ESORTAZIONE APOSTOLICA SACRAMENTUM CARITATIS

MISTERO DA CREDERE CELEBRARE E DA VIVERE 

 

Il documento porta ordine all’interno delle molte suggestioni sollevate dal sinodo, ma opera anche scelte significative e riletture originali. Sul piano della forma, almeno nella parte dedicata alla celebrazione, appare piuttosto cauto, quasi preoccupato piuttosto di evitare gli abusi che di rimotivare gli usi.

 

L’Esortazione apostolica postsino­dale di Benedetto XVI Sacramentum Caritatis presenta i risultati del sinodo dei vescovi sull’Eucaristia (2005) secondo uno schema che pone in successione l’Eucaristia come mistero da credere, da celebrare e da vivere. Vorrei soffermarmi brevemente sulla seconda parte, dedicata agli aspetti liturgici, pur facendo più rapidi cenni anche alla prima e alla terza.

 

Sullo sfondo: l’unità del rito romano nel suo divenire storico

 

La prospettiva di osservazione sul rito dell’Eucaristia è ampia, millenaria, preoccupata di reperirne fino in fondo la tradizione in tutta la sua articolazione. Essa legge con ammirazione e stupore «lo sviluppo, ordinato nel tempo, delle forme rituali» (n. 3) in cui la Chiesa fa memoria dell’evento della salvezza. Anche il concilio Vaticano II costituisce un anello importante in questa catena della tradizione, i cui anelli non possono essere né spezzati né saltati, ma letti nello «sviluppo storico del rito stesso, senza introdurre artificiose rotture» (n. 3). Il che significa, evidentemente, che il passaggio dalla molteplicità delle origini, alla unità post-tridentina, fino alla riforma successiva al Vaticano II costituisce una storia benedetta e irreversibile, che non ammette né improvvide e avventate rotture, né miopi o nostalgiche retromarce. L’unità è garantita dal succedersi storico delle diverse forme, non dall’assolutizzarsi di una sola di esse, al di fuori della storia.

In tale contesto complessivo, viene presentata l’Eucaristia come mistero da credere, nel quale il Signore «inserisce il suo novum radicale all’interno della antica cena sacrificale ebraica» (n. 11): con essa è inaugurato il nuovo “culto spirituale”, nel quale figura transit in veritatem, la realtà stessa della salvezza sostituisce le sue fragili e precarie anticipazioni. E tuttavia, proprio sulla base di questa logica del contenuto da credere, la “forma” e la “figura” non perdono ogni rilievo, ma diventano importanti per assicurare quel transitus, quel “passaggio”: ecco che la liturgia eucaristica sta al centro di tutta la seconda parte. Va detto, tuttavia, che già nella prima parte il tema liturgico-sacramentale viene potentemente ripreso a partire dalla coscienza che «la Chiesa si riceve e si esprime nei Sette Sacramenti» (n. 16), e tra essi è l’Eucaristia ad avere il primato: di qui scaturisce l’attenzione dedicata dal documento ai rapporti tra l’Eucaristia e gli altri sei sacramenti (nn.17-29).

 

Lex orandi e lex credendi

 

Già il sinodo dei vescovi, nei suoi diversi documenti, aveva progressivamente messo in evidenza «il nesso tra lex orandi e lex credendi» e aveva sottolineato «il primato dell’azione liturgica» (n. 34). Queste affermazioni sono ora in grado di alimentare una grande attenzione per la cura con cui ci si dispone all’azione rituale, nei suoi rapporti strutturali con la bellezza, da non intendersi come un “fattore decorativo”, ma come elemento originario e costitutivo del rapporto tra la Chiesa e il suo Signore. Di qui si diparte una struttura di presentazione che comincia dalla relazione nel Christus totus tra caput e corpus, entrambi coinvolti pienamente nella dinamica del sacramen­to, e che prelude alla articolazione della esposizione in cinque grandi paragrafi, dedicati, rispettivamente alla ars celebrandi, alla struttura della celebrazione eucaristica, alla actuosa participatio, alla celebrazione interiormente partecipata e infine alla adorazione e pietà eucaristica. Esaminiamo ora ciascuno di questi importanti passaggi, almeno nelle linee più rilevanti.

 

“Ars celebrandi”

 

Se è vero che la competenza nel celebrare è «la migliore condizione per la partecipazione attiva» (n. 38), la chiarificazione completa di questo termine “ars celebrandi” diviene l’obiettivo di questo paragrafo. Se da un lato è possibile ridurre l’ars celebrandi alla «obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro completezza» (n. 38), essa tuttavia comporta anche qualità di carattere personale (anzitutto in capo a vescovi e presbiteri), il rispetto dei libri liturgici e della ricchezza dei segni. Inoltre per essa è altrettanto importante «l’attenzione verso tutte le forme di linguaggio previste dalla liturgia: parola e canto, gesti e silenzi,_movimenti del corpo, colori liturgici dei paramenti». E poi si aggiunge, assai significativamente: «La liturgia, in effetti, possiede per sua natura una varietà di registri di comunicazione che le consentono di mirare al coinvolgimento di tutto l’essere umano» (n. 40). Di qui derivano gli spunti dedicati all’arte e al canto liturgico, come specificazioni di questa complessiva attenzione corporea ai sensi, che richiede gusto squisito e finezza di tatto.

 

Struttura della celebrazione

 

Il documento prosegue passando in rassegna alcuni momenti della celebrazione sui quali il sinodo ha ritenuto di pronunciarsi: in particolare sul valore della liturgia della Parola, dell’omelia, sulla centralità della preghiera eucaristica, ma anche della presentazione dei doni e della distribuzione e ricezione dell’Eucaristia. Le novità più significative, in questo ambito, sembrano essere due. Da un lato, a proposito della “scambio di pace”, la indicazione della intenzione di «collocare lo scambio di pace in altro momento» (n. 49) rispetto all’attuale posizione durante i riti di comunione. D’altro canto, la richiesta di una formulazione più ampia del saluto di congedo, che possa meglio esprimere la connessione tra mistero celebrato e mistero vissuto. Si tratta di due notazioni di dettaglio, che precisano in termini di “riforma” la struttura stessa della celebrazione, così come ricevuta dal Messale di Paolo VI.

 

Partecipazione attiva

 

L’enfasi con cui il concilio Vaticano II ha indicato nella partecipazione attiva, piena e fruttuosa del popolo di Dio alla liturgia la grande luce verso cui dirigere la navicella della Chiesa mediante la riforma liturgica viene ricordata all’inizio di questo settore del documento, sebbene la definizione di actuosa participatio sia più in negativo che in positivo. Non è «una semplice attività esterna durante la celebrazione» (n. 52), né «coincide di per sé con lo svolgimento di un ministero particolare» (n. 53), né prevede “automatismi” nel ricevere la comunione (n. 55). Essa ha però bisogno di un attento e convinto processo di “adattamento” alle culture (n. 54). Di tono diverso, almeno rispetto a quest’ultima affermazione, è il richiamo al valore universale – quasi meta-culturale – della lingua latina, proposta per le grandi assemblee liturgiche, ma anche nella formazione ordinaria dei presbiteri, sia conoscitiva che celebrativa.

 

Mistagogia, adorazione, vita

 

Ancora importanti, prima di finire, sembrano due prospettive ulteriori. Anzitutto il problema, liturgico e pastorale, di reperire e sviluppare la forma più adeguata di comunicazione per formare all’azione liturgica dell’Eucaristia. Qui viene richiamato il principio, già evocato dal sinodo dei vescovi – secondo cui «la migliore catechesi sull’Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata» (n. 64). La ripresa articolata della “catechesi mistagogica” ha come scopo una vera ridefinizione della comunità cristiana come «luogo di introduzione pedagogica ai misteri che si celebrano nella fede» (n. 64).

La celebrazione, che già ha in sé la riverenza per il mistero, viene prolungata nella forma della adorazione e della pietà eucaristica (nn. 66-69) di cui si esorta alla pratica personale e comunitaria. Anche _la posizione del tabernacolo, all’interno dell’aula eucaristica, viene precisata con ulteriori dettagli rispetto alla recente edizione dell’Ordinamento generale del Messale Romano. Infine, nella terza parte, dedicata all’Eucaristia come “mistero da vivere”, va ricordata almeno tutta la prima sezione «forma eucaristica della vita cristiana», che si sofferma a lungo sul valore della domenica (nn. 72-75) perché, celebrando adeguatamente questa festa primordiale, il cristiano maturi la coscienza di “vivere secondo la domenica” tutta la propria esistenza.

 

Luci e ombre del documento

 

Le considerazioni che abbiamo fin qui svolto lasciano trapelare il valore di un testo articolato e complesso, che porta ordine all’interno delle molte suggestioni che il sinodo aveva sollevato, ma che opera anche scelte significative e riletture originali. Sul piano della forma, sembra tuttavia prevalere un tono che, almeno nella parte dedicata alla celebrazione, appare piuttosto cauto, quasi preoccupato piuttosto di evitare gli abusi che di rimotivare gli usi. Inoltre, su punti specifici, la continuità della tradizione non sembra così evidente. Se si considera – ad esempio – la questione della “distribuzione dell’Eucaristia”, ogni accenno alla comunione sotto le due specie – così potentemente ripresa dal concilio Vaticano II – sembra cadere, a favore di una accurata disamina dei rischi di abuso della comunione sotto una sola specie e anche della stessa opportunità di comunicarsi. Su questo piano, si dovrebbe dire che la continuità con il Vaticano II sembra cedere talora a favore di una discontinuità appena accennata, ma ben presente ed efficace.

Allo stesso modo colpisce la successione di argomenti che permette di passare, non senza qualche salto di argomentazione, ad esempio dal tema delle “grandi assemblee”, all’uso, in tali circostanze, della lingua latina nella liturgia, fino alla formazione latina dei ministri ordinati. Straordinario e ordinario sembrano fondersi e confondersi in un’unica prospettiva, che potrà lasciare perplesso qualche lettore, sia in fatto di realismo - per la concreta praticabilità della indicazione – sia in fatto di coerenza con l’istanza della “partecipazione attiva”, cui il paragrafo avrebbe pur sempre intenzione di riferirsi.

Infine, anche sul piano del linguaggio, il testo, che pure contiene piccoli capolavori (come ad es. i nn. 11 e 13 della prima parte), sembra cadere in qualche caso in terminologie inusuali e poco adeguate al tenore complessivo del documento, come quando - nel campo del discorso sulla “coerenza eucaristica” (n. 83) – fa uso della formula “valori non negoziabili” a proposito della famiglia, della vita, della educazione e del bene comune. Sia l’espressione “coerenza eucaristica”, sia l’espressione “valori non negoziabili” suonano più come espressioni giornalistiche che come espressioni magisteriali e perciò, creando una sorta di dissonanza nel testo, non contribuiscono ad arricchirlo di perle indimenticabili.

Andrea Grillo