UN ARGOMENTO SPESSO TRASCURATO
LE VIRTÙ UMANE NELLA FORMAZIONE
Nella formazione,
oltre all’acquisizione delle virtù teologali e morali, è importante attribuire
un’attenzione speciale anche alle virtù umane. È infatti attraverso di esse che
la persona esprime se stessa nei rapporti con gli altri rendendo così fecondo
anche il suo apostolato.
La carità è il precetto fondamentale che
Gesù ha lasciato ai suoi discepoli: “amatevi gli uni gli altri come io ho amato
voi”.1 La carità cristiana vissuta quotidianamente nella vita comunitaria può
prendere nomi diversi e diventare di volta in volta: bontà, lealtà, cortesia,
rispetto, discrezione, riconoscenza, pazienza, gentilezza, mitezza, dolcezza,
semplicità, solidarietà. Sono virtù umane proprie della convivenza, che di per
sé non rappresentano un insegnamento originale del cristianesimo, ma il
cristiano le vive in modo particolare e originale in quanto ha come modello
costante di riferimento Gesù e il suo Vangelo.
Bontà
Può essere utile riparlare di tanto in
tanto di queste virtù per essere aiutati a dare concretezza al precetto
cristiano della carità: il loro esercizio allevia le fatiche della vita comune
e incoraggia la mutua edificazione. Propongo quindi alcuni spunti di
riflessione su alcune di queste virtù.
Si parla molto dell’amore, meno della bontà
– termine che può suscitare minor considerazione se non addirittura disistima,
perché è facile scambiare bontà con bonarietà, arrendevolezza, remissività,
perfino debolezza o dabbenaggine, qualcosa cioè che non si apprezza più di
tanto perché sa di passività e inerzia. Il papa Giovanni se ne rendeva conto e
rinnovava continuamente il proposito di essere buono, sempre e ad ogni costo:
«Pur di far trionfare la carità a tutti i costi, preferisco essere tenuto per
un dappoco. Mi lascerò schiacciare, ma voglio essere paziente e buono fino
all’eroismo».2
La persona buona è colei che ha una buona
opinione della vita, che pensa fondamentalmente bene di essa. Un presupposto
psicologico che rende possibile questo atteggiamento è un’immagine positiva di
sé e una relativa assenza di tendenze nevrotiche. La persona buona è una
persona di pace, che diffonde attorno a sé un senso di pace, di libertà e di
fiducia; è un dono prezioso per chi vive con lei o la incontra, perché «l’uomo
di pace è più utile dell’uomo di molta dottrina».3 Ancora papa Giovanni – non a
caso chiamato il “papa buono” – era consapevole che l’esercizio quotidiano
della bontà è una forma preziosa di apostolato e vale più che grandi
realizzazioni. Dopo dieci anni trascorsi come visitatore e delegato apostolico
in Bulgaria, costretto a vivere alla giornata, faceva questa considerazione:
«Che ha fatto mons.. Roncalli nella monotonia della sua vita alla delegazione
apostolica? Nella santificazione di se stesso, in semplicità, in bontà e in
letizia ha aperto una fonte di benedizioni e di grazie – lui vivo e lui morto –
per tutta la Bulgaria».4 A chi legge queste parole verrà probabilmente alla
mente il ricordo di qualche persona che, pur nella semplicità della sua vita e
senza ruoli importanti o responsabilità particolari, anzi a volte meno
considerata e “valorizzata” sul piano istituzionale, è stata fonte di pace e
letizia per la sua comunità.
SE NE STA
IN OMBRA
La bontà è una virtù che sta in ombra,
rifugge dall’ostentazione, prescinde da sé: la persona buona non bada a sé né
chiede che la si veda. Per lei valgono queste parole attribuite a Gandhi: «Il
miglior modo di predicare il vangelo è viverlo. Una rosa non ha bisogno di
prediche: diffonde il suo profumo ed è questa la sua predica. Fate che la
vostra vita “parli” come una rosa. Persino il cieco, che non vede la rosa, ne
viene attratto». Anche Guardini sottolinea questo aspetto della bontà, quando
scrive: «Un’ultima cosa bisogna che sia detta della bontà: che cioè essa è
silenziosa. La vera bontà non parla molto; non spinge per farsi strada; non fa
chiasso con organizzazioni e statistiche; non fotografa e non analizza. Quanto
più è profonda, tanto più si fa silenziosa. ? il pane quotidiano di cui si
nutre la vita».5
Alla vera bontà occorre pazienza, virtù
che fa sì che di fronte alle ferite che nascono nella realizzazione del bene
l’uomo non sia preso dalla tristezza e dallo smarrimento del cuore, ma conservi
la serenità e la lucidità dell’anima. Afferma infatti s. Tommaso che «non è
paziente chi non fugge il male, ma chi non si lascia trasportare per questo a
una tristezza disordinata».6 Alla persona buona arriva di continuo il dolore,
che vuol essere capito, e di continuo si trova di fronte ai difetti altrui, di
continuo deve volgersi dove c’è il bisogno. Alla bontà deve accompagnarsi
lucidità interiore, forza d’animo, visione della realtà sorretta dalla
prudenza. Quando ciò non avviene, c’è il rischio che essa, di fronte al dolore,
diventi semplice compassione che non offre sostegno, di fronte alla menzogna
perda il coraggio di testimoniare la verità, di fronte alla prepotenza si
ritiri impaurita.
«E un’altra cosa occorre alla bontà:
qualcosa di cui di rado si parla, ed è l’umorismo. Esso aiuta a rendere più
facile una sopportazione, anzi senza di esso non c’è propriamente cosa che al
mondo riesca... Bisogna avere un occhio per ciò che c’è di strano
nell’esistenza... Umorismo è un riso amichevole sulla stranezza di tutto ciò
che è umano. Esso aiuta a essere buoni, poiché dopo aver riso è più facile
tornare d impegnarsi con serietà».7 L’umorismo, come ha scritto un romanziere,
è la capacità di sorridere delle cose che si amano (compresi naturalmente se
stessi) e amarle ancora. La bontà ha un volto sereno e gioioso. Lo ricorda anche
la Bibbia: «Indice di un cuore buono è una faccia gioiosa».8
La bontà, come annota spesso papa Giovanni,
diventa effusione delicata e serena di mitezza e si accompagna a quella
semplicità non disgiunta dalla prudenza dei savi e dei santi, che Dio aiuta.
A volte una certa bontà d’animo è dono di
natura; di norma la bontà del cristiano – di questa, appunto, sto parlando – è
frutto di impegno ascetico che richiede autodisciplina, perseveranza, capacità
di rinuncia, preghiera costante e fiduciosa a Dio. Non si devono infatti
dimenticare le parole di Gesù, che ci ricorda che “nessuno è buono, se non uno
solo, Dio”:9 Egli è la fonte di ogni bontà e la concede a chi gliela chiede con
fede.
Guardini ricorda un episodio personale:
«Quando andavo ancora a scuola... una degnissima donna mi ha detto un giorno:
ricordati che c’è non solo il grande amore del prossimo, ma anche il piccolo!
Per quello grande arriva senza dubbio il tempo, quando ci capiterà di dover
aiutare qualcuno in un grande bisogno o di dover essere fedeli fra grandi
difficoltà. Ma per quello piccolo il tempo c’è sempre, è l’amore di tutti i
giorni. Si chiama cortesia».10
C ortesia
È utile parlare della cortesia, virtù tanto
importante nella totalità dell’esistenza: essa rimanda a tanti piccoli gesti
quotidiani, spesso inattesi quanto graditi, espressione della stima e del
riguardo per la persona umana. ? un comportamento corretto che è frutto di una
buona educazione; rende piacevole la convivenza umana e impedisce che essa si
trasformi in lotta per l’esistenza: «un fare e rifare di continuo leggera la
vita, la quale viene messa in crisi da tante e spesso così strane minacce: ecco
la cortesia».11 In un tempo come il nostro, tutto teso a “guadagnare tempo” e a
tutto calcolare per ottenere il massimo di efficienza, è lecito pensare che
qualche beneficio ne venga alla nostra esistenza, ma la cortesia rischia di
morire. Essa, infatti, si accompagna a calma, valorizza ciò che può apparire
superfluo e non funzionale, ama piccoli e discreti “cerimoniali”, non sopporta
la frenesia
La cortesia, espressione di riguardo e di
attenzione, richiede di posporre se stessi agli altri. Un presupposto
psicologicamente importante che la rende possibile è la relativa assenza di
tendenze narcisistiche nella persona. Il narcisismo, infatti, porta l’individuo
a centrarsi prevalentemente su se stesso e sulla propria importanza, teso a
soddisfare la propria volontà di emergere. La persona, in questo caso, ha un
bisogno sproporzionato di conferma e approvazione, è incapace di autentico
interesse empatico, ha particolare insensibilità per i diritti delle altre
persone. La persona cortese, invece, rivolge lo sguardo sull’altro, ne coglie
la sensibilità, ne conosce i bisogni e i desideri, sa le sue paure e i suoi
imbarazzi, conosce le stanchezze dell’altro e le rispetta. La cortesia è capace
di prevenire, sorvola o ignora ciò che dispiace all’altro, crea spazio libero
attorno a lui e lo difende da una vicinanza incombente; sa creare una giusta
distanza senza che questa appaia distacco; si insinua con garbo e delicatezza
nello spazio dell’esistenza altrui, ama sorprendere e seguire vie indirette.
Ancora: cortesia è anche amare le cose di questo mondo – persone comprese -
rinunciando ad esse e controllando l’impulso a possedere. Essa stabilisce e
rispetta “gerarchie”, facendo sì che il giovane onori l’anziano, l’uomo la
donna, il “suddito”12 colui che è in autorità, il forte colui che è debole, chi
sa colui che non sa. Non confonde familiarità con eccesso di confidenza (nel
linguaggio come nei gesti) ed evita un egualitarismo che sa di indelicatezza e
scarso riguardo.
La cortesia è bella e ingentilisce la vita:
è una specie di arte dei piccoli gesti. Virtù forse soprattutto femminile.
Nella Bibbia probabilmente non appare la
parola cortesia, ma ci si può riferire alle parole di s. Paolo, il quale invita
i cristiani a prevenirsi l’un l’altro nel rendersi onore13 – parole che
potrebbero essere tradotte anche così: cercate di essere cortesi gli uni verso
gli altri. Si può parlare di una cortesia di Dio? Guardini ha un pensiero
illuminante al riguardo: «Esitiamo a dire di Dio che egli è cortese; la parola
deve essere sollevata fino al vertice del suo significato prima di poter essere
attribuita a lui. Nel fatto che egli ha creato la libertà e la garantisce
continuamente sta la cortesia inimmaginabilmente signorile che Egli dimostra
alla propria creatura».14
Sincerità e discrezione
Sincerità significa corrispondenza tra ciò
che si sente o pensa e ciò che si manifesta e si dice. ? sinonimo di autenticità
e trasparenza. Tutti la desiderano e se l’aspettano dalle persone con cui
trattano; non tutti (pochi?) sono capaci di offrirla.
La sincerità comporta, dal punto di vista
psicologico, una duplice capacità. Da una parte, essa suppone la cosiddetta “libertà
esperienziale”: consiste nella relativa assenza di difese percettive nella
conoscenza di sé e quindi nella capacità di essere in contatto con i propri
vissuti ed esperienze interiori, così da poter ammettere a se stessi di provare
determinati sentimenti, anche se – erroneamente! – li valutiamo come qualcosa
di negativo (ad esempio il sentimento dell’ira, la gelosia, la noia...). Questa
capacità è legata a un’immagine positiva di sé. In secondo luogo, si richiede
di essere capaci di scegliere le modalità comunicative più corrette e
rispettose nel comunicare i propri sentimenti (ad esempio: “io sento rabbia
quando tu...”, anziché “tu mi fai arrabbiare quando...”; “io mi sto molto
annoiando in questa riunione...”, anziché “questa riunione è noiosa”): la
persona, cioè, si assume la responsabilità di ciò che sente e lo comunica in
modo adeguato.
La sincerità richiede anche di saper
scegliere tempi e modalità per comunicare i propri sentimenti e le proprie
convinzioni; ha quindi come necessaria compagna la discrezione, che è prudenza
(la prima delle quattro virtù cardinali). «Il prudente è chi sa tacere una
parte della verità che sarebbe inopportuna a manifestarsi, e che taciuta non
guasta la parte di verità che dice, falsificandola».15
Si può mentire per calcolo – e ciò è
spregevole –, ma anche per paura e addirittura “per educazione”: può capitare,
infatti, che per non recare dispiacere o urtare la sensibilità di una persona
non si dica ciò che realmente si sente o si pensa. Non si può negare che ci si possa
trovare di fronte a situazioni obiettivamente difficili o imbarazzanti, ma
d’altra parte occorre chiedersi in tutta onestà come si possa combinare il dire
una cosa per un’altra con la raccomandazione biblica di non mentire: «Ecco ciò
che voi dovrete fare: parlare con sincerità ciascuno con il suo prossimo».16
La sincerità suppone lucidità interiore e
pace del cuore; «chi è pienamente nella pace non sospetta di alcuno; invece chi
è malcontento e turbato è preso da continui sospetti, non è tranquillo lui né
permette agli altri di esserlo. Dice sovente ciò che non dovrebbe dire e
tralascia cose che più gli converrebbe di fare».17
È da augurare a tutti di avere un amico
sicuro e sincero che ci informi in modo disinteressato su come gli altri ci
percepiscono e sull’effetto che il nostro agire ha su di loro, fuori delle vie
comuni e ufficiali che spesso sono menzognere e che non di rado tacciono
sull’essenziale. Ciò è addirittura necessario a chi è chiamato a esercitare
l’autorità, dato che, da quando assume il suo compito, cala molto spesso
attorno a lui una cortina, tante cose gli restano nascoste e gli diventa così
sempre più difficile essere al corrente di ciò che realmente sentono e pensano
coloro ai quali egli è preposto. E nello stesso tempo, credo che ad ogni
superiore faccia
piacere se, al momento di lasciare il
proprio incarico, le persone che sono state con lui in comunità si sentissero
di dire, parafrasando le parole del card. Roncalli18 al momento di accomiatarsi
dalla Francia: era una persona leale e pacifica, sempre in ogni evento un amico
sicuro e sincero di ciascuno. Non è certamente un riconoscimento da poco per
chi ha compiti di responsabilità.
Solidarietà
Solidarietà significa sentirsi legati agli
altri, come una parte di un tutto, come ricorda s. Paolo: “siamo membra gli uni
degli altri”.19 L’opposto è l’atteggiamento egoistico, l’individualismo che
porta a badare soltanto al tornaconto personale. ? uno dei nomi che può
assumere la carità. La solidarietà ci viene espressamente suggerita da s.
Paolo, il quale ci esorta a portare gli uni i pesi degli altri, a soffrire con
chi è nel dolore e a gioire con chi è nella gioia. Tutto ciò, non a partire da
un moto spontaneo dell’animo o da quella naturale propensione che può portare gli
esseri umani a correre in aiuto dei propri simili quando sono in difficoltà, ma
anzitutto e soprattutto in forza del fatto che Gesù ci ha insegnato così, con
il suo esempio e con la sua parola. L’insegnamento di Gesù è necessario sia per
rendere pura e buona la nostra intenzione nell’ andare verso il nostro
prossimo, sia per avere la forza di essere solidali anche quando umanamente è
molto difficile.
L’esercizio della solidarietà ha infinite
modalità di espressione: mi limito a esemplificare una sola situazione, che a
volte può ricevere minor attenzione. Come appena ricordato, s. Paolo esorta i
cristiani a essere solidali con le persone anche nei momenti in cui esse sono
nella gioia. Da questo punto di vista, un sacerdote o una religiosa possono
essere più facilmente portati a stare vicini a chi soffre o a dare aiuto a chi
è nel bisogno: si dà – sostegno morale, conforto, consiglio... – a chi è in
particolare difficoltà (tra l’altro, ciò potrebbe essere vissuto anche come
gratificazione più o meno inconscia del proprio narcisismo). L’essere, invece,
veramente capaci di profonda partecipazione alla gioia di un altro – ad esempio
per un successo conseguito o una promozione ottenuta o una particolare qualità
che gli ottiene ammirazione e riconoscimento – può non essere altrettanto
facile. Solo chi ha un’immagine positiva di sé, è interiormente soddisfatto e
in pace con se stesso ne è capace. Il piangere con chi piange può nascere anche
da un moto naturale del cuore; per riuscire a gioire veramente con chi è nella
gioia occorre essere magnanimi. E viene pure da chiedersi se, ad esempio, la
persona consacrata sia più a suo agio quando è a un funerale o quando partecipa
a un banchetto di nozze. Gesù è stato capace di vera solidarietà: con la
famiglia di Lazzaro che piangeva per la sua morte come con gli sposi che a Cana
festeggiavano allegramente le loro nozze.
Aldo Basso
1 Gv 13,34.
2 Giovanni XXIII, Il giornale
dell’anima, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1964, 221.
3 L’Imitazione di Cristo, L. II, cap.
3.
4 Ibidem, p. 228.
5 Guardini R., Virtù, Morcelliana,
Brescia 1972, 128.
6 S. Tommaso, Summa Theologica, II,
II, 136, 4 ad 2.
7 Guardini R., ibidem, 127-128.
8 Sir 13,26.
9 Lc 18,19.
10 Ibidem, 146.
11 Ibidem, 150.
12 Mi servo di un termine che ha un
significato immediato e chiaro, anche se è molto improprio quando viene
applicato all’ambiente della vita religiosa: serve, come si dice solitamente,
“per rendere l’idea”.
13 Rom 12,10.
14 Ibidem, pp. 156-157.
15 Giovanni XXIII, ibidem, 315.
16 Zac 8,16. [cfr anche s. Paolo in Ef
4,25: “bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo”]
17 L’imitazione di Cristo, Libro II,
cap. 3.
18 Al termine della cerimonia
dell’imposizione della berretta cardinalizia e prossimo ormai a lasciare la
nunziatura di Francia per diventare patriarca di Venezia, egli disse tra
l’altro: «A mia consolazione personale e finché mi sarà data la vita... basterà
che ogni buon francese, ricordando il mio umile nome e il mio passaggio, possa
dire:”‘Era un sacerdote leale e pacifico: sempre in ogni evento un amico sicuro
e sincero della Francia”» [A.G. Roncalli, Scritti e Discorsi, Edizioni Paoline,
Roma 1959, vol. I, 14].
19 Ef 4,25.