15 MAGGIO: DOMENICA DELLA MISERICORDIA

MISERICORDIA MA ANCHE GIUSTIZIA

 

La riflessione mostra come la misericordia non possa mai essere disgiunta dalla giustizia. In realtà misericordia e giustizia costituiscono un tutt’uno. Ambedue fanno parte del medesimo messaggio evangelico. Da questa visione derivano importanti conseguenze anche per la vita religiosa.

 

Quando si parla di misericor-_dia con questo termine, afferma p._Schalück,1 spesso si intende un atteggiamento di condiscendenza che finisce col fe­rire la dignità della persona, anche di quella che è povera e soffre. Nasce così facilmente il sospetto che la misericordia trascuri le esigenze della giustizia e perfino che si vogliano consolidare situa­zioni di ingiustizia. A dare luogo a questa associazione di idee è una certa prassi “caritatevole”. In realtà misericordia e giustizia costituiscono un tutt’uno. Ambedue fanno parte del medesimo messaggio evangelico.

La misericordia, osserva p. Schalück, è una qualità primordiale del Dio della Bibbia. Sono numerosi i passi che ne parlano: «Paziente e misericordioso è il Signore, lento all’ira e ricco di grazia» (Sal 145, 8; cf. 111,4); «Buono e giusto è il Signore, il nostro Dio è misericordioso» (Sal 116,5). Questo è testimoniato anche nel Nuovo Testamento. Paolo comincia così la seconda lettera ai Corinti: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» (2 Cor 1,3).

La misericordia di Dio si concretizza sopratutto nel perdono della colpa, garantisce prote­zione e vita. L’uo­mo non viene rin-_chiuso nel buio della sua storia passata. Al contrario, Dio con il perdono lo libera per una vita nuova. Gesù è il rivelatore della misericordia di Dio. Incontrandolo, gli uomini sanno di essere accolti e amati. Ciò vale non solo per quegli individui e soprattutto quelle donne che nel sistema sociale e religioso di quel tempo erano ritenuti degli esclusi. In concreto Gesù si rivela in un atteggiamento che noi oggi siamo soliti a definire “inclusivo”. In contrasto con ogni regola di correttezza politica e religiosa, egli invita a sé gli uomini che sono ai margini o anche destinati a stare “fuori”. Dai margini egli li mette al centro. Con parole e gesti risanatori dona loro senso, vita e speranza. Con il suo insegnamento e le sue azioni manifesta che per tutti, in particolare per i poveri, ci sono spazi di vita che possono essere aperti mediante la giustizia e la misericordia. Dio vuole la misericordia, la giustizia e il bene di tutti (cf. Os 6,6; 12,7; Zc 7,9). La parabola del buon samaritano (cf. Lc 10,37) contiene in un breve spazio di tempo elementi di un agire realmente diaconale, validi anche oggi: l’azione concreta e sensibile, che supera i limiti religiosi e cultuali e che può essere definita “continuata”, poiché il samaritano al di là delle cure spontanee immediate, pensa già al domani e vi provvede con saggezza.

Nelle discussioni con i farisei Gesù chiede (in armonia con Os 6,6) misericordia, non sacrifici. Dio elargisce la misericordia in libertà sovrana. Non è costretto da nessuna cosa. Un punto culminante del messaggio biblico del Dio misericordioso è la parabola del figlio prodigo (cf. Lc 15,11-32). Le parole di Gesù e il suo esempio si possono riassumere nell’invito: «Siate misericordiosi come il Padre vostro celeste» (Lc 6,36).

 

UNA CONSEGUENZA

PER L’AGIRE SOCIALE OGGI

 

La misericordia intesa solo come semplice “azzeramento” non è in grado di rendere umana la vita dell’uomo. Certi programmi di giustizia hanno avuto infatti come effetto troppe inimicizie, odio e crudeltà. Non esiste tuttavia alcuna contraddizione tra giustizia e misericordia. «In nessun passo del messaggio evangelico il perdono, e neanche la misericordia come sua fonte, significano indulgenza verso il male, verso lo scandalo, verso il torto o l’oltraggio arrecato. In ogni caso, la riparazione del male e dello scandalo, il risarcimento del torto, la soddisfazione dell’oltraggio sono condizioni del perdono» (Dives in misericordia 14, cf. anche n. 4).

La giustizia ha bisogno di una forza più profonda per dare un’impronta alla vita umana e sociale. Essa nella sua essenza attinge alle sorgenti pro­fonde dello Spirito. Ciò si può vedere soprattutto nei rapporti umani vicendevoli. «Un mondo da cui si eliminasse il perdono sarebbe soltanto un mondo di giustizia fredda e irrispettosa» (14). Il mondo può diventare più umano, come sottolinea Gaudium et spes «solo se introdurremo nel multiforme ambito dei rapporti interumani e sociali, insieme alla giustizia, quell’ ”amore misericordioso” che costituisce il messaggio messianico del Vangelo» (14; GS 40). Gesù con la sua vita e la sua morte ha eliminato il contrasto fra giustizia e misericordia. Ambedue hanno la loro origine e il loro compimento nell’amore. Perciò la misericordia conferisce alla giustizia una nuova forma. Misericordia e compassione costituiscono anche un’importante parentesi che abbraccia la dottrina sociale della Chiesa e il messaggio di salvezza. Testimoniano l’intima forza definitiva del Vangelo e della Chiesa. Così intesa la misericordia può cambiare il mondo. L’amore misericordioso può essere una potente forza rivoluzionaria. Contiene un poderoso potenziale spirituale capace di cambiare i rapporti umani e le stesse strutture socio-politiche.

 

APPLICAZIONI PRATICHE

PER LA VITA RELIGIOSA

 

Nella concezione cristiana la misericordia e la giustizia si fondano sull’uguale immagine e somiglianza di Dio di tutti e sulle affermazioni di fondo del Nuovo Testamento secondo cui nell’unico Signore tutti sono ora fratelli e sorelle. Se Dio in Cristo si fa simile all’uomo, allora tutti gli uomini sono uguali tra loro in dignità. Misericordia e giustizia sono tuttavia parole che indicano azione. Esprimono la fatica che si fa per giungere a realizzare un livello comune di comprensione nell’incontro tra persone, culture e religioni. Significano longanimità, riconoscimento della propria indigenza e capacità di realizzazione, e anche moderazione, rinuncia a imporre le proprie posizioni con la forza, capacità di completarsi, vicinanza ai poveri e ai deboli, rinuncia al diritto del più forte, un esercizio di spiritualità e di pratica del dialogo. Fare giustizia non è in primo luogo un compito della giurisdizione e dei responsabili politici. La giustizia che deriva dalla misericordia comincia nella mente, nel cuore, nel riconoscimento dell’altro. Essa rinuncia ai pregiudizi e apre porte che altrimenti rimarrebbero chiuse. Assume spesso anche il nome di tolleranza. Non tollera solo con pazienza la diversità dell’altro, ma si impegna anche per i suoi diritti che non sono quelli propri. Da coloro che sono veramente “giusti” e “misericordiosi” scaturiscono forze di guarigione e di riconciliazione come in Gesù stesso. Tenendo presente questo, possiamo ricavare quattro applicazioni concrete.

 

Rendere giustizia agli altri

 

Il carattere internazionale della nostra Chiesa e di molti istituti religiosi offre specifiche possibilità per una positiva globalizzazione del mondo. Fratelli e sorelle di culture e lingue del tutto diverse in una comune visione del regno di Dio cercano di plasmare il mondo. Noi godiamo del “vincolo comune” della fede. L’appartenenza a una particolare “famiglia religiosa” costituisce un vincolo famigliare al di là delle barriere delle diverse esperienze, di vita, fede e sensibilità. Abbiamo il dovere di raggiungere degli scopi comuni. Possiamo pregare insieme e celebrare insieme l’Eucaristia. I cristiani e le persone consacrate dovrebbero malgrado tutto mostrare in un mondo globalizzato e strutturalmente ingiusto che cosa vuol dire rendersi giustizia gli uni gli altri. Essi aprono vie d’incontro.

Rendere giustizia all’altro significa., non da ultimo, in un istituto internazionale e orientato alla missione “camminare nelle scarpe dell’altro”; cercare di guardare alla realtà con gli occhi dell’altro; cercare e riconoscere la realtà di Dio e “della sua immagine e somiglianza” attraverso varie strade. Sperimentare le vie e il linguaggio di Dio nell’ “altro”.

 

Giustizia tra i sessi

 

Ci sono molti per i quali l’espressione della “giustizia tra i sessi” suona ancora in maniera inconsueta; persino nella Chiesa, nelle istituzioni ecclesiastiche e anche nelle comunità religiose. Anche qui si pongono degli interrogativi da prendere molto sul serio: era e continua a essere “giusto” applicare modelli così diversi per quanto riguarda la formazione, l’obbedienza, il modo di intendere la libertà e, per esempio, la “clausura”, in base al fatto se uno era/è religioso o religiosa, prete o religioso laico? Certo, sta maturando una nuova mentalità e un modo nuovo di pensare e di comportarsi. Tuttavia, in un nuovo modello futuro di Chiesa e delle comunità religiose dovrà essere accolta, a mio modo di vedere, la convinzione della fondamentale uguaglianza di tutti in forme più visibili rispetto a quelle che noi oggi conosciamo. Naturalmente gli uomini e le donne sono molto diversi nei loro talenti, carismi, vocazioni e incarichi. Ma partendo dalla constatazione che l’uomo voluto e creato da Dio (cf. Gen 2) esiste solo in maniera complementare nella sua bellezza e pienezza che l’uomo o la donna da soli non hanno, l’uomo e la donna sono pari in dignità e pertanto in grado di vivere la chiamata e la capacità di esprimere l’immagine di Dio nella creazione, di parlare di lui, di agire per suo incarico. In concreto: i ruoli, le qualità, le capacità, i servizi che sono stati attribuiti in maniera, culturalmente condizionata all’uomo e alla donna, come in parte ancora avviene devono essere ripensati con criteri di giustizia e dovranno essere cambiati in molte loro parti. Sia le donne che gli uomini sono chiamati a liberarsi dagli schemi fissi e dai cliché e essere percepiti secondo nuove forme di responsabilità verso la vita, la famiglia, la professione e nella Chiesa. Non si tratta di una nuova “distribuzione dei poteri” ma di una percezione della responsabilità comune davanti a Dio, nelle nostre comunità, nell’annuncio e nelle responsabilità di guida. Si tratta della promozione dei carismi, che sono dati ad ognuno. Della realizzazione di quella vocazione complementare e tuttavia unica che Paolo vede ancora una volta fondata in maniera del tutto nuova da Gesù Cristo (cf. Gal 3,27-28; 6,15; cf. Col 3,9-11). Si tratta della giustizia non solo nei riguardi degli uomini, ma anche nei riguardi della missione creatrice di Dio.

 

Essere comunità che risanano

 

La Chiesa e le comunità religiose hanno delle sorgenti profonde a cui attingere. Possono rendere visibile nel nostro mondo un atteggiamento, uno stile di vita, una “cultura” della speranza, che nessuno è in grado di trovare a partire da se stesso. La Chiesa vive della convinzione che la storia – e tanto più quella del discepolato cristiano – non è ancora giunta alla fine, che lo Spirito di Dio continua a essere attivo, creando “nuove cose” e aprendo nuovi spazi in cui gli uomini possono vivere una “vita in pienezza” (Gv 10,10). Molte fondatrici e molti fondatori hanno incarnato nella profondità della loro vocazione valori centrali del regno di Dio: giustizia, pace, misericordia, riconciliazione; essi erano profondamente radicati nell’esperienza del Dio vivente e amoroso. Questi uomini e queste donne testimoniano che la fede vissuta possiede una forza di trasformazione. Essi sono anche per noi qui e oggi una fonte di speranza che – sia nella vita personale come anche nel rapporto più ampio col mondo – l’amore e la solidarietà possono dimostrarsi più forti della violenza e della distruzione, nonostante tutti i profeti che parlano della decadenza e del tramonto, cose che a volte si nascondono anche in fondo al nostro cuore. La vita religiosa troverà la sua sorgente più profonda nella coscienza della presenza che tutto abbraccia dello Spirito del Signore risorto. In questo modo le nostre chiese e comunità continueranno a essere capaci di irradiare gioia, speranza e forza risanatrice, frutti dello Spirito.

Un atteggiamento “risanante” ha il suo riferimento alla misericordia di Gesù: la guarigione comincia con uno sguardo e un rapporto positivo: «Tu sei importante ai miei occhi». Ciò che noi intendiamo qui con “guarigione” ha a che fare con l’“affermazione” (= rafforzamento) che deriva da un termine latino che significa “rafforzare, infondere forza”. L’affermazione rafforza la personalità, attribuendole il suo significato personale e il sentimento di essere desiderati e accettati. Questa relazione viene percepita come qualcosa che “redime”, che “libera”. Diventa una sorgente di gioia. Ci si accorge così che fa parte dell’esistenza umana vivere assieme agli altri: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). Ciò vale per qualsiasi uomo e per le relazioni umane.

Una comunità del genere è invitante e risanatrice, irradia pace e serenità, è in grado di offrire agli ospiti uno spazio in cui uno possa ritrovarsi. Molti persone che soffrono di solitudine, cercano un fratello o una sorella o, per esempio, un avvenimento o una festa che li tirino fuori dalla loro solitudine. Con l’aiuto di una comunità amorosa possono scoprire che le loro ferite non devono essere intese come fonte di disperazione e di amarezza, ma come aspetti dell’esistenza umana e come un inizio di liberazione e di speranza – una speranza che al di là del semplice stare insieme conduce a Lui che guida il suo popolo dalla terra di schiavitù verso quella della libertà ed è venuto non per i sani ma per i malati.

Dovunque si forma una comunità del genere, risplende qualcosa del regno di Dio, ossia emerge un’esperienza di salvezza, di liberazione e di totalità. L’isolamento, la divisione, la persistente frustrazione e frammentazione sono il contrario dell’armonia, del benessere, dello “shalom”. Le nostre comunità devono diventare degli ambienti dove gli uomini, e in primo luogo noi stessi, avvertono qualcosa di ciò che è stato detto di Gesù: «da lui usciva una forza che sanava tutti» (Lc 6,19).

 

Un’opzione per la vita

 

Per la Chiesa e la sua missione si tratta dell’ “opzione per l’uomo che soffre”, nel senso inteso da Gesù. “La guarigione totale” è chiaramente una costante della sua missione (cf. Lc 4,16-24). Tutti “gli oppressi dovranno essere messi in libertà”. I numerosi racconti di guarigione del Nuovo Testamento descrivono “la storia della liberazione in forza della fede”. L’affermazione: “Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo” (Mt 4,23), è allo stesso tempo anche la descrizione di un incipiente processo sociale di cambiamento per il meglio: dove Dio “regna”, là regnano la misericordia, l’incoraggiamento a mettersi sul giusto cammino, la liberazione da ogni forma di schiavitù. E non da ultimo dalle ombre più intime della propria anima e della propria storia. Soprattutto è da tenere presente dove Gesù in definitiva vuole arrivare: a mettere in grado di comunicare (parlare, udire), a abilitare a nuove relazioni, e offrire possibilità creative con gli altri. In una parola: la guarigione che Gesù dona, e che la nostra fede dovrebbe offrire, è la “guarigione attraverso la relazione”, mediante la compassione e l’amore, la capacità di attenzione e “una competenza comunicativa”, una capacità che non viene affatto promossa dalla nostra società occidentale dell’ “immediato” e del “divertimento”. Essere Chiesa oggi, dovrebbe voler dire – sul piano locale e mondiale – anche e soprattutto essere una solida rete di solidarietà, di cui fanno parte gli oppressi. Si dovrà anche piangere e alzare la voce. E, secondo le possibilità, trovare aiuti professionali.

 

1 Riflessione, qui leggermente abbreviata nella sua prima parte, che p. H. Schalück ha proposto a un gruppo di religiose della Germania di istituti dediti alle opere di misericordia.