DIO E LA SOFFERENZA DELL’UOMO
CROCE RIVELAZIONE DELL’AMORE
Il Dio
compassionevole, che si manifesta sulla croce, è un Dio che soffre e che muore,
e si fa vicino a coloro che sono oppressi, torturati, martirizzati. Dio è al
loro fianco e soffre con loro. Dio non divinizza la sofferenza, ma la redime,
mutandola al suo interno. Non l’elimina, ma la trasforma in speranza.
Nell’imminenza della settimana santa e
della pasqua offriamo ai nostri lettori questa riflessione sul significato
della sofferenza alla luce della croce di Cristo. È un testo assai impegnativo
tratto, in forma un po’ abbreviata, da una relazione tenuta dal card. Kasper a
un recente convegno sulla teologia della croce.
“Dio è amore”: questa affermazione, tratta
dalla prima lettera di Giovanni (3, 8.16), è stata scelta da papa Benedetto XVI
come tema della sua prima enciclica. Il documento affida così alla teologia il
compito di ripensare e riproporre in modo nuovo il discorso dottrinale su Dio,
inserendolo in un’ottica biblica di centrale importanza. La constatazione “Dio
è amore” pone una vera e propria sfida. E non solo perché a essa era
categoricamente contrario Aristotele, ritenendo che Dio, amato da tutti, non
amasse, ma fosse il motore immobile.
L’espressione “Dio è amore” è una sfida
anche perché, almeno a partire da Leibniz, Kant, Hegel e Nietzsche, essa deve
fare i conti con un’altra questione: se e come Dio sia responsabile della
sofferenza nel mondo. Lo stesso papa Benedetto XVI, di fronte all’indicibile
sofferenza e all’inaudita ingiustizia collegate al nome di Auschwitz, si è
posto la domanda: “Dove era Dio in quei giorni? Perché ha taciuto? Come ha
potuto tollerare quest’eccesso di distruzione, questo trionfo della
malvagità?”. “Perché hai taciuto? Come hai potuto sopportare tutto questo?”.1
Il problema della teodicea, ovvero la
questione di come sia possibile conciliare la sofferenza dell’innocente con
l’esistenza di un Dio buono e al tempo stesso onnipotente, costituisce il punto
più spinoso della dottrina su Dio, molto più spinoso di tutte le altre
questioni teoriche e le obiezioni che vengono sollevate sull’esistenza e la
natura di Dio. La sofferenza è la roccia dell’ateismo, ha detto Büchner, e
Stendhal ha osservato cinicamente che l’unica scusa di Dio è quella di non
esistere. Dostojevski, Camus e molti altri hanno tematizzato la questione in
modo pregnante. È stato obiettato infatti: o Dio è buono ma non onnipotente,
non potendo far niente contro l’ingiustizia, e non è allora Dio; o Dio è onnipotente
ma non buono, non volendo far niente contro l’ingiustizia, e allora è un demone
malvagio. Dopo Auschwitz, la teologia ha acutizzato ulteriormente tale
questione: alcuni hanno sostenuto che non sia più possibile parlare di un Dio
onnipotente e buono allo stesso tempo.
Vediamo dunque che il tema di cui ci
occupiamo non _è assolutamente un problema astratto, ma è una questione
profondamente esistenziale, che penetra fino al nucleo vitale della fede
cristiana e che pone la fede in Dio di fronte alla sua negazione, nella forma
umanamente più pesante. Dopo le esperienze atroci che hanno segnato il XX
secolo e quelle che si sono verificate già all’inizio del XXI, non è più
possibile schivare la questione dell’esistenza/presenza di Dio e del senso
della sofferenza innocente. Ma entrambe possono essere esaminate e discusse
solo congiuntamente.
La sacra Scrittura, a differenza di quanto
afferma Aristotele, ci indica tale stretta relazione già nelle più antiche
parti dell’Antico Testamento. Essa ci dice che Dio è un Dio misericordioso, che
prova compassione di fronte alla miseria umana (Es 34,6 s.). In modo
significativo leggiamo in Osea: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio
intimo freme di compassione» (11,8). La teologia ebraica parla per questo della
partecipazione “passionale”, addirittura del pathos di Dio nei confronti delle
sue creature e del suo popolo. Dio non troneggia impassibile al di sopra delle
atrocità del mondo. Dio è commosso dalla sofferenza e dalla gioia dell’uomo e
ad esse reagisce con gioia o dolore, con approvazione o indignazione, con amore
o con collera. Anche Gesù prova collera e tristezza di fronte alla durezza del
cuore degli uomini (cf. Mc 3,5); egli è mosso a compassione (cf. Mt 9,36); è
colto dalla paura e dall’angoscia; è triste fino alla morte (Mc 14,33ss.); alla
fine, lancia dalla croce il suo grido di sofferenza per l’abbandono di Dio (Mc
15,34).
DIO NON È APATICO
NÉ INDIFFERENTE
Il Dio del Nuovo e dell’Antico Testamento
non è un Dio apatico come quello di Aristotele, non è un Dio indifferente al
dolore umano, ma è un Dio “simpatico”, nel senso etimologico della parola, un
Dio che soffre con noi. È l’Emanuele, il Dio con noi (Is 7,14; Mt 1,23).
Tuttavia, nel tentativo di trovare una risposta al perché della sofferenza dell’innocente,
l’Antico Testamento ha dovuto percorrere un lungo cammino. Il libro di Giobbe
alla fine riprende tutte le risposte e, conducendole ad absurdum, arriva alla
conclusione che Dio è imprevedibile e che l’unica risposta possibile davanti al
mistero insondabile di Dio sia il silenzio. Nemmeno il Nuovo Testamento ci
fornisce una risposta teorica precisa, ma ricorre all’immagine
veterotestamentaria del servo sofferente (Is 53) proiettandola sulla passione e
sulla morte di Gesù, il più innocente tra tutti gli uomini. In modo quasi
trionfale sostiene: se Dio per noi non ha risparmiato neppure il suo figlio,
allora niente potrà separarci dall’amore di Dio, né la vita, né la morte (Rom
8,31-39). È alquanto significativo dunque che l’affermazione “Dio è amore” si
situi nel contesto della croce (cf. 1 Gv 4,8ss).
La costituzione pastorale Gaudium et spes
del Vaticano II ha intuito quanto rivoluzionaria fosse questa affermazione per
la nostra concezione di Dio e ha affermato: «Per Cristo e in Cristo riceve luce
quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci
opprime» (22). Il riferimento alla croce di Gesù fornisce a colui che crede una
risposta esistenziale. Ma non per questo la sfida teologica risulta risolta, al
contrario: ecco emergere di colpo altri interrogativi, in modo del tutto nuovo.
Di fatti, secondo la logica umana, la croce è stoltezza e scandalo (1 Cor
1,21.23; 2,14). Ci chiediamo allora: come è possibile comprendere la croce come
rivelazione dell’amore di Dio? La croce non è piuttosto il segno di un Dio
crudele, collerico, violento, che ha bisogno di un capro espiatorio e che
sacrifica il suo stesso figlio come prezzo da pagare per la riconciliazione?
Con il mistero della croce, la teologia si
trova confrontata a una realtà che va ben oltre ciò che la teologia negativa
aveva sostenuto. All’interno di tale tradizione teologica, Anselmo da
Canterbury aveva affermato che Dio era ciò di cui non si poteva pensare niente
di più grande (Proslogion, cap. 2), e si era spinto ancora oltre, dicendo che
Dio era più grande di tutto ciò che si poteva pensare. Ma davanti alla croce,
la teologia non s’imbatte soltanto nel limite del proprio pensiero. Davanti
all’azione imprevedibile e incomprensibile di Dio sulla croce, essa tocca il
limite di ciò che ritiene essere la realtà stessa di Dio.
La croce crocifigge il concetto che abbiamo
di Dio. Un Dio sulla croce, che soffre e che muore, è il contrario
dell’immagine di Dio che di solito ci facciamo. La croce mette in discussione
uno degli assiomi fondamentali della metafisica tradizionale, la quale, a
priori, considera come caratteristiche quasi imprescindibili di Dio
immutabilità e apatia. Non solo Aristotele, ma anche i grandi pensatori della
teologia scolastica escludevano che Dio potesse partecipare alla sofferenza di
Gesù e alla sofferenza degli uomini, poiché, così argomentavano, relazioni
reali esistono soltanto a partire dalla creatura verso Dio, ma non viceversa,
essendo Dio perfetto. Pertanto, la sofferenza della creatura non può commuovere
Dio, il quale non può soffrire.2 Ci chiediamo allora: quando la Bibbia parla
della compassione di Dio, tema centrale in tutta la Scrittura, dobbiamo
interpretarla metaforicamente?
Alcuni Padri della Chiesa e teologi hanno
osato combinare il concetto di Dio e quello della sofferenza, parlando
addirittura di un Dio che muore. Ma ecco che affiora un’altra domanda
altrettanto impellente: se prendiamo sul serio la croce e parliamo di un Dio
che muore, allora, per essere coerenti, non dobbiamo parlare anche della morte
di Dio? Hegel lo ha fatto con un vecchio canto religioso: “Dio stesso è morto”.
E con particolare veemenza Nietzsche è entrato in campo proclamando, contro il
cristianesimo, che Dio è morto. La teologia del “Dio è morto”, negli anni
sessanta e all’inizio degli anni settanta, voleva demolire tali affermazioni,
credendo di poter interpretare il Dio cristiano in modo ateo. Nel frattempo,
destinata a durare ben poco, anch’essa è morta (e ha avuto la sorte che ben
meritava). Ma il problema rimane. Non pochi contemporanei ritengono infatti che
le indicibili sofferenze e ingiustizie nel mondo provino l’assenza,
l’impotenza, o se non altro il silenzio di Dio. Nessuna vita pare scaturire
ormai da Dio; Dio, o almeno il messaggio di Dio, è morto.
La croce come risposta alla domanda
sull’esistenza di Dio di fronte alla sofferenza dell’innocente nel mondo è
dunque tutt’altro che una risposta semplice e compiacente. Piuttosto, è una
risposta scomoda, difficile, che ci induce a intraprendere una riflessione teologica
ancora più approfondita. La croce è al contempo fondamento e critica della
teologia. Essa ci spinge a ridefinire ciò che intendiamo con Dio.
CONTESTO STORICO
ED ECUMENICO
Guardando agli sviluppi storici più antichi
e a quelli più recenti, incontriamo vari tipi di teologia della croce.
La Teologia dei Pastori
I Padri della Chiesa del II e III secolo
interpretarono la croce, sulla base del Nuovo Testamento, come uno scandalo.
Tertulliano definisce il cristianesimo come religione della croce (Apol.,
16,6). I primi Padri ribadiscono il paradosso del Dio che, incapace di
soffrire, ha sofferto. Alcuni tra loro, come Atanasio e Ilario di Poitiers,
parlano senza esitazione del Dio sofferente e crocifisso; Tertulliano dice
addirittura “Deus mortuus” (Adv. Marcionem II, 16,3). Ancora i monaci
theopaschiti, durante questa controversia del VI secolo, affermavano che una
delle tre persone divine aveva sofferto. E il V concilio ecumenico confermava
tale posizione. Tuttavia, con la svolta costantiniana e il famoso presagio “In
questo segno vincerai”, la croce non è più vista come scandalo. Comincia a
predominare il motivo della croce vittoriosa, vessillo di trionfo. Già in
Gregorio di Nazianzo troviamo l’espressione: “il segno invincibile della croce”
(Oratio 45,21). Ancora a questa connotazione vittoriosa s’ispira l’arte
romanica, nel modo ad esempio in cui rappresenta la croce e la posiziona
all’interno della chiesa sull’arco trionfale, all’entrata del presbiterio.
La Teologia medievale
Nel Medioevo, a partire da Bernardo di
Chiaravalle, si sviluppa una particolare forma di pietà, che accentua la
dimensione della compassione, ponendo al centro dell’attenzione la debolezza
umana e la sofferenza di Cristo. L’identificazione con la sofferenza di Gesù è
esemplificata in modo pregnante dalle stigmate di s. Francesco di Assisi. Nel
tardo Medioevo, la devotio moderna, attraverso la continua contemplazione della
passione, doveva condurre all’imitazione di Cristo, incoraggiando il fedele a
partecipare alla passione del Signore e a seguire il suo cammino di croce.
Ricordiamo, a tal proposito, due opere molto significative: De imitatione
Christi e De passione Christi di Tommaso da Kempen. Questa nuova forma di pietà
ispirò anche una nuova immagine della croce: il crocifisso gotico, incoronato
di spine, con il volto segnato marcatamente dal dolore. In un tempo in cui
l’Europa era sconvolta dal flagello della peste, rivolgere lo sguardo al
crocifisso, all’uomo del dolore, significava cercare consolazione nel mezzo
della miseria umana.
La pietà medioevale, che in tempi più
vicini ai nostri si è sviluppata nella pietà del Sacro Cuore di Gesù, esprime
in modo suggestivo il significato soteriologico, esemplare e spirituale della
croce. Tuttavia, manca la dimensione teologica: si parla cioè del significato
della croce all’interno della riflessione condotta sull’uomo, ma non di quella
condotta su Dio. Il quadro classico della metafisica greca, tranne poche
eccezioni, rimane il punto di riferimento pressoché inalterato.
La Teologia di Lutero
A segnare una nuova svolta è la teologia
della croce di Lutero,3 che parla di una theologia paradoxa. Secondo Lutero, il
vero teologo non è colui che arriva alla conoscenza dell’essenza invisibile di
Dio attraverso la realtà creata, ma è colui che comprende attraverso la
passione e la croce ciò che è visibile di Dio e ciò che di lui è stato
manifestato nel mondo. La croce, da sola, è contenuto della teologia e della
predicazione: Crux sola est nostra theologia (WA 5, 176,32 s). Lutero oppone
questa theologia crucis alla theologia gloriae della scolastica. Secondo lui,
Dio può essere realmente conosciuto soltanto sul cammino della croce. Mentre il
peccatore ha corrotto ogni cosa, Dio ha raddrizzato tutto e ha fatto della
croce un cammino di salvezza. Sulla croce egli è sub contrario absconditus (WA
56, 392). “Dio contro Dio a favore degli uomini”, “Il Dio misericordioso contro
il Dio collerico, per il nostro bene”, così è stata descritta e riassunta la
teologia della croce di Lutero.
Il pensiero di Lutero ha fatto storia non
solo nella teologia, ma anche nella filosofia. Esso, ad esempio, è stato
ripreso e sviluppato in modo significativo dalla filosofia dialettica di Hegel.
Secondo Hegel, Dio realizza se stesso come soggetto assoluto attraverso il suo
porsi al di fuori di sé e il suo auto-differenziarsi; non vi è pertanto una
chiara distinzione tra la storia di Dio e la storia del mondo. Dal punto di
vista teologico, questo comporta una profonda ambiguità. L’interesse per la
teologia consiste tuttavia nel fatto che Hegel abbia collegato il significato
della croce alla riflessione su Dio, fornendo un importante spunto per lo
sviluppo moderno della teologia protestante. In riferimento e in opposizione ad
Hegel, il più recente pensiero protestante di Barth, Moltmann e Jüngel è giunto
a una teologia della croce che, nel differenziarsi dalla teologia naturale di
stampo metafisico, rimane fedele all’istanza di Lutero. Per questi teologi la
croce, e in fondo soltanto la croce, è il punto di partenza per conoscere Dio,
è il luogo in cui Dio definisce sé stesso.
Alla base di tale teologia vi è il concetto
di una relazione tra Dio e uomo, e tra fede e ragione, che non lascia spazio
alla cooperazione umana. Questo vale sia per la natura e l’azione umana di Gesù
Cristo, che per la partecipazione degli uomini al processo di salvezza,
partecipazione resa possibile dalla grazia divina. L’aut-aut nella teologia
della croce di Lutero lo porta a non riconoscere agli uomini la capacità di
cooperare alla propria giustificazione. Ecco perché questa teologia è di
cruciale importanza per il dialogo ecumenico sulla dottrina della
giustificazione. Anche se in tale ambito siamo pervenuti nel frattempo a un
accordo su questioni fondamentali, molti punti rimangono aperti e dovranno
essere ulteriormente discussi proprio alla luce della teologia della croce.
La teologia orientale
Un’altra via, con caratteristiche proprie,
ci viene indicata dalla teologia russo-ortodossa sviluppatasi nella prima metà
del XX secolo. Il suo ambiente vitale è la liturgia ortodossa, che attribuisce
alla croce un’importanza ancora più centrale di quella riconosciutale in
occidente. Questa teologia è segnata dall’esperienza del dolore, in particolare
dalla capacità del popolo russo di sopportare la sofferenza e
dall’interpretazione kenotica dell’esistenza umana, tipica anche dei romanzi di
Dostojevski. Diversi nomi possono essere citati: Solovjev, Tarejev e, il più
importante di tutti per la teologia, Bulgakov. Per quest’ultimo, tutta
l’economia della salvezza è caratterizzata dalla synkatabasis (condiscendenza;
abbassamento) di Dio. Essa inizia già con la creazione e arriva al suo culmine
con l’incarnazione e la crocifissione. Sia nella creazione che nella redenzione
l’infinito Dio lascia nondimeno spazio a una realtà “non divina”, ovvero opta
per una “auto-limitazione”. Fondamentale è la struttura kenotica dell’economia
della salvezza, resa possibile dal rapporto tra le persone della Trinità, le
quali, comunicando nell’amore, si lasciano spazio l’una all’altra. Bulgakov
parla addirittura di un sacrificio di sé intertrinitario, che si concretizza
nella storia sulla croce.
Alla luce di ciò che è stato appena detto,
si capisce quanto, nel dialogo ecumenico, si possa imparare dalla ricchezza
della spiritualità e della teologia ortodosse. Ma se è vero che la grandezza di
tale visione è innegabile, è anche vero che in essa è insito un rischio da non
sottovalutare. Questa grandiosa visione unitaria potrebbe cioè far perdere di
vista il carattere misterioso e da non deviare che la croce riveste nella
storia, facendo inavvertitamente slittare la teologia nella sofiologia. La
Sofia diventerebbe allora una realtà sovracristologica e la croce storica sul
Golgota non sarebbe altro che la trasposizione visibile di un Golgota
metafisico.
Mentre la posizione luterana tende verso un
“aut-aut” di kenosi e Logos, contrapponendo l’uno all’altra, i teologi
ortodossi russi tendono, come Hegel, a interpretare in modo speculativo il
Logos come kenosi, svuotando del suo significato costitutivo il mistero della
kenosi che ha avuto luogo storicamente sulla croce. Ciò spiega perché esistano
forti riserve nei confronti di tale teologia all’interno dell’attuale Chiesa
ortodossa russa.
La teologia cattolica
Sulla base di una rilettura della Scrittura
e della tradizione patristica stimolata dalla teologia ortodossa e da alcuni
concetti fondamentali del pensiero di Lutero, anche l’odierna teologia
cattolica ha sviluppato una teologia della croce. Tra i nomi da ricordare, il
più importante è sicuramente quello di H. U. von Balthasar, a cui ritorneremo
in seguito. Ma la prima domanda che ci dobbiamo porre è: dove si situa la
teologia cattolica all’interno di questa discussione? La teologia della croce
luterana è di stampo paolino; quella ortodossa viene solitamente descritta come
giovannea. Quale è la caratteristica della teologia cattolica della croce?
La tesi qui sostenuta, che verrà argomentata
più sotto nel dettaglio, è che la teologia della croce cattolica sia
primariamente sinottica e possa essere definita petrina, come si spiegherà tra
breve. Questa argomentazione parte dalla croce storica e dalla sua
interpretazione biblica; nella croce storica tenta di comprendere il Logos. In
questo senso si tratta di una teologia “dal basso”, che non contrappone la
kenosi al Logos, né comprende speculativamente il Logos come kenosi, ma lo
ricerca nell’evento storico della kenosi e legge nella croce la rivelazione
dell’amore divino.
LA SOSTITUZIONE
VICARIA
La tesi appena formulata ci porta, come
secondo passo, a ricercare i fondamenti biblici. L’esegeta Martin Hengel, di
Tubinga, nel suo scritto “Pietro sottovalutato”, ha menzionato validi motivi
che dimostrano sorprendentemente come la tradizione sinottica, attraverso
Marco, discepolo di Pietro, risalga fino a quest’ultimo. Hengel sostiene
addirittura che la teologia di Pietro possa essere equiparata a quella di
Paolo. Hengel ritiene anche che si possa ricondurre a Pietro l’interpretazione
sinottica della croce, sulla base del concetto di sostituzione vicaria. Il
concetto di sostituzione vicaria, già presente nella teologia
veterotestamentaria del servo sofferente (Is 52,13-53,12), è fondamentale per
la venuta di Gesù in mezzo agli uomini, a iniziare dal battesimo nel Giordano,
fino ai racconti della passione (Mc 10,45) e a quelli dell’ultima cena, che
interpretano l’evento della croce come morte vicaria “per gli altri”. Dalla
tradizione sinottica, di stampo fortemente petrino, il concetto di morte
vicaria passa poi alla tradizione paolina (2 Cor 5,21) e a quella giovannea (Gv
3,16).
Quello della sostituzione è dunque un
concetto chiave in tutti i Vangeli e nell’intero Nuovo Testamento. Esso sembra risolvere
il nostro problema, poiché può essere considerato il giusto punto di partenza
biblico per una teologia della croce. Questo concetto è espresso nel Nuovo
Testamento con la formula “per voi”, “per noi”, “per molti”, avente un triplice
significato. Essa ci dice che Gesù ha dato la sua vita “al posto di” noi
peccatori; noi come peccatori siamo assoggettati alla morte e non possiamo
aiutarci da soli. In questa situazione, Dio è venuto in nostro soccorso ed ha
assunto su di sé in modo vicario la maledizione del peccato, della morte,
dell’abbandono di Dio. Il primo significato è dunque quello dell’intervento
personale di Dio. Il secondo si riferisce al fatto che Gesù ha dato la sua vita
“per noi” e “per molti”; è quello del sacrificio di Cristo per il nostro bene,
in nostro favore. Infine la formula ci indica che Gesù ha compiuto tutto ciò “a
causa” nostra, spinto da compassione verso di noi.
La Kenosi
per amore
Agire in modo vicario significa quindi che
Dio interviene al posto del peccatore, operando uno scambio, per la sua
generosa misericordia e il suo infinito amore. Egli fa questo per noi e per il
nostro bene, interviene per noi, muore al nostro posto affinché noi viviamo.
Gesù prende il posto degli ultimi per farci posto presso Dio. La kenosi è la
forma esistenziale dell’amore nella condizione del peccato. Non si svuota nel
niente; essa mira piuttosto a riportare il bene, a ripristinare l’ordine voluto
da Dio.
L’idea della sostituzione vicaria è stata
accolta anche all’interno del credo apostolico. In modo conciso, si può dire
che Dio è diventato uomo, è entrato pienamente nella condicio humana, affinché
noi siamo divinizzati. Il concetto di sostituzione vicaria è dunque un concetto
teologico chiave, che esprime la legge di una struttura in processo di
divenire. È la legge del chicco di grano che deve morire per produrre frutto
(Gv 12,24). È la legge del lasciare tutto per raccogliere un guadagno
centuplicato (Mc 10,28). È soprattutto la legge dell’amore. Soltanto nel darsi
all’altro e nell’esserci pienamente per l’altro, l’amore realizza se stesso.
L’abbandonare per guadagnare è la legge fondamentale dell’amore e dell’amicizia
(Gv 15,13). Essa è la legge di Cristo: portare i pesi gli uni degli altri (Gal
6,2).
È precisamente in questo ampio contesto che
va compreso il grido di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?” (Mc 15,34). Questo grido è espressione del profondo svuotamento
di se stesso che compie Gesù e della sua totale solidarietà con noi. Egli
assume davvero su di sé il peso dell’abbandono di Dio, dell’eclissi di Dio dal
mondo. Tuttavia, questa citazione dell’inizio del Salmo 22 è, in linea con la
tradizione ebraica, un riferimento all’intero salmo, il quale comincia, è vero,
con il lamento per l’abbandono di Dio, ma si conclude con la riconfortante
certezza che Dio rimane fedele al suo popolo. Per questo, il grido di abbandono
lanciato da Gesù non può assolutamente essere letto in chiave atea. Esso non ci
dice che Gesù ha per così dire rinunciato al suo essere Dio, ma esprime
piuttosto il fatto che Dio ci soccorre e ci salva perfino nella notte d’eclissi
più buia in cui l’uomo possa trovarsi, in cui noi, soprattutto al presente, ci
troviamo. Anche in una simile situazione, egli è il Dio presente, egli è il Dio
con noi. Luca ha interpretato giustamente le dure parole dell’abbandono
riportate in Marco, dicendo: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”
(Lc 23,46). E in Giovanni troviamo l’affermazione che corona il mistero della
croce: “Tutto è compiuto!” (Gv 19,30).
Anche le parole della kenosi nell’inno
della Lettera ai Filippesi (2,7; cf. 2 Cor 8,9; Eb 2,9) vanno capite in questo
senso. Kenosi significa svuotamento, cessione, rinuncia, alienazione.
Attraverso la propria auto-alienazione, Gesù, che era Dio nella forma, ha
scelto di prendere il posto di noi peccatori, di noi che siamo assoggettati
alla morte e quindi suoi servi. Ecco perché Gesù assume la forma di servo. Ma
lasciandosi crocifiggere non per necessità del destino ma per sua propria
volontà e per obbedienza al Padre, egli sottrae alla morte il suo pungiglione e
ci libera dalla schiavitù, dandoci una nuova vita. L’auto-alienazione non si
esaurisce dunque nel vuoto, nel nulla; al contrario, essa è la via verso
l’innalzamento, tramite cui Gesù diventa Kyrios, ovvero Signore del mondo. La
morte di Gesù è la morte della morte e la liberazione a nuova vita. Agostino ci
fornisce una giusta interpretazione di tutto questo quando scrive in modo
conciso e pregnante: “Solo perché Dio, abbassandosi, si è reso presente e
attivo, è possibile dire: ‘Ucciso dalla morte, egli uccide la morte’ “ (In Jo
XII, 10 s.).
Si capisce dunque perché per Paolo la croce
costituisca il mistero della sapienza di Dio (1 Cor 1,7-25; 2,6-10; 2 Cor 13,4)
e la parola della croce sia l’essenza del messaggio salvifico. Negli scritti
più tardi del Nuovo Testamento la croce assume addirittura una dimensione
cosmica; attraverso la croce, tutto viene riconciliato a Dio (Col 1,20).
L’Apocalisse giovannea ci presenta l’agnello immolato come luce del cosmo (Ap
21,23). Nel Nuovo Testamento la kenosi non è quindi contrapposta al Logos; sul
Logos essa getta una nuova luce. A sua volta, il Logos non può essere interpretato
in maniera speculativa e dialettica come kenosi. Piuttosto, è la kenosi della
croce a svelare pienamente il senso del Logos, che è l’amore. E l’amore è il
senso dell’essere. Detto questo, ecco che abbiamo compiuto il primo passo verso
una trattazione sistematica della teologia della croce.
LA CRISTOLOGIA
DELLA KENOSI
Il Nuovo Testamento ci dice che Dio stesso
è all’opera sia nella kenosi di Gesù che nel suo innalzamento. Dio si rivela
nel suo Figlio. Nel Gesù terreno, nel Gesù crocifisso si manifesta la gloria di
Dio e il suo amore. Sulla croce ci viene dunque svelato Dio stesso come amore.
Nell’economia della salvezza, Dio non rivela “qualcosa” ma rivela se stesso (DV
2). Se la rivelazione è intesa come auto-rivelazione, allora la realtà di Dio
non è “qualcosa” che si nasconde “dietro” la sua rivelazione: là, Dio stesso è
presente. L’amore di Dio rivelatosi sulla croce rende visibile Dio stesso come
amore. Sulla croce egli si rivela come colui la cui essenza è amore. Detto in
maniera più astratta: nella Trinità economica rivelata dalla croce e dalla
risurrezione, si rivela la Trinità immanente.
La Trinità
Per comprendere più profondamente la natura
trinitaria di Dio, possiamo partire dalla natura dell’amore. Precisamente da
qui era partito anche Agostino,4 senza però sviluppare oltre il suo pensiero.
Per lui, come per la tradizione teologica classica, fondamentale è l’analisi
dell’atto conoscitivo. Nella teologia odierna possiamo costatare lo stesso
interesse. Stimolato dalle analisi di Fichte, di Schelling, di Hegel e
soprattutto dal personalismo dialogico di origine ebraica, come in Martin Buber
e, in modo sostanzialmente più radicale, in Emmanuel Lévinas, lo studio del
fenomeno dell’amore occupa adesso un posto di primaria importanza.
Oggi, il punto di partenza della
riflessione teologica sulla Trinità è principalmente l’auto-comunicazione di
Dio. Ma l’amore, che comunica se stesso per essere una cosa sola con l’altro,
non significa fusione. Il vero amore non assorbe l’altro, né lo usa per la propria
auto-conoscenza o auto-realizzazione. L’amore non ha una struttura dialettica,
ma una struttura dialogica. Amore significa essere una cosa sola con l’altro,
preservando l’identità di ognuno, e permettendo allo stesso tempo la
realizzazione ed il compimento di ciascuno. Chi darà la propria vita, la
riceverà. L’unità nell’amore comporta dunque il riconoscimento della
differenza. L’amore sa distinguere e sa ritrarsi. L’amore fa un passo indietro;
esso rende l’altro libero e ne riconosce l’alterità. La logica dell’amore è
dunque quella del lasciarsi spazio reciprocamente: è quella, anche, della
rinuncia. Amore e dolore, amore e morte, ecco due realtà strettamente legate,
come ci dicono da sempre i grandi poeti.
Possiamo allora interpretare l’affermazione
che Dio è amore così: Dio è se stesso nell’essere totalmente per l’altro. Il
Dio-amore può essere concepito soltanto come un’auto-differenziazione al suo
interno. Pertanto, la dottrina trinitaria non contraddice il monoteismo, come
più volte si sente dire. Essa esprime piuttosto il fatto che un Dio-amore può
essere pensato soltanto in maniera trinitaria. La Trinità è il monoteismo
concreto.
Di fronte alla realtà della sofferenza, la
Trinità è l’unica forma di monoteismo che possa essere concepita e che possa
esistere. Dalla croce in poi, pensare a Dio in modo trinitario significa
pensare a un Dio che al suo interno lascia spazio all’altro se stesso.
Diversamente dal Dio onnipotente che molti si immaginano, Dio è assolutamente
non violento. Dio, nella sua essenza, è colui che si apre totalmente e che si
offre. Dio non opprime; egli si lascia addirittura cacciare dal mondo, e ci si
mostra debole, impotente. Dio è in se stesso kenotico. Balthasar parla della
kenosi originaria e di una “divisione” all’interno di Dio. Ma in questo suo
essere kenotico, Dio non rinuncia a se stesso, non si trasforma in qualcosa di
diverso, non abbandona la propria divinità. In questa sua esistenza kenotica,
Dio è Dio.
Rivoluzione metafisica
Come la croce è la rivelazione dell’amore
intratrinitario di Dio, così l’amore intratrinitario di Dio è la condizione
interna che rende possibile la compassione di Dio fino alla morte in croce. La
croce è dunque la forma più esterna dell’amore divino che si dà, è la forma più
esterna dell’amore costitutivo di Dio. Questa tesi comporta una vera e propria
rivoluzione metafisica. La relazione non è più concepita come una semplice
realtà accidentale. Così come la vera realtà non corrisponde più semplicemente
né alla sostanza, che sussiste in sé e per sé, né al soggetto che esiste in sé
e per sé secondo il pensiero moderno. Adesso è nella relazione stessa che si
fonda la sussistenza delle persone della Trinità. Dio è relazione, e nella
relazione egli viene a noi. Nell’essere il Dio per noi e con noi, egli rivela
la sua natura più profonda.
Il tema della sofferenza di Dio, che è
stato sempre così spinoso per la tradizione teologica, acquista allora una
nuova dimensione. La sofferenza, e in questo dobbiamo riconoscere che la
teologia classica ha assolutamente ragione, non può essere sperimentata da Dio
in modo passivo. Quando Dio soffre, lo fa in modo divino. La sofferenza divina
non è espressione di una mancanza, ma di una libera volontà. Dio non è
investito passivamente dal dolore della creatura, ma si lascia coinvolgere
intenzionalmente. Per questo, l’onnipotenza di Dio non è in contraddizione con
il suo amore; la sua onnipotenza si manifesta nell’amore, poiché è precisamente
l’onnipotenza che rende possibile il ritirarsi senza rinunciare a se stessi.
L’onnipotenza di Dio è l’onnipotenza del suo amore, che rivela ciò che è ed è
ciò che è proprio nel lasciare spazio all’altro.
Il Dio compassionevole, che si manifesta
sulla croce, è la risposta alla questione della teodicea: Dio è il Dio che
soffre e che muore, e si fa vicino a coloro che sono oppressi, torturati,
martirizzati. Dio è al loro fianco e soffre con loro. Questo non significa però
che dobbiamo glorificare o divinizzare la sofferenza. Dio non divinizza la
sofferenza, ma la redime, mutandola al suo interno. Non l’elimina, ma la
trasforma in speranza. La croce è infatti la via verso la risurrezione e la
trasfigurazione. Il dolore e la morte non hanno l’ultima parola. La cristologia
della kenosi ci conduce oltre se stessa, verso la cristologia pasquale dell’innalzamento
e della trasfigurazione. Come dice la Scrittura, “nella speranza noi siamo
stati salvati” (Rom 8,20.24; 1 Pt 1,3).
SPIRITUALITÀ
CRISTIANA ODIERNA
Lo abbiamo appena detto: la teologia della
kenosi non è una speculazione astratta. Essa costituisce la tela di fondo della
riflessione sulla teodicea e sul significato esistenziale della sofferenza e
della morte. Essa è inoltre di grande importanza per il dialogo ecumenico. Una
considerazione a parte meriterebbe il suo ruolo all’interno del dialogo
interculturale e interreligioso, soprattutto per l’incontro con la spiritualità
buddista e il suo concetto di nirvana.
In questo contesto, desidero fare solo
alcune osservazioni conclusive sul significato che la teologia della kenosi
riveste per una spiritualità cristiana odierna. Vi sono molte figure di grande
rilievo che hanno mostrato l’importanza della sostituzione vicaria e che,
testimoniandola con la propria vita, costituiscono un esempio luminoso per la
spiritualità odierna e per un rinnovamento missionario della Chiesa: Teresa di
Lisieux, C. de Foucauld, E. Stein, M. Kolbe, D. Bonhoeffer, O. Romero e molti
altri. Ognuno a modo proprio, essi si sono immersi nel grido di dolore e di
abbandono di Gesù e hanno portato sulle proprie spalle, con solidarietà, il
peso dell’eclissi di Dio dal mondo. Per loro, l’esperienza della notte, del
deserto, dell’ultimo posto non ha significato un cammino verso un niente privo
di senso, ma si è trasformata in qualcosa di attivo, in una vita spesa per gli
altri, affinché la luce di Dio risplendesse anche nel buio più opprimente.
Anche per il cristiano di oggi non esiste
un altro cammino. Nel mondo occidentale, egli normalmente non è esposto a una
brutale violenza anti-cristiana, ma è costretto a vivere in una società che non
conosce Dio, o lo conosce così poco da non essere neppure in grado di sostenere
un ateismo cosciente. A Dio si è ormai indifferenti. Il mondo è diventato un
deserto, una notte in cui non si distingue più nulla, in cui non c’è più né un
sotto né un sopra, in cui si è perso l’orientamento. In questa situazione, la
Chiesa non può più atteggiarsi a potente istituzione, portando davanti a sé la
croce come segno temporale di vittoria. Il cristiano, piuttosto, dovrà
sperimentare l’impotenza della croce, dovrà condividere la sofferenza di altri.
Ed è proprio ora, in questa notte d’eclissi, che egli dovrà preservare e
testimoniare per gli altri la luce della fede, della speranza e dell’amore.
Ecco la sfida del cristiano di oggi e di domani: una presenza attiva a favore
degli altri.
Maria è esempio e tipo di questa esistenza
kenotica, lei, l’umile serva che ha dato spazio a Dio, dapprima nel suo cuore e
poi nella sua carne. Maria ha portato avanti la speranza fino ai piedi della
croce. E lo ha fatto per noi. Ha pronunciato il suo “fiat” al posto di tutta
l’umanità. Maria è fulgido esempio di un’esistenza attiva “per” l’altro; ella è
l’aurora di un nuovo mondo.
1 Discorso nel Campo di concentramento
di Auschwitz-Birkenau del 28 maggio 2006.
2_Tommaso d’Aquino, Summa theol. I q. 25,
a.1; III q. 16 a. 4; q. 46 a.12 ecc.
3_La teologia della croce di Lutero si
trova già nella disputa di Heidelberg del 1518.
4 Agostino, «Ecce tria
sunt, amans et quod amatur et amor». De Trinitate VIII,10.