IN DIALOGO CON MONS. AGOSTINO GARDIN

COMUNITÁ LUOGO DI CRESCITA

 

Nel modo di concepire e vivere la vita comunitaria rispetto al passato è avvenuto il passaggio dalla regolamentazione disciplinare eccessiva alla fraternità. Nel momento attuale la VC avverte sempre più il bisogno di diventare il luogo in cui si creano le condizioni e il clima dello stare insieme.

 

La comunità? Un luogo di crescita, a patto di saperla vivere con la consapevolezza di quanto accade secondo la dinamica dei gruppi, proprio per riuscire a gestire situazioni, tensioni, problematiche, tenendo come riferimento forte i documenti del magistero che proiettano la vita comunitaria sul modello di sequela di Cristo. La tematica è stata analizzata e affrontata nel secondo incontro – intitolato appunto Vita comunitaria – organizzato a Roma nella sede della Libreria Dehoniana a via della Conciliazione, il 20 marzo, al quale hanno partecipato, in dialogo con il pubblico, mons. Agostino Gardin, segretario della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica e padre Giuseppe Crea, comboniano, psicologo, docente alla pontificia Università Salesiana di Roma.

I due relatori hanno messo a fuoco i diversi aspetti della vita comunitaria, in riferimento ai documenti del magistero, tenendo tuttavia ben presenti le difficoltà che ci si trova a vivere nel quotidiano e che spesso si tende a “coprire” – sbagliando – facendo ricorso alla spiritualizzazione o alla colpevolizzazione, due estremi che non fanno bene alla vita comunitaria. Non a caso, in apertura, proprio mons. Gardin si è chiesto «quale convivenza non è difficile?». «Nella vita comunitaria nulla si può mascherare e i difetti vengono in primo piano».

Il cambiamento, a suo avviso, si rileva prima di tutto nel passaggio dalla regolamentazione disciplinare eccessiva del passato, alla fraternità come atteggiamento interiore che caratterizza l’oggi. In passato si dava rilievo a quella che si chiamava “fedeltà agli atti comuni” e nella “vulgata” delle osservazioni umoristiche si usava dire che la comunità era il luogo “della più grande penitenza”. Nel momento attuale la congregazione registra una “riscoperta” della vita fraterna e dunque la comunità ha bisogno di diventare sempre di più il luogo in cui si creano le condizioni e il clima dello stare insieme.

 

LE SFIDE

DA AFFRONTARE

 

Le sfide, cui le comunità si trovano chiamate a rispondere, presentano molti nomi. E dopo l’inquadramento generale di mons. Gardin, sono state nominate e successivamente messe a fuoco: il calo numerico, l’invecchiamento progressivo, il contrasto tra anziani e giovani, il venir meno delle opere e la crisi che arriva se la vita consacrata è tutta racchiusa in esse, la presenza di confratelli/consorelle provenienti da contesti culturali differenti, il ruolo delle piccole comunità e la difficile scelta del numero giusto, la necessità di procedere a fusioni. Tutti aspetti nuovi con forte impatto sulle modalità della vita comunitaria, cui si aggiunge il contenuto e la qualità delle relazioni tra le persone che ne fanno parte. In proposito, padre Crea ha portato diversi esempi nati dalla sua esperienza di consulenza psicologica: ha fatto riferimento a un caso in cui una volta messi tutti i componenti della comunità a confronto e in dialogo, sono letteralmente esplosi conflitti e tensioni, con scambi di accuse tra superiore e confratelli e tra questi ultimi, con l’aspetto positivo che – appunto – i conflitti da nascosti sono diventati espliciti. «Il nodo di fondo è la chiarezza degli obiettivi – ha spiegato padre Crea – e dunque deve esserci in tutti un’ampia consapevolezza sul fatto che si sta insieme perché si cresce. La comunità infatti è un luogo di crescita radicato nella dinamica dei gruppi ed è una testimonianza concreta in un luogo concreto nello spazio e nel tempo, dove le persone si incontrano al prezzo della riconciliazione. Un prezzo possibile soltanto se c’è un obiettivo che accomuna, espresso dai documenti del magistero che identificano il significato della vita consacrata». In proposito, mons. Gardin è intervenuto in maniera molto efficace per ricordare che «la vita consacrata non è un oggetto conservato in una sorta di atmosfera controllata. Piuttosto subisce l’influenza delle condizioni esterne e dunque è sempre valido l’interrogativo su come conservare fedeltà al carisma nel modificarsi delle situazioni di vita e delle situazioni esterne. In passato ad esempio non esisteva la multiculturalità, che è invece un fenomeno oggi prevalente e destinato a portare risultati nuovi e cambiamenti».

Quanto alla domanda concreta sulle dimensioni “giuste” della comunità e alla necessità di forme nuove di vita più radicate in mezzo alle persone, meno legate alle grandi strutture conventuali, mons. Gardin ha notato che non è possibile fornire una risposta univoca. «Le dimensioni non sono essenziali. La grande comunità può correre il rischio di restare staccata dall’ambiente che la circonda; la piccola comunità, magari in appartamento, vive maggiormente il contatto e tuttavia corre il rischio di trovarsi più esposta e soggetta al condizionamento dei tanti impegni cui si deve rispondere, perdendo magari di vista la fedeltà alle caratteristiche della stessa vita consacrata». Equilibrio quindi come parola d’ordine. «Quando ci si cala nella realtà di tante periferie di megalopoli, in America Latina o in Africa, si vive una difficoltà estrema a concentrarsi, a pregare, presi proprio dalle situazioni drammatiche e difficili in cui si vive. Allo stesso tempo, le situazioni estreme aiutano a comprendere che il positivo si trova seguendo la dinamica delle relazioni autentiche con gli altri e nella condivisione di vita».

 

COMUNITà

CASA PROPRIA

 

Padre Crea ha ricordato, su tale aspetto, il rischio esistente nelle piccole comunità di «una conoscenza reciproca che può diventare intrusiva». Oltre al numero, bisogna saper fare i conti «con la progressione delle sfide: la formazione, le diversità culturali, l’invecchiamento, la riqualificazione delle opere, sono tutti elementi di novità che chiedono delle risposte per saper contemperare le esigenze delle persone e le esigenze del bene comune. La ricerca dunque porta sempre in due direzioni: da un lato caratterizzare l’identità personale, dall’altro trovare e ritrovare i motivi dello stare insieme». Del resto la vita comunitaria è collegata in maniera essenziale alla vita religiosa, come ha bene ricordato mons. Gardin, rilevando l’espressione di san Basilio: «se stai da solo chi ti laverà i piedi?».

Dunque celibato e vita comune fin dai primi secoli del cristianesimo rappresentano la forma caratteristica dello stile di vita dei consacrati a Dio, in cui appunto l’essere per l’altro prende forma nella vita in comune. La questione che oggi interpella in maniera specifica consacrati e consacrate, riguarda le forme concrete, il modo di affrontare i problemi, la capacità dei superiori e delle superiore nello svolgere il ruolo di guida delle comunità loro affidate. Prendendo la parola, padre Crea ha riportato alcuni esempi riusciti di capacità del superiore di «esserci anche quando non è presente». Il caso positivo di un superiore ascoltato e stimato, ad esempio, che viene imperiosamente richiesto dalla comunità quando la sua assenza per motivi di lavoro si prolunga troppo in là nei giorni. Oppure un secondo caso di un superiore capace di mettere in discussione le sue modalità di gestione, accorgendosi che alle riunioni mancava sempre qualcuno – o gli anziani o i giovani, tutti con scuse plausibili – episodi dietro i quali ha avuto l’opportunità e la capacità di leggere un segnale di disagio, risolto grazie al coraggio nell’affrontare in maniera aperta le difficoltà, impedendo di farle sedimentare in sentimenti e comportamenti capaci di dare vita a pregiudizi dannosi per la vita comunitaria stessa.

«Se uno sente la comunità come casa sua, ci torna volentieri», ha osservato in proposito mons. Gardin, rilevando che nelle analisi a volte occorre essere impietosi per arrivare fino ai dettagli dei comportamenti, per poter cogliere dei nodi irrisolti. Così – ha spiegato l’arcivescovo – a volte si rimprovera a un confratello di confidarsi più con gli esterni, magari con i laici, che con i religiosi della stessa comunità. Eppure se vado dal medico per una visita e tornando in comunità nessuno mi chiede notizie, nessuno si interessa, mentre invece è il laico che si informa e mostra premura, l’accusa di non confidarsi diventa pretestuosa e indicatrice di rapporti irrisolti. L’attenzione che si ha verso ogni componente della comunità stessa, ci fa capire il livello di consapevolezza del gruppo stesso nel rispondere alla comune chiamata. D’altra parte, aprendo questo snodo del discorso, si è potuto affrontare il tema, collegato, del ruolo del superiore e della superiora nel favorire la crescita comunitaria.

 

SEGNI

DI VITALITÁ

 

Anche se alla leadership verrà dedicato in maniera specifica il successivo incontro alla Libreria Dehoniana (il 24 aprile, alle ore 17.30), un primo giro di orizzonte ha permesso di stabilire alcuni aspetti che saranno successivamente approfonditi. In particolare mons. Gardin ha notato che la caratteristica principale del superiore e della superiora «è di essere un leader spirituale. Non è la persona che guida un gruppo che lavora» e forse per questo «è così difficile trovare persone dotate della capacità di animazione, che sappiano valorizzare e far crescere piuttosto che dare ordini». Lo stato di salute della vita comunitaria si presenta allora come un misto di percorsi e relazioni comuni e di capacità di direzione spirituale degli stessi. «Non basta vivere sotto lo stesso tetto – ha sottolineato mons. Gardin – o partecipare a tutti gli appuntamenti che ci si dà. Occorre piuttosto e soprattutto che ci siano percorsi e relazioni comuni». In proposito, il segretario della Congregazione si è soffermato sugli “strumenti” che sono a disposizione della vita consacrata per percorrere un cammino fecondo di vita. Ha citato, in questo senso, «il discernimento comunitario, la revisione di vita, il progetto comunitario, la correzione fraterna, quali altrettanti strumenti per fare in modo che la comunità diventi davvero tale». In particolare il “progetto comunitario” è oggi «un percorso impegnativo, che si basa sulla ricerca dei valori comuni, parte dall’analisi della realtà concreta, prevede momenti di direzione e di verifica. In questo senso, il leader è tale se è capace di mettere in movimento tutto il gruppo e in questo modo il gruppo stesso diventa coeso verso l’obiettivo cui deve tendere».

E il segno della salute del gruppo? «Me ne accorgo se quando sono fuori, desidero ritornare all’interno della comunità. Se invece il rientro pesa, fa soffrire, abbiamo un segnale di disagio da non ignorare».

E infine l’ultimo aspetto toccato ha riguardato la necessità che la vita comunitaria sia vissuta «dando il primato a Dio» e non alle opere. Mons. Gardin infatti, dalla sua esperienza e dall’osservatorio costituito dalla Congregazione, ha notato l’importanza di riuscire a prendere le distanze dalle opere che vengono svolte, in quanto tali. Accade di frequente che se va in crisi l’opera che si svolge, per mancanza di personale, per cambiamenti nel mondo circostante, per tanti fattori legati alle persone e ai contesti, la ripercussione è tale da far entrare in crisi tutta la comunità. Capita, appunto, quando la comunità è tutta concentrata sull’opera, quando su di questa si basa la ragion d’essere e di vita della comunità stessa. Non potrebbe darsi dunque un errore più grande e per mettersi al riparo «va assolutamente riscoperto il ruolo di religiosi che vivono il primato di Dio».

 

Fabrizio Mastrofini