MEDITANDO SULLE QUATTRO “NOTE”

UNO SGUARDO D’AMORE SULLA CHIESA

 

Come capire che la Chiesa è una, santa, cattolica e apostolica? Non certamente guardandola dall’esterno o solo dal criterio numerico o geografico. Si può comprendere solo risalendo alla sua sorgente che è Dio.

 

In un tempo come il nostro in cui la Chiesa è continuo oggetto di attacchi e di denigrazioni fa piacere trovare invece persone che la amano, che parlano di lei “con amore”. Tanto più se questo atteggiamento viene non da individui che si possono definire “ufficiali”, che fanno cioè parte della cosiddetta istituzione, ma da laici impegnati per i quali la Chiesa rappresenta qualcosa di vitale.

È il caso, per esempio, di Denis Gira, direttore aggiunto dell’Istituto di scienza e di teologia delle religioni presso l’Istituto cattolico di Parigi e anche collaboratore della rivista di esperienze e ricerche missionarie Spiritus. Nel numero di marzo 2007 ha scritto un articolo intitolato Revenons à l’essentiel, che definisce una meditazione sulle “quattro Note” della Chiesa, quali noi professiamo continuamente nel Credo: la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Ha scelto il genere letterario della meditazione, anziché inoltrarsi in difficili considerazioni teologiche, perché quello che scrive «è frutto di lunghe meditazioni sulla Chiesa, sulle sue istituzioni e sulla nostra vocazione comune ad annunciare la Buona Novella di Gesù Cristo in un mondo che non comprende più di che cosa parliamo e nemmeno se ne interessa».

Il riferimento specifico è alla chiesa cattolica romana, perché osserva, «io amo questa Chiesa ed è grazie ad essa se ho potuto incontrare Gesù Cristo. Ed è anche nel suo seno che ho sempre vissuto la mia fede».

 

UNA REALTÀ

CONTRADDITORIA

 

Una fede certamente molto consapevole e impegnata. Denis infatti è sposato e padre di famiglia e ha vissuto il suo impegno nella Chiesa in tre regioni molto diverse del mondo: negli Stati Uniti, soprattutto a Chicago; in Giappone, a Tokyo e in Francia, a Parigi. Da una trentina d’anni si occupa anche di buddismo e del possibile dialogo tra questa religione e i cristiani.

Certamente, afferma, parlare di chiesa una, santa, cattolica e apostolica comporta notevoli difficoltà. Vista dall’esterno, infatti, la Chiesa “una” appare come una realtà molto divisa a tutti livelli. In secondo luogo, il comportamento dei cristiani che la compongono, è ben lontano dall’essere “santo”. Inoltre, quella Chiesa che definiamo “cattolica”, vale a dire “universale”, è assente in certe parti del mondo. Infine, come ignorare le lentezze di una Chiesa che dà spesso l’impressione di essere più interessata al passato che all’avvenire – ciò che è l’opposto dell’atteggiamento degli Apostoli la cui preoccupazione principale era di annunciare Gesù Cristo in termini comprensibili a tutti i loro interlocutori? Che cosa dire allora a coloro per i quali noi siamo così poco credibili poiché ai loro occhi la nostra Chiesa non è né “una”, né “santa”, né “cattolica”, né “apostolica”? E cosa fare perché le cosa cambino?

Alcuni potrebbero pensare che basti invitare i cattolici a conformarsi in tutto all’insegnamento della Chiesa, così come è descritta nel Catechismo della Chiesa cattolica, alla morale che propone e alle regole che governano la sua vita e che si trovano sostanzialmente nel Codice di diritto canonico e nell’insieme dei documenti emanati dai diversi dicasteri della curia romana. Tutti vedrebbero così che la Chiesa è “una”, “santa” ecc. poiché tutti i cattolici sarebbe tornati alla sorgente. È una logica comprensibile, sottolinea Denis. Ma è proprio questo, si domanda, ciò di cui abbiamo bisogno oggi per presentare a coloro che ci guardano da fuori la Chiesa nel suo splendore?

«Penso di no» – è la sua risposta. La Chiesa, infatti, non è “una” perché tutti coloro che vi appartengono pensano la stessa cosa e si comportano alla medesima maniera; non è nemmeno “santa” perché tutti vivono in maniera impeccabile; non è “cattolica” perché è presente dappertutto né perché la sua voce è ascoltata da tutti; e non è “apostolica” solo perché la stirpe dei suoi pontefici e dei suoi vescovi risale, attraverso una linea ininterrotta a Pietro e agli altri apostoli. Bisogna cercare altrove il senso di queste quattro “note” dal momento che nel Credo noi affermiamo non che la Chiesa sarà un giorno una, santa ecc., ma che essa è tale già fin d’ora. Dove trovare la giustificazione? Qui sta il problema.

 

La Chiesa è “una”

 

Quando si parla di Chiesa “una”, osserva Denis, è opportuno cominciare col meditare ciò che Paolo scrive nella lettera agli Efesini: «Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,1-6).

Qui si vede molto bene che se la Chiesa è “una” lo è anzitutto nella sua sorgente che è Dio (Padre, Figlio e Spirito Santo). Pertanto non siamo noi semplici membra del Corpo di Cristo che possiamo cambiare questa realtà fondamentale. Piuttosto, noi la possiamo vivere molto male e non viverla affatto e così impedire agli altri di vederla. Questa unità è un dono che la Chiesa riceve e una responsabilità che Dio le affida. Essa supera infinitamente tutto ciò che possiamo immaginare ed esige da noi un comportamento veramente esemplare, di umiltà, di pazienza e di carità, come dice Paolo.

Si tratta di un’unità che richiede da noi anche una grande fiducia gli uni verso gli altri. Per una ragione molto semplice: noi avremo sempre bisogno gli uni degli altri se vogliamo davvero essere pienamente coscienti, come Chiesa, dell’unità che deriva dal nostro battesimo, e sapere che celebriamo questa unità nell’Eucaristia. Ed è per questo che la grande diversità di sensibilità teologiche, di linguaggi, di culture, di età, di sesso... che esiste in seno alla Chiesa, lungi dal nuocere alla sua unità, ci aiuta a comprenderla e a viverla meglio.

L’autore, forte dell’insegnamento della Chiesa, sottolinea la grande importanza che deve avere il principio della sussidiarietà e il ruolo essenziale che compete al magistero. Ma, sostiene, tutto deve avvenire in uno spirito di carità e di fiducia. Dobbiamo essere coscienti che noi non siamo chiamati a “fare” l’unità della Chiesa, ma a “scoprire” il mistero di Dio Trinità che ne è la sorgente. È dunque anzitutto “scoprendo” questa unità e lasciandoci ammaestrare dai nostri fratelli e dalle nostre sorelle che si nutrono della parola di Dio in situazioni molto diverse dalla nostra e vivendo questa unità che potremo “scoprirla”, nel senso di “manifestarla” o di “mostrarla” agli altri.

Sì, osserva Denis, la Chiesa è “una” ma solo un autentico “ritorno” alla sorgente – la sorgente dell’unità di cui parla Paolo – ci permetterà di testimoniarla nella nostra vita e in quella delle nostre istituzioni. In definitiva, questa unità, si vive in una relazione con una persona! Si tratta quindi di qualcosa di dinamico. Noi possiamo quindi vivere tutti i giorni l’unità della Chiesa scoprendo in ogni momento ciò che essa è. Professare che la Chiesa è “una” vuol dire impegnarsi ad andare avanti ogni giorno insieme sulla “Via” di Cristo, senza mai dimenticare che questa “Via” è Cristo. Denis Gira commenta: «I paradossi non mancano. Felicemente!».

 

La Chiesa è “santa”

 

Se la Chiesa è “una” poiché è tale alla sua sorgente, allo stesso modo si può dire che è “santa” poiché lo è alla sua fonte. E questa fonte è Dio, sorgente di ogni santità. Solo Dio è santo! La santità della Chiesa pertanto, osserva Denis, non dipende dal comportamento di coloro che ne fanno parte. In effetti, se si dovesse attendere che tutti i cristiani si comportassero in maniera “esemplare”, nessuno si sentirebbe a proprio agio nella Chiesa. Anche i più grandi santi che la Chiesa addita a modelli a tutti i cristiani erano consapevoli di essere peccatori. Essi sono dei modelli perché hanno avuto fiducia in Dio e hanno lasciato che egli lavorasse in loro.

Lasciare che Dio lavori in noi non è facile. In certo senso noi vorremmo “meritare” la nostra salvezza, “meritare” l’amore di Dio. E in questo, osserva l’autore, siamo più “pelagiani” che “giovannei”. Noi siamo tentati d’immaginare che si diventi santi comportandoci santamente, vale a dire facendo tutto quello che si deve dal punto di vista morale, compiendo la volontà di Dio in ogni cosa.

Senza dubbio il cristiano deve fare la volontà di Dio anche se non è sempre facile discernere in che cosa consista. Il vero pericolo sta nel confondere la nostra volontà con quella di Dio, ed è una trappola in cui si rischia spesso di cadere.

A questo proposito, è salutare pensare alla preghiera che Gesù stesso ci ha lasciato, il Padre nostro. In questa preghiera c’è la chiave per comprendere in che cosa consiste la vera santità. Recitandola, non diciamo “io voglio santificare il tuo nome, farò tutto il possibile per stabilire il tuo regno, farò la tua volontà come in cielo così in terra”. Gesù ci ha invece insegnato a dire: “sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”. C’è molta umiltà in questa preghiera. L’essenziale è di metterci totalmente a disposizione di Dio perché egli possa agire in noi e attraverso di noi. Il nostro sguardo sul mondo poco alla volta deve diventare quello di Dio, di questo Dio che ha tanto amato il mondo da inviare il suo unico Figlio. Il nostro sguardo deve divenire quello di Cristo che riconosce in ciascuno la sua vera grandezza di uomo creato a immagine di Dio.

Sì, commenta Denis Gira, la Chiesa è “santa”. Tocca a ciascuno di noi “scoprire” la fonte di questa santità e di lasciare che zampilli in se stessi. Ciò cambierebbe anche il modo di essere delle nostre istituzioni.

La Chiesa è “cattolica”

Va detto subito che il termine “cattolica” non ha niente a che vedere con le cifre e i dati statistici. Non sono pertanto determinanti il numero delle chiese, né dei praticanti, né la distribuzione geografica delle comunità cristiane. Il termine si riferisce per così dire all’efficacia spirituale della Chiesa. In essa, tutto ciò che è necessario alla salvezza dell’uomo è donato, definitivamente, e nessuno è escluso da questa salvezza. E niente manca nella Chiesa, poiché essa è il Corpo di Cristo. La sua missione, perciò, è quella di annunciare questa Buona Novella: che ogni uomo è chiamato a diventare membro di Cristo. E siccome è il Corpo di Cristo, essa è capace effettivamente di aiutare ciascuno a vivere pienamente questa vocazione.

In definitiva, osserva Denis Gira, dobbiamo fare attenzione affinché il nostro modo di vivere la fede testimoni l’efficacia del mistero pasquale. Altrimenti, per quale ragione stabilire delle chiese in ogni parte del mondo? Esse non interesserebbero a nessuno. Al contrario, se viviamo questo mistero pasquale e ci lasciamo trasformare da esso, la nostra Chiesa “cattolica” non avrà difficoltà a diventare universale nel senso geografico del termine.

Di nuovo, si può costatare che la fonte di questa “cattolicità” non risiede negli sforzi che noi facciamo, ma si radica nel mistero pasquale. Tocca a noi tornare a questa fonte e lasciare che il Cristo morto e risorto agisca in noi e attraverso di noi.

 

La Chiesa è “apostolica”

 

Spesso quando si parla dell’ “apostolicità” della Chiesa lo si fa per sottolineare la linea di continuità dei papi e dei vescovi con Pietro e gli altri apostoli. Questa continuità esiste ed è fondamentale, ma non è sufficiente per farci comprendere quanto sia invece qualcosa di radicale il ritorno alle fonti. Credo, osserva l’autore, che il vero problema si ponga oggi nel modo seguente: la nostra Chiesa deve sì o no agire oggi con l’audacia, l’immaginazione, la fiducia, la fedeltà alla parola di Cristo e la capacità di adattarsi alle situazioni inedite che hanno caratterizzato ll ministero degli Apostoli? È inimmaginabile che un successore degli Apostoli, il quale ha ricevuto il loro medesimo incarico apostolico e beneficia come essi dell’aiuto dello Spirito Santo, possa rispondere negativamente a questo interrogativo. Senza questa audacia, questa immaginazione, questa fiducia, ecc., come potrebbero gli “apostoli” d’oggi far conoscere Gesù Cristo a un mondo che diventa ogni giorno più complesso? Come potrebbero fare in modo che i diversi popoli del mondo ascoltino la parola di Dio nel loro linguaggio? È un problema che va ben oltre la semplice traduzione dei testi.

Si tratta di una sfida molto vasta, commenta l’autore, e si vede quanto sia necessario un vero “ritorno alla fonte”, e questa fonte è lo Spirito che accompagna gli apostoli e i loro successori lungo i secoli. Come lo Spirito ha aiutato Paolo e gli altri apostoli a far fronte a sfide enormi, permettendo così alla Buona Novella di Gesù Cristo di diffondersi in luoghi totalmente estranei al modo di vivere e di pensare la fede, così egli è presente per aiutarci a far conoscere il Vangelo a popoli che non l’hanno mai veramente sentito, non solo altrove nei paesi lontani, ma anche qui da noi.

Lo Spirito Santo è presente anche per aiutarci a cercare nuove risposte a nuovi problemi.Bisogna semplicemente evitare la trappola di volere a tutti i costi conservare le formule che ci sono servite nel passato per esprimere la fede e di servirsene per ripeterla al mondo contemporaneo. È questa del resto la problematica di cui si è parlato anche nel concilio: «Infatti gli studi recenti e le nuove scoperte delle scienze, come pure quelle della storia e della filosofia, suscitano nuovi problemi che comportano conseguenze anche per la vita pratica ed esigono nuove indagini anche da parte dei teologi. Questi sono inoltre invitati, nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza teologica, a ricercare modi sempre più adatti di comunicare la dottrina cristiana agli uomini della loro epoca: altro è, infatti, il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono espresse, a condizione tuttavia di salvaguardarne il significato e il senso profondo. Nella cura pastorale si conoscano sufficientemente e si faccia uso non soltanto dei principi della teologia, ma anche delle scoperte delle scienze profane, in primo luogo della psicologia e della sociologia, cosicché anche i fedeli siano condotti a una più pura e più matura vita di fede» (GS 62).

Al termine di questa meditazione, Denis Gira chiede di fare silenzio qualche minuto per riflettere su queste “note” che costituiscono un vero appello a vivere la nostra fede in grande umiltà (perché Dio in definitiva è la fonte di tutto), con grande audacia (per la medesima ragione) e con fiducia (poiché è insieme che potremo testimoniare l’unità, la santità, la cattolicità e l’apostolicità della Chiesa).