DA UNA MEDITAZIONE DI P. R. CANTALAMESSA

MITEZZA VIRTÙ DEI FORTI

 

Le beatitudini, tra cui la mitezza, non sono solo un bel programma etico che il Maestro traccia per così dire a tavolino, per i suoi seguaci; sono l’autoritratto di Gesù! È lui il vero povero, il mite, il puro di cuore, il perseguitato per la giustizia. La prova massima della mitezza di Cristo si ha nella sua passione.

 

Nella predica del Venerdì Santo di quest’anno (6/4/07) p. Raniero Cantalamessa, notando che sono state le donne le prime a vedere Gesù risorto perché erano state le ultime ad abbandonarlo da morto, afferma: «Le donne avevano seguito Gesù per lui stesso, per gratitudine del bene da lui ricevuto, non per la speranza di far carriera al suo seguito. Ad esse non erano stati promessi “dodici troni”, né esse avevano chiesto di sedere alla sua destra e alla sua sinistra nel suo Regno. Lo seguivano, è scritto, “per servirlo” (Lc 8,3; Mt 27,55); erano le uniche, dopo Maria la Madre, ad avere assimilato lo spirito del Vangelo». Solo con questo spirito ci è permesso di entrare nella logica delle beatitudini e in particolare in quella della mitezza annunciata dal Signore.1

 

GESÙ MITE

PERCHÉ UMILE E PAZIENTE

 

L’affermazione beati i miti perché possiederanno la terra richiama l’esclamazione di Gesù: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11, 29). Da qui p. Cantalamessa deduce che «le beatitudini non sono solo un bel programma etico che il Maestro traccia, per così dire a tavolino, per i suoi seguaci; sono l’autoritratto di Gesù! È lui il vero povero, il mite, il puro di cuore, il perseguitato per la giustizia». Le beatitudini insomma «non appartengono solo all’ordine dei doveri, ma anche a quello della grazia».

Due associazioni costanti nella Bibbia e nella parenesi cristiana antica – ha aggiunto – aiutano a cogliere il senso pieno del termine mitezza: una è quella che accosta tra loro mitezza e umiltà, l’altra quella che accosta mitezza e pazienza; l’una mette in luce le disposizioni interiori, l’altra gli atteggiamenti nei confronti del prossimo: affabilità, dolcezza, gentilezza. Ebbene, «i vangeli sono da un capo all’altro la dimostrazione della mitezza di Cristo, nel suo duplice aspetto di umiltà e di pazienza. Egli stesso si propone a modello di mitezza. A lui Matteo applica le parole dette del Servo di Dio in Isaia: “Non discuterà, né griderà, non spezzerà la canna incrinata e non spegnerà il lucignolo fumigante” (cf. Mt 12, 20). Il suo ingresso in Gerusalemme cavalcando un’asina è visto come un esempio di re mite che rifugge da ogni idea di violenza e di guerra (cf. Mt 21, 4). La prova massima della mitezza di Cristo si ha nella sua passione. Nessun moto d’ira, nessuna minaccia: “Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta” (1 Pt 2, 23)».

Ma Gesù ha fatto ben più che darci un esempio: ha fatto della mitezza e della non violenza il segno della vera grandezza. Sulla croce, dice Agostino, egli rivela che la vera vittoria non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima. Su questo punto p. Cantalamessa ricorda il pensiero di Nietzsche, il quale dichiara che predicando l’umiltà e la mitezza, il porgere l’altra guancia, il cristianesimo avrebbe introdotto, una specie di cancro nell’umanità mortificando la vita. Egli risponde rifacendosi al pensatore francese René Girard: «Con una perspicacia davvero unica, per il suo tempo, egli ha colto il vero nocciolo del problema, l’alternativa irriducibile tra paganesimo e cristianesimo. Il paganesimo esalta il sacrificio del debole a favore del forte e dell’avanzamento della vita; il cristianesimo esalta il sacrificio del forte a favore del debole. È difficile non vedere un nesso oggettivo tra la proposta di Nietzsche e il programma hitleriano di eliminazione di interi gruppi umani per l’avanzamento della civiltà e la purezza della razza. Non è dunque soltanto il cristianesimo il bersaglio del filosofo, ma anche Cristo... Girard dimostra che quello che forma il più grande vanto della società moderna (la preoccupazione per le vittime, lo stare dalla parte del debole e dell’oppresso, la difesa della vita minacciata) è in realtà un prodotto diretto della rivoluzione evangelica... Non è vero che il Vangelo mortifica il desiderio di fare grandi cose e di primeggiare. Gesù dice: “Se qualcuno vuol essere il primo, si faccia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mc 9, 35). È dunque lecito, e anzi raccomandato, di voler essere il primo; solo il cammino per giungervi è cambiato: non elevandosi sopra gli altri, magari schiacciandoli se sono di ostacolo, ma abbassandosi per elevare gli altri insieme con sé».

 

RELIGIONE

E VIOLENZA

 

Secondo p, Cantalamessa la beatitudine dei miti è diventata di straordinaria rilevanza anche apologetica nel dibattito su religione e violenza, accesosi dopo l’11 settembre 2001. «Essa ricorda, anzitutto a noi cristiani, che il Vangelo non lascia spazio a dubbi. Non ci sono in esso esortazioni alla non violenza, mescolate a esortazioni contrarie... “Quando vi perseguiteranno in una città, dice Gesù, fuggite in un’altra” (Mt 10,23); non dice: “mettetela a ferro e fuoco”. Una volta, due suoi discepoli, Giacomo e Giovanni, che non erano stati ricevuti in un certo villaggio di samaritani, dissero a Gesù: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. Gesù, è scritto, “si voltò e li rimproverò”. Molti manoscritti riportano anche il tenore del rimprovero: “Voi non sapete di che spirito siete. Poiché il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le anime degli uomini, ma a salvarle” (cf. Lc 9, 53-55)».

A questo proposito il famoso compelle intrare (costringeteli a entrare) con cui sant’Agostino giustifica la sua approvazione delle leggi contro i Donatisti2 e che servirà in seguito a giustificare la coercizione nei confronti degli eretici, è «una evidente forzatura del testo evangelico, frutto di una lettura meccanicamente letterale della Bibbia. La frase è messa da Gesù in bocca all’uomo che aveva preparato una grande cena e, di fronte al rifiuto degli invitati di venire, dice ai servi di andare per le strade e lungo le siepi e di “costringere poveri, storpi, ciechi e zoppi a entrare” (cf. Lc 14, 15-24). È chiaro che costringere non significa altro, nel contesto, che fare una amabile insistenza... : vincete la loro resistenza, raccomanda il padrone, dite loro che non abbiano paura a entrare». Nella stessa logica, non si possono estrapolare passi del Vangelo per affermare che anche Gesù appoggia la guerra santa!

C’è del resto un’applicazione pastorale della beatitudine dei miti che inizia già con la Prima Lettera di Pietro: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con mitezza e rispetto” (3,15-16).

Si potrebbe obbiettare che Gesù non si è mostrato sempre mite! Dice per esempio di non opporsi al malvagio, e “a chi ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra” (Mt 5, 39). Quando però una delle guardie lo percosse sulla guancia non è scritto che porse l’altra, ma che con calma rispose: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18, 23). «Questo significa, sottolinea Cantalamessa, che non tutto nel discorso della montagna va preso meccanicamente alla lettera.

Nel caso del porgere l’altra guancia, per esempio, l’importante non è il gesto di porgere l’altra guancia (che a volte può perfino apparire provocatorio), ma di non rispondere alla violenza con altra violenza, di vincere l’ira con la calma. In questo senso, la sua risposta alla guardia è l’esempio di una mitezza divina».

 

LA MITEZZA

È DEL CUORE

 

La vera mitezza si decide nel cuore. È da lì che provengono omicidi, cattiverie, calunnie (Mc 7,21-22). Le esplosioni di violenza, le guerre e le liti, cominciano segretamente dalle “passioni che si agitano dentro il cuore dell’uomo” (cf. Gc 4,1-2). Come esiste un adulterio del cuore, così esiste un omicidio del cuore: “Chiunque odia il proprio fratello è omicida” (1 Gv 3,15).

Dentro di noi, se ci facciamo caso, si svolgono quasi in continuazione “processi a porte chiuse”. Da questo fatto p. Cantalamessa trae spunto per commentare il suggerimento di un monaco: «“Osserva, anche per un solo giorno, il corso dei tuoi pensieri: ti sorprenderà la frequenza e la vivacità delle tue critiche interne con immaginari interlocutori, se non altro con quelli che ti stanno vicino. Qual è di solito la loro origine? Questo: lo scontento a causa dei superiori che non ci vogliono bene, non ci stimano, non ci capiscono; sono severi, ingiusti o troppo gretti con noi o con altri oppressi. Siamo scontenti dei nostri fratelli, senza comprensione, cocciuti, sbrigativi, confusionari o ingiuriosi... Allora nel nostro spirito si crea un tribunale, nel quale siamo procuratore, presidente, giudice e giurato; raramente avvocato, se non a nostro favore. Si espongono i torti; si pesano le ragioni; ci si difende e ci si giustifica; si condanna l’assente. Forse si elaborano piani di rivincita o raggiri vendicativi...” (Un monaco, Le porte del silenzio, Milano 1986, p. 17). I Padri del deserto, non dovendo lottare contro nemici esterni, hanno fatto di questa battaglia interiore ai pensieri (i famosi logismoi) il banco di prova di ogni progresso spirituale. Hanno anche elaborato un metodo di lotta. La nostra mente, dicevano, ha la capacità di precorrere lo svolgimento di un pensiero, di conoscere, fin dall’inizio, dove andrà a parare: se a scusa del fratello o a sua condanna, se a gloria propria o a gloria di Dio».

Da tutto ciò p. Cantalamessa trae la conclusione sul rischio di scoraggiamento nel constatare l’incapacità di attuare le beatitudini nella propria vita. «Si deve richiamare alla mente quello che si diceva all’inizio: le beatitudini sono l’autoritratto di Gesù. Egli le ha vissute tutte e in grado sommo; ma – e qui sta la buona notizia – non le ha vissute solo per se, ma anche per tutti noi. Nei confronti delle beatitudini, non siamo chiamati solo all’imitazione, ma anche all’appropriazione. Nella fede possiamo attingere dalla mitezza di Cristo, come dalla sua purezza di cuore e da ogni altra sua virtù. Possiamo pregare per avere la mitezza, come Agostino pregava per avere la castità».

“Rivestitevi, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza” (Col 3,12), scrive san Paolo. La mansuetudine e la mitezza sono come un vestito che Cristo ci ha meritato e di cui possiamo rivestirci. «La mitezza è posta da Paolo tra i frutti dello Spirito (Gal 5, 23), cioè tra le qualità che il credente mostra nella propria vita, quando accoglie lo Spirito di Cristo e si sforza di corrispondervi. Possiamo dunque terminare ripetendo insieme con fiducia la bella invocazione delle litanie del S. Cuore: “Gesù, mite e umile di cuore, rendi il nostro cuore simile al tuo: Jesu, mitis et humilis corde: fac cor nostrum secundum cor tuum”».

A cura di Mario Chiaro

1 Il tema è stato approfondito dal p. Rabiero Cantalamessa nella seconda predica di Quaresima (16/3/07).

2 Movimento eretico e scismatico, capeggiato dal vescovo Donato, sorto nelle chiese dell’Africa del nord nel IV e V secolo: eretico perché sosteneva che la validità dei sacramenti dipendesse dalla santità e integrità personale del ministro celebrante; scismatico per avere istituito una chiesa rivale a quella ufficialmente riconosciuta dalla comunione dei vescovi.