ASSUMERE I SENTIMENTI DEL SIGNORE

CENTRALITÀ DI CRISTO NELLA VC

 

Verrà mai il giorno in cui davvero i consacrati si prostreranno solo al Signore Gesù; un giorno in cui la radicalità evangelica si misurerà più sui grandi doni pasquali, sorgenti di trasformazione, come la pace, il perdono, la gioia, la fraternità e meno sui divieti e sull’ascesi volontaristica?

 

Da vari decenni è in atto nella vita consacrata un rientramento su Cristo e la sua sequela. Questo “ripartire da Cristo” è fatto di nuovo approccio alla Parola evangelica, di nuove chiavi cristologiche contestualizzate e inculturate, di nuova coscienza della necessità di una presenza profetica e critica nella storia, di nuove modalità di comunità di discepoli in un mondo ingiusto e violento, di nuove diaconie di guarigione e liberazione con la forza della pasqua redentrice.

Non che avessimo perso questo riferimento essenziale a Gesù Cristo, ma molte volte siamo apparsi così abbagliati dalle virtù e dal carisma dei fondatori e delle fondatrici, da lasciare come in disparte la centralità di Cristo. Questi era ridotto alla presidenza onoraria – se non addirittura a un soprammobile – della nostra compagnia devota, tutta prona a ricordare opere e giorni (erga kai emerai) degli iniziatori. È una impressione che provo a volte anche davanti a certi avvenimenti macro-ecclesiali, nei quali Cristo sembra lì per caso, in mezzo a una kermesse di eventi e di rappresentazioni ecclesiastiche teatrali e mondane.

Allora mi rallegro di poter dire una parola sulla necessità di tornare sempre di nuovo all’essenziale, ma in maniera decisa e illuminata, non puramente di facciata o a parole. Io sono rimasto sempre colpito dal vigore con cui Giovanni Paolo II nella esortazione Vita consecrata ci richiamava al ricentramento su Cristo. Penso per esempio a frasi di questo tono: esprimere «con particolare eloquenza il carattere totalizzante che costituisce il dinamismo profondo della vita consacrata» (VC 15c); «nella vita consacrata non si tratta solo di seguire Cristo con tutto il cuore… ma di esprimere ciò con l’adesione “conformativa” a Cristo dell’intera esistenza, in una tensione totalizzante che anticipa, nella misura possibile nel tempo e secondo i carismi, la perfezione escatologica” (VC 16b). E più avanti: «Con tale immedesimazione “conformativa” al mistero di Cristo, la vita consacrata realizza a titolo speciale quella confessio Trinitatis che caratterizza l’intera vita cristiana» (VC 16d).

Mi domando a volte dove si realizza davvero lo scopo della formazione segnalato da VC 68c, laddove si parla di «capacità di proporre un metodo ricco di sapienza spirituale e pedagogica che conduca progressivamente chi aspira a consacrarsi ad assumere i sentimenti di Cristo Signore. La formazione è un processo vitale attraverso il quale la persona si converte al Verbo di Dio fin nelle profondità del suo essere e, nello stesso tempo, impara l’arte di cercare i segni di Dio nelle realtà del mondo». Saranno mai capaci i religiosi di camminare con audacia e senza fughe su questo crinale, da cui strapiombano due abissi: il mistero di Cristo Signore e dei suoi sentimenti per cui si è fatto servo, fino alla morte per dare la vita per il nostro mondo, e il mistero della presenza di Dio dentro i molteplici segni della storia, dei poveri, dei contemporanei? Chiamati a incedere nel frammezzo – a essere quindi inter-cessori – spesso non troviamo il giusto equilibrio e ci sbilanciamo di qua o di là. Con grave danno per noi stessi e soprattutto per il nostro carisma ecclesiale.

 

ABBIATE IN VOI

GLI STESSI SENTIMENTI... (Fil 2,5)

 

Nella liturgia delle due domeniche prima di Pasqua, la seconda lettura è tratta dalla lettera di Paolo ai Filippesi, e precisamente dal capitolo 3,8-14 la V domenica di Quaresima e dal famoso inno cristologico della lettera ai Filippesi (Fil 2,5-11) la domenica delle Palme. Si tratta di due testi che fanno proprio al caso nostro, indicano il cammino a una esperienza cristocentrica autentica, proprio a partire da una conformazione profonda, da una immedesimazione conformativa con i sentimenti vissuti da Cristo. Vorrei con voi meditare un po’ su questi due testi classici, per scoprire percorsi di vita per oggi.

 

Quali sono i sentimenti che furono in Cristo Gesù? (Fil 2,1-11)

 

Di solito la nostra attenzione – come anche la lettura proclamata nella liturgia – si ferma al famoso inno cristologico, con la premessa del v. 5, che invita ad avere in noi gli stessi sentimenti. Di fatto però sarebbe più logico e fondato, partire dall’inizio del capitolo: infatti nei primi 4 versetti, Paolo enumera alcuni atteggiamenti fraterni di accoglienza e di comunione, che non sono posti a caso, ma ripetuti anche altre volte nella lettera. Ce n’era bisogno nella giovane comunità di Filippi, ma sempre c’è bisogno di coltivarli, comunque sia, come prova che viviamo i sentimenti di Cristo servo e misericordioso, e come orizzonte di significato della trasformazione che ci viene donata dalla sua kenosis.

Paolo invece di tirare la conclusione moralistica, esortando ad avere atteggiamenti di unanimità, di carità, di comunione, come risaltano in Cristo, e tutti possono constatare che tali valori erano presenti e vivi, rovescia il discorso. Parte dall’ esortazione intensa a riconoscere dal basso il fiorire di propensioni alla compassione, all’unione dei cuori, all’accoglienza reciproca, alla collaborazione fiduciosa. Accenna che questi valori (consolazione, conforto, consonanza) sono anche frutto della presenza operante della Trinità. E poi chiede di rafforzare tutto questo con la chiave cristologica: che siano sentimenti buoni, battezzati nell’esempio, diciamo, nella grazia trasformatrice che deriva dal percorso di abbassamento e di esaltazione vissuto da Cristo Gesù.

Il procedimento evita così di proporre un grande ideale e poi di sminuzzarlo in piccole porzioni affidate alla buona volontà, allo sforzo ascetico, al moralismo che lascia sempre un margine alla fragilità e al compromesso. Avendo invece cominciato dal lato morale, per poi salire, analogicamente, al livello teologale assoluto, il discorso si carica di una forza convincente al massimo livello. Non siamo chiamati a fare il possibile, secondo le nostre forze: ma siamo messi di fronte al sublime modello, alla sfida di una totalità avvincente ed esigente. Come totale e totalizzante è stata l’esperienza di Cristo: essa rimane lì icasticamente davanti agli occhi della mente, sfida e monito a ogni tentativo di compromesso e di accomodamento. Il valore della frase “abbiate tra di voi gli stessi sentimenti”, non è un invito generico, ma forte richiamo a coltivare, a far crescere per connaturalità, a farsi possedere, esserne condizionati radicalmente. Paolo chiede di misurarsi sulla vita, le opzioni, gli atteggiamenti, i dinamismi intimi di Cristo.

Sommariamente accennando, il testo cristologico segue la dinamica dell’abbassamento e della esaltazione, come tutti ben sappiamo. Notiamo alcuni gradini molto suggestivi.

 

Fase discendente

 

– Il possesso della natura divina, non trattenuta con atteggiamento egoista, rivendicativo, quasi aggressivo; ma con mitezza e disponibilità a privarsene per il bene dell’umanità. Il Figlio di Dio non perde la sua uguaglianza con il Padre; ma solo limita l’apparire esterno di tale gloria. Gesù stesso nella preghiera finale dell’ultima cena parla di “quella gloria che aveva prima che il mondo fosse” (cf. Gv 17,5): il Padre gliela restituisce, gliela rende visibile, per il bene dei discepoli.

– Il cammino dell’incarnazione presentato come “svuotamento” (sulla scia del servo di Is 53,12), come spoliazione di ogni apparente dignità. Questo avviene in piena libertà personale: diventare uomo per colui che è uguale a Dio è un’effettiva schiavitù; per questo prima si parla di servo e poi di uomo.

– Non si tratta di un momento, né di un gioco; davvero egli contrasse un rapporto profondo, un’affinità, una rassomiglianza sostanziale con gli uomini; fu uomo, persona umana fino in fondo senza privilegi. Tutti potevano riconoscerlo come un vero uomo; la sua umanità era uguale alla nostra, fragile, sofferente, limitata.

– L’ultimo gradino della scala discendente è la morte: nel suo amore alla vita, nella sua fedeltà al Dio della vita, Gesù mise in gioco la propria; rischiò la propria per servire il Dio della vita. Non andò incontro alla morte per amore della sofferenza, ma per obbedienza totale al progetto di dare la vita, che col Padre condivideva. Una morte estrema, umiliante, la peggiore fra le morti di allora, quella tipica degli infami: neppure davanti ad essa si fermò. Perchè era venuto per dare la vita per molti; e si impegnò, obbedì a questo progetto fino a rimetterci la propria vita, liberamente.

 

Fase ascendente

 

All’obbedienza generosa, radicale, fino all’estremo, da parte del Figlio, fa riscontro la reazione del Padre, il giudizio di Dio sulla vita amata e difesa fino a perdere la propria.

– Gesù è soprelevato: non è semplicemente ritornato allo stato di prima, ma è una grazia nuova che il Padre gli dona, sintetizzata nel titolo Kyrios/Signore. Non si tratta di una specie di divinizzazione, quasi che in questo momento Gesù fosse diventato finalmente “Dio”. Si tratta della manifestazione pubblica, della conferma di una signoria che prima sembrava oscurata, non evidente. E lo devono riconoscere tutte le realtà cosmiche, dai cieli allo sheol.

– La modalità del riconoscimento: i ginocchi adorano e le lingue proclamano la sua signoria. Nessuno è escluso dal riconoscere, dal misurarsi, dal confrontarsi con questo evento e con il suo significato cosmico.

– Non un Dio alternativo, ma il convergere di tutto verso la gloria del Padre, intesa come progetto salvifico, fedeltà e misericordia, salvezza e redenzione. La conclusione pertanto è contemplativa, coinvolgente, affascinante, non moralistica e di preoccupazione ascetica.

Per la vita consacrata

 

Questa icona paolina applicata alla vita consacrata – e certamente sta sullo sfondo dell’affermazione di Vita consecrata 68c sopra citata – significa saper ritrovare le ragioni profonde delle nostre esperienze pratiche. Davanti alla profondità del mistero dell’abbassamento e dell’esaltazione, siamo invitati ad allargare gli orizzonti, ad uscire dall’autoesame chiuso nei nostri guai, dalla patologia dell’introspezione negativa che ci deprime ancor di più. Per coltivare i sentimenti del Signore, senza vivere a cespuglio: la disponibilità, il servizio, l’amore alla vita, ma anche la compassione, l’annuncio, la missionarietà, devono avere queste radici profonde e questo panorama dilatato.

Per Paolo tutta la vita deve diventare una grande liturgia pasquale, “una liturgia nello Spirito di Dio” (Fil 3,3), a partire dai problemi concreti quotidiani. Se si sa collocarli nella giusta prospettiva cristocentrica. Senza questo intreccio tra vita e grande mistero, fra quotidiano e festivo, fra frammento e complessità, fra parzialità e totalità, la nostra vita rischia di morire di inedia, di anemia.

Proprio verso questa conformazione dinamica e vitalizzante ci porta il secondo testo che vogliamo per un attimo commentare.

 

CON LA GIUSTIZIA

CHE DERIVA DALLA FEDE (Fil 3,7-14)

 

Una rottura instauratrice

 

Si tratta di un testo molto denso, nel quale l’esperienza della conversione viene riletta non come fatto e fatti, ma nella sua radice più profonda, cioè nel processo di trasformazione avvenuta. Infatti alla luce di un contesto polemico – quello dei cristiani giudaizzanti, che insistono troppo sulle tradizioni ebraiche, tanto da considerarle il vero tesoro, a cui aggiungere l’evento Cristo, ma giudaizzandolo – Paolo proclama di aver vissuto una trasformazione radicale di tutti i valori e di tutto il senso della vita. Quello che considerava un valore e per il quale si era impegnato in tutti i modi – studio, vigilanza, tradizioni, appartenenza, persecuzioni – ha perso d’improvviso di centralità e di rilevanza, di fronte alla conoscenza del senso della vita e della fede, donato dall’incontro con Gesù, il crocifisso risorto.

 

a. Un rovesciamento radicale, ma anche una rielaborazione creativa del vissuto. Se fino a quel momento la preoccupazione era legata all’osservanza scrupolosa e perfino fanatica delle prescrizioni tradizionali ebraiche, ora il centro è occupato dal nuovo modo di dialogare di Dio: attraverso la nuova forma di giustizia vissuta da Gesù di Nazaret. Si tratta di una giustizia che è solidarietà e servizio, misericordia e amore, libertà e speranza. Questa nuova sintassi di comprensione della giustizia non si acquisisce attraverso delle conoscenze teoriche, né consiste in pratiche da fare e divieti da osservare. Ma consiste in un processo interiore e profondo di conformazione, di comunione e di trasformazione, in intima adesione al percorso di Cristo Gesù.

 

b. Come in una specie di scavo verso dentro, Paolo parla di questo vortice che lo afferra e lo inghiotte, di questa rinascita per la potenza delle risurrezione, che avviene solo se si lascia condurre a un koinonia con le sofferenze di Cristo, provocate non tanto dai dolori e dalle violenze fisiche, ma dalla incomprensione di un altro modo di parlare e di mettersi in relazione col Padre. Una associazione che è cammino di conformazione e adesione al fallimento completo e sistematico, fino alla morte fisica e violenta. Solo questa simbiosi totale e totalizzante apre gli occhi ad altre categorie di valori e di significati: e non si tratta di un passaggio avvenuto una volta per tutte, ma di una rivelazione avvincente che continua a sollecitare ulteriori passi, come una corsa per afferrare qualcuno, dal quale siamo già stati afferrati e trascinati.

 

c. Protesi verso il futuro. C’è un’ultima annotazione che completa il brano paolino, e fa come da cornice: il passato che aveva totalmente rovesciato e declassato come a spazzatura, continua a fargli da punto di riferimento, come terminus a quo: deve sempre di nuovo riprendere le distanze, allontanarsi dagli appigli che ancora esso allunga, e dai filacciamenti velenosi che operano sottotraccia, per andare incontro al futuro, protendersi correndo e desiderando. Questo continuare ad avanzare, correndo e non solo vivacchiando, caratterizza la vita dei cristiani secondo questo brano. Ma ancor più deve caratterizzare la vita dei consacrati.

Commenta Benedetto XVI: «Forti di questa speranza, non abbiamo paura delle prove, le quali, per quanto dolorose e pesanti, mai possono intaccare la gioia profonda che ci deriva dall’amore di Dio: egli, nella sua provvidente misericordia, ha dato il suo Figlio per noi e noi, pur senza vederlo, crediamo in lui e lo amiamo (cf. 1Pt 1,3-9). Il suo amore ci basta» (Benedetto XVI a Verona)

 

Applicando alla vita consacrata

 

La vita consacrata allora ha proprio questo di tipico: essa si visibilizza sia mediante una esemplare e significativa immedesimazione conformativa con il processo dinamico vissuto da Cristo (sofferenza, morte, risurrezione), per una conoscenza vitale, destabilizzante e ristrutturante, liberatrice e guaritrice. E sia mediante una abilitazione carismatica ad andare sempre oltre, a lasciarsi dietro le spalle ogni mitologia e ogni autogiustificazione, proveniente dalle tradizioni codificate e dal passato idolatrato.

Si tratta di credere, vivere, sperare la Pasqua in modo originale, per esplorare nuovi orizzonti, per tracciare nuove mappature dei percorsi della fede in Cristo, per nuovi modelli di incarnazione della giustizia che deriva da Dio per dono e non per manutenzione legalista. Rientra qui il secondo senso che di solito si attribuisce alla parola metanoia: non solo fare conversione a U, ma anche andare oltre, sorpassare, salire più in alto per una visione più ampia.

Dove oggi si può verificare la koinonia alle sofferenze e la conformità alla sua morte per amore? Dove oggi siamo sfidati a parlare di nuova conoscenza, di nuova giustizia, di nuova solidarietà, di nuova libertà religiosa? Finchè ci gingilliamo con i nostri slogans roboanti e fosforescenti e con l’illusione taumaturgica di poterci salvare comunque vadano le cose – e quindi, come direbbe subito dopo Paolo, svuotando la croce di Cristo dalla sua carica sovversiva e inquietante (Fil 3,18: i “nemici della croce di Cristo”), cosa applicabile non di rado anche a noi consacrati – non saremo certo in corsa, non mostreremo certo di essere stati afferrati da Cristo, non ci libereremo dalla spazzatura. Ammesso che sappiamo riconoscere quale sia la skybala paolina.

Oggi la vita consacrata sembra in grande affanno: per evidenti crisi di anemia, data la scarsità dei rincalzi e la fragilità della audacia pratica di fronte alle nuove emergenze e alle nuove sfide in un mondo che cambia. Ma anche per confusione sulla propria identità, diciamo per anomia: non si ha sufficiente lucidità per discernere i percorsi di autenticità e di liberazione di cui ha bisogno la Chiesa e la umanità. Troppo si attardano i religiosi nella manutenzione scrupolosa della miniatura interiore, in una spiritualità sempre meno robusta e solo pasticciata di emozioni e di riporti accumulati alla rinfusa. E troppo si attardano anche a mantenere il culto idolatrico verso le opere delle proprie mani (cf. Os 14,4).

Se siamo creature nuove in Cristo – perché rigenerati a vita nuova come kainè ktisis, ma anche con una nuova gnosis Kristoù, cioè una valutazione diversa dei valori – la nostra stessa identità deve mostrarlo. «Il mio io proprio viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Diventiamo così “uno in Cristo” (Gal 3,28), un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento” (Benedetto XVI, Verona). Senza questa trasformazione interiore, fatta di corpo, mente, anima, sentimenti e memoria, sogni e progetti, senza questa interiore identità con Cristo Signore, la speranza non sarà in noi qualcosa di “cristico”. Sarà solo proiezione nevrotica in un mondo irreale, delle frustrazioni e delle alienazioni mai davvero redente.

 

Verrà mai un giorno?

 

Verrà mai il giorno in cui davvero i consacrati onoreranno e si prostreranno solo al Signore Gesù, senza ridurlo a soprammobile kitsch o a presidente onorario di una compagnia di sbadati discepoli, però sempre vigili a evitare croci e sofferenze? Verrà mai giorno in cui la radicalità evangelica si misurerà più sui grandi doni pasquali, sorgenti di trasformazione, come la pace, il perdono, la gioia, la fraternità e meno sui divieti e sull’ascesi volontaristica e fanatica, cioè sulla irreprensibilità secondo la legge?

Verrà mai giorno? Un giorno che deve venire, anzi che sempre sarà sfida da gettare, come lingue di fuoco, nell’assemblea ecclesiale: perché non cada nel vile mutismo, e in tal modo esimersi dal rendere ragione della speranza. Ma neppure si diffonda lo stile arrogante del proclamare la speranza con orgoglio fanatico, alieno dalla mitezza raccomandata da Pietro (1Pt 3,16). Afasia dimissionaria e proclamazione ideologica sono entrambi tentazioni tipiche del nostro tempo: ad esse la vita consacrata deve contrapporre il proprio stile di dialogo intelligente e di discernimento paziente.

Perché ha fiducia – in maniera persino paradossale, e perciò profetica – nella forza interiore della stessa buona notizia, che come goccia tenace si scava sempre un misterioso tracciato anche nella roccia più dura. Se in altri tempi siamo stati campioni di assalto trionfalista e di crociate evangelizzatrici, dagli esiti spesso problematici, oggi forse sarà meglio che diamo prova di fermento silenzioso e di parresia di mite presenza, più che con il boato delle lobbies e le sentenze minacciose, con una retta coscienza e una condotta irreprensibile. “Perché questa è la volontà di Dio: che operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti” (1Pt 2,15).

Non andiamo in giro a distribuire risposte a domande che non sappiamo ascoltare. Piuttosto viviamo in modo da suscitare domande e richiamare l’attenzione: e allora, ascoltando le domande, troveremo risposte che gettano semi buoni dentro brecce di dialogo e cuori sensibili. E il Vangelo fiorirà per grazia di Dio più che per la nostra irreprensibile giustizia.

 

Bruno Secondin o.carm.