possibilità di una enclave cristiana in Kurdistan mons. Sako afferma che su
questo punto «non esiste una strategia ecclesiastica, né una visione futura.
C’è soltanto un vuoto enorme. La nostra gente vive all’estero e nella zona del
Kurdistan e prende decisioni al di fuori della Chiesa. La chiesa locale di
quelle aree non riesce a promuovere attività pastorali, nemmeno per casi di
emergenza». Per mons. Sako il futuro dell’Iraq non risiede in «una soluzione
militare» ma è «la politica la sfida più grande: gli iracheni dovrebbero
negoziare e cercare la riconciliazione, altrimenti la divisione del paese
diventerà uno status quo».
Proprio negli stessi giorni, la Commissione Usa per la libertà religiosa
internazionale (Uscirf), in un rapporto al Dipartimento di stato ha ribadito
che servono decise e urgenti azioni per proteggere le minoranze religiose in
Iraq. Stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr)
parlano di 1,8 milioni di persone che hanno abbandonato le loro case e si sono
trasferiti in altre zone del paese e di 2 milioni di rifugiati all’estero. È
forse utile ricordare che molti di questi sfollati e rifugiati appartengono
alla minoranza cristiana, da tempo nel mirino degli integralisti islamici e di
criminali comuni che sfruttano la situazione caotica in cui versa l’Iraq per le
loro attività illecite. I dati, largamente provvisori, parlano di 750mila
cristiani, in maggioranza cattolico-caldei, ma ci sono anche siro-cattolici,
nestoriani, giacobini e siriano-ortodossi. Ci sono anche Yazidi che praticano
una fede mista di islam, cristianesimo e zoroastrismo.
L’Uscirf ha dunque chiesto al Dipartimento di stato americano urgenti e
decise azioni per aiutare le minoranze religiose irachene. Innanzitutto, ha
detto Felice Gaer, capo della Commissione, «occorre identificare tra i rifugiati
e gli sfollati i più vulnerabili e consentire loro anche un ingresso negli
Usa». E tra le fette più vulnerabili della popolazione irachena ci sono gli
assiro-caldei. «Queste minoranze sono oggetto di violenze e abusi poiché le
loro usanze non sono conformi all’islam e i loro appartenenti sono visti come
sostenitori delle forze multinazionali per le quali lavorano. Per questo motivo
subiscono uccisioni, torture, rapimenti, conversioni forzate, stupri, e
distruzione delle loro proprietà». A questo si aggiunge anche il dato che molte
comunità musulmane subiscono a loro volta assalti da parte di fazioni islamiche
rivali.
Altra proposta lanciata da Gaer è quella di «accelerare il diritto di asilo
per coloro che appartengono a queste minoranze e magari facilitare il loro
ricongiungimento familiare». A questo scopo la Commissione ha chiesto al
Congresso Usa un finanziamento di 20 milioni di dollari e ha auspicato anche
maggiori sforzi di accoglienza da parte di Siria e Giordania. Da parte sua il
segretario di stato Condoleeza Rice ha disposto l’ingresso in Usa di 7000
iracheni per il 2007 e un aumento delle risorse per i rifugiati. Va comunque
ricordato che dal 2003 gli Usa oggi hanno accettato solo 466 iracheni.
A rendere, tuttavia, più difficile l’ingresso negli Usa di profughi
iracheni è la questione del passaporto di tipo “G”. Dall’8 gennaio scorso,
infatti, lo stesso Dipartimento di stato ha dichiarato non validi i passaporti
iracheni di tipo S emessi dopo la guerra del 2003, perché non corrispondenti
agli standard di sicurezza. Passaporti validi sono quelli di tipo G, rilasciati
dall’aprile 2006. A riguardo c’è da registrare l’intervento dell’ambasciatore
iracheno negli Stati Uniti, Samir Sumaida’ie, per il quale «nessuna delle 50
sedi diplomatiche irachene nel mondo è in grado di emettere i passaporti G».
L’unica soluzione è quindi tornare a Baghdad, con tutti i rischi che ciò
comporta.
Alle condizioni in cui versano i cristiani e in particolare i cattolici
iracheni nel paese l’Ufficio pastorale dei migranti della diocesi di Torino
dedica il dossier «Iraq, un futuro senza cristiani?». «Indifesi e pochi, i
cristiani iracheni stanno lottando per sopravvivere nel paese che ha visto
nascere la cristianità ben prima dell’islam quando, nel primo secolo dopo
Cristo, l’apostolo Tommaso nel suo viaggio verso est convertì le popolazioni di
quella che allora si chiamava Mesopotamia. Ma è una lotta impari e, qualcuno
teme, senza speranza. I cristiani iracheni sono svantaggiati in tutto».
I cristiani iracheni vantano una presenza che risale alla predicazione
dell’apostolo Tommaso, ritenuto il fondatore del cristianesimo in Iraq. Le
comunità cristiane più numerose sono quelle di Baghdad e nelle città nel nord
del Paese: Kirkuk, Irbil e Mosul, l’antica Ninive. Su 22 milioni di abitanti, i
cristiani in Iraq sono il 3% della popolazione, circa 800 mila persone. I
cristiani in Iraq appartengono a diversi riti: assiro, nestoriano,
siro-cattolico e siro-ortodosso; ciascun rito rappresenta il 7% dei cristiani.
Di numero più ridotto sono gli armeni ortodossi. I cattolici sono 260 mila, il
70% dei quali di rito caldeo.
I cristiani hanno sempre avuto buone relazioni con la maggioranza musulmana
nel paese (il 97% degli iracheni sono di fede islamica): non si sono mai
verificati episodi di violenza, discriminazione o intolleranza a livello
sociale. Era invece il regime di Saddam Hussein secondo mons. Jean Sleiman,
arcivescovo latino di Baghdad, a causare «persecuzioni e repressioni contro i
cristiani», che si vedevano così costretti all’emigrazione verso l’estero e in
particolare verso gli Stati Uniti e il Canada. Dopo la guerra del Golfo del
1991 ben 150 mila cristiani iracheni (1/6 del totale) sono emigrati in
Occidente per sfuggire alla politica di repressione di Saddam. Durante l’ultimo
conflitto in Iraq – che ha portato alla caduta del regime baathista – molti
cristiani iracheni si sono rifugiati in Giordania e attendono gli sviluppi
della situazione politica per poter far rientro nella loro patria.