48° CONVEGNO OPERA DELLA REGALITÀ

LITURGIA E MISTERO PASQUALE

 

Celebrato a Roma per approfondire l’esperienza del mistero pasquale, attraverso l’analisi dei contenuti spirituali cui apre la celebrazione liturgica. La sfida è quella di ricercare il rapporto tra forma cultuale e esperienza di fede. Occorre porsi alcune domande essenziali per entrare in una nuova comprensione della mistagogia.

 

La citazione dal vangelo di Giovanni (13,17) è stato il vero fil rouge, il punto di riferimento comune di tutti i lavori del quarantottesimo convegno liturgico pastorale indetto dall’associazione Opera della Regalità di N.S.G.C. dal 12 al 15 febbraio scorso a Roma, sul tema L’esperienza del mistero pasquale nella celebrazione liturgica. Il convegno dell’anno precedente (“Venite e vedrete”. L’itinerario catecumenale per rendere vera la liturgia) era stato dedicato all’individuazione di un possibile percorso da offrire ai battezzati per aprirli alla comprensione della performatività della celebrazione liturgica. Nel convegno 2007 si è tentato di compiere un passo ulteriore mediante l’approfondimento dell’esperienza del mistero pasquale, attraverso l’analisi dei contenuti spirituali cui apre la celebrazione stessa, cioè la “mistagogia”. Sia il convegno 2006 sia quello 2007 non sono nati dal nulla; sono ormai diversi anni che l’Opera della Regalità focalizza l’attenzione sulla celebrazione liturgica come fonte di autentica e sempre più profonda vita spirituale. In conseguenza di questa scelta, entrambi i convegni 2006 e 2007 si sono mossi su questo sfondo.

 

LA LITURGIA

HA UN’ANIMA?

 

È questo l’interrogativo che ha guidato la relazione affidata a Goffredo Boselli, monaco della Comunità di Bose. Si è preferito l’espressione “anima” anziché quella più usuale di “spirito” perché la liturgia ha un principio di vita in sé, è l’opera di Dio su di noi e in noi. Servendo il Signore nella liturgia serviamo i fratelli nella fede. «La liturgia attua l’opera della salvezza propria della Chiesa», come dice la costituzione del Vaticano II Sacrosanctum concilium. Liturgia autentica è nello stare contemplativo di Maria di Betania, perché è dando il primato all’ascolto della parola del Signore che Maria lo celebra. Analogamente, nelle nostre comunità, la liturgia è l’unum necessarium, la parte migliore.

Sulla base di queste premesse, Boselli ha cercato di riflettere su cosa significhi affermare che la liturgia ha un’anima, un principio di vita in sé: in essa c’è tutta la vita del Figlio che si è fatto per noi redenzione. I sacramenti creano la Chiesa non per potenza propria, ma perché sono l’acqua e il sangue sgorgati dal costato di Cristo, sono la vita stessa di Cristo. Come dicono i vescovi nel documento Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia: «Serve una liturgia insieme seria, semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini» (49). Occorre quindi che la liturgia sia più interiore e contemplativa, più spirituale e meno conviviale, con meno parole e più Parola, poiché prima di essere esteriorizzazione la liturgia è interiorizzazione.

 

QUALE IL SIGNIFICATO

DELL’ESPERIENZA LITURGICA?

 

Mons. Giuseppe Busani, liturgista, ha dato una risposta molto semplice: «Ricercare il rapporto tra la forma cultuale e l’esperienza di fede». La liturgia è una “fonte zampillante” che ha una sua forza generatrice e una promessa di vita; esiste uno stretto legame tra l’evento di salvezza, cioè la Pasqua del Signore, l’esperienza di fede e la celebrazione. Attuare il rito corrisponde al modo di stare nell’evento, è esporsi alla sua potenza, è lasciarci determinare da questo. Il rito dà forma alla vita; davanti al rito non possiamo limitarci a domandare quale significato abbia. Il rito è azione, non astrazione e l’azione «può accendere la scintilla dell’attrazione». Quando ci si accosta al rito si deve necessariamente uscire dalla tentazione dell’intellettualismo: non siamo noi a dare senso al rito, ma è l’azione stessa del rito che dà senso alla nostra vita. Nella liturgia, e in particolare nell’Eucaristia, la Chiesa prende forma, perché lì si confessa che «solo Dio è onnipotente, nessuno può imporre il proprio punto di vista, perché lì tutti sono venuti per obbedire alla sua verità e alla sua volontà».

Ancora una domanda: perché “il discepolo che Gesù amava” può essere considerato il “tipo” del celebrante? Secondo padre Giuseppe Dell’Orto, biblista, questo discepolo non ha un nome e quindi rappresenta tutti noi, ha il nostro volto; sta dietro le quinte, è quello di cui non si parla, ma che c’è. È nell’intimità con Gesù, così come il Salvatore è nell’intimità col Padre. Nell’Ultima Cena è il testimone della consapevolezza che Gesù ha nel compiere la sua missione salvifica.

Quel discepolo è colui che ascolta, che vede, che si mette alla sequela del Maestro, che rimane con Gesù fino alla fine. È lui che osserva il comandamento: “Amatevi come io vi ho amato”. Egli rientra nell’amore universale di cui tutti gli esseri umani sono oggetto e soggetto ed è tuttavia destinatario di un surplus d’amore. È lui che riconosce il Signore (cf. Gv 21,7) prima degli altri discepoli che pure stanno con lui e che diventano paradigma delle nostre assemblee che non hanno consapevolezza di essere alla presenza del Risorto. Ne acquistano coscienza soltanto e finalmente ubbidendo alla sua parola e fidandosi di lui. Il “discepolo che Gesù amava” invece sta dentro l’agape di Gesù e comprende perché illuminato dallo Spirito.

Don Antonio Zani, docente di patristica, ha portato un ulteriore contributo, affermando che occorre anzitutto premettere che il periodo dal I al VI secolo d.C., nel quale troviamo l’opera dei Padri che si occupano di mistagogia, con le loro semplici e profonde “catechesi”, è unanimemente riconosciuto come il periodo fondativo della chiesa cristiana indipendentemente dalle successive divisioni. Dei Padri è proprio il metodo mistagogico; e per mistagogia si intende la spiegazione teologica di un atto sacramentale e insieme di ogni singolo rito di cui è composta la celebrazione liturgica. È, per Agostino d’Ippona, riconoscere di essere raggiunti e amati da un Altro, un Altro che appunto ci raggiunge per amarci.

 

CONTEMPLAZIONE

E MISTAGOGIA

 

Giovanni e Cirillo di Gerusalemme, Ambrogio di Milano sono sicuramente fra i più autorevoli mistagoghi. I destinatari delle loro catechesi sono i neofiti, condotti a riconoscere Gesù a partire dalle cose che sperimentano mentre si celebra. La celebrazione, nei primi tempi del cristianesimo, ha quindi un valore pressoché assoluto. Secondo Agostino d’Ippona la liturgia “è la voce della sposa di Cristo”, una realtà il cui valore non è comparabile a quello di altre azioni. Ciò che si celebra «è un’azione divina che emana dall’umanità glorificata di Cristo. Il mistero pasquale è l’inveramento concreto e completo del mistero dell’incarnazione».

Mistagogia dunque non è soltanto conoscere ciò che è fatto o che si farà, ma è prendere coscienza di ciò che si deve contemplare. Il Rito per l’iniziazione cristiana degli adulti (RICA)è stato considerato esemplare proprio dal punto di vista della mistagogia. Don Gianni Cavagnoli, liturgista e parroco, ha affermato che il senso della mistagogia prospettato dal RICA sta nel fatto che esso presenta un cammino comunitario non astratto, incentrato sulla celebrazione domenicale; un cammino unitario che si realizza nel percorso che va dalla parola di Dio all’Eucaristia e da questa alla carità, come realizzazione pratica e concreta di ciò che si è contemplato.

Questo cammino si attua con la narrazione delle “meraviglie” del Signore, narrazione che ha il suo punto focale nella liturgia; si riflette sull’esperienza dei sacramenti ricevuti: «In realtà una più piena e più fruttuosa intelligenza dei “misteri” si acquisisce con la novità della catechesi e specialmente con l’esperienza dei sacramenti ricevuti. I neofiti infatti sono stati rinnovati interiormente, più intimamente hanno gustato la buona parola di Dio, sono entrati in comunione con lo Spirito Santo e hanno scoperto quanto è buono il Signore. Da questa esperienza, propria del cristiano e consolidata dalla pratica della vita, essi attingono un nuovo senso della fede, della Chiesa e del mondo» (n. 38).?

La vita cristiana è comunitaria o non è: quindi sono fondamentali le relazioni interpersonali. Come si afferma al n. 39 dello stesso RICA: «La nuova e frequente partecipazione ai sacramenti, se da un lato chiarisce l’intelligenza delle sacre Scritture, dall’altro accresce la conoscenza degli uomini e l’esperienza della vita comunitaria, così che per i neofiti divengono più facili e più utili insieme i rapporti con gli altri fedeli».

 

RUOLO DELLO SPIRITO

E DELL’ASSEMBLEA

 

Per rispondere a questa domanda p. Giuseppe Ferraro s.i., biblista, ha affermato innanzitutto come sia essenziale che il credente sperimenti l’azione dello Spirito Santo nei sacramenti. In tutti i segni la presenza dello Spirito è richiamata, ma p. Ferraro ha preferito riferirsi a due in particolare: l’Eucaristia e l’Ordine, con riferimento alle invocazioni allo Spirito contenute nei riti. In tutte le preghiere eucaristiche è rivelata una duplice struttura trinitaria; ma se prendiamo per paradigma la seconda preghiera, vediamo come prima si faccia memoria dell’opera di Dio Padre nella storia della salvezza, s’invochi lo Spirito che realizza la presenza di Gesù Cristo («Padre veramente santo … santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito affinché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo») e si ringrazi Dio Padre («… e ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza…»); nella seconda parte vi è l’invocazione allo Spirito perché, come partecipanti alla Cena, ci riunisca nel Corpo Mistico («Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo»). Si ribadisce così l’identità trinitaria del cristianesimo. Anche nei tre riti dell’ordinazione (episcopale, presbiterale e diaconale) vi è una triplice invocazione allo Spirito Santo (gli si chiede di dare saldezza nell’osservare i comandamenti, di non privare della sua presenza, di dare uno spirito di dominio su di sé). Lo Spirito, donato dal Padre attraverso il Figlio, è quindi forma centrale del sacramento e dà dignità trinitaria al consacrato.

A questo punto va situato l’intervento di don Ovidio Vezzoli, liturgista, cui è stata posta la domanda: l’assemblea è scuola di formazione? Egli si è rifatto in prima battuta alla primitiva comunità di Gerusalemme che «era assidua nell’ascolto, viveva in comunione fraterna, celebrava l’Eucaristia (frazione del pane) e pregava insieme». Riferito a noi, possiamo dire che l’assemblea, discepola in ascolto della Parola, è il luogo alternativo alla solitudine del monologo; quando rende grazie diviene luogo alternativo all’oblio della memoria; quando è testimone di vita fraterna, diviene luogo alternativo alla conflittualità e all’uniformità; quando, poi, intercede per tutti, è il luogo alternativo alla distanza e all’oscuramento della compassione.

«Parola, Liturgia e Missione-Carità diventano le tre coordinate fondamentali sulle quali poggia un autentico cammino di evangelizzazione perché il mondo riabbia speranza. Di questo l’assemblea liturgica cristiana è chiamata a essere segno eloquente di crescita nella fede, senza ambiguità. … Tutto ciò, però, è pertinente solo in quanto il Cristo stesso è il vero soggetto dell’azione liturgica; è lui che convoca e interpella il “noi” ecclesiale dell’assemblea affinché sia edificato in lui, mediante lo Spirito, come il suo corpo».

Si tratta a questo punto di assumere la mentalità di Cristo? L’ultima domanda, implicita nei titoli delle relazioni, è stata posta a mons. Antonio Donghi, assistente nazionale dell’Opera della Regalità. Per Donghi, la celebrazione liturgica è scuola di spiritualità perché celebrazione del dialogo fra Dio e l’umanità. «L’imitazione di Cristo, come imitazione della sua morte-risurrezione, è possibile nel sacramento, dato che la celebrazione liturgica si presenta come “figura” della morte di Cristo, ossia come sua “imitazione rituale”. La dinamica propria dell’iniziazione sacramentale è determinante per rendere feconda la partecipazione “spirituale” alla celebrazione liturgica, e, nello stesso tempo, la prospettiva iniziatico-mistagogica dell’itinerario spirituale vive dell’azione rituale, nell’orientare i fedeli a una attenta e personale elaborazione del progetto di Dio sull’uomo. A tale scopo l’assemblea celebrante ha davanti a sé un chiaro orientamento: la partecipazione al rito ha la finalità d’approfondire l’appartenenza del discepolo al Padre attraverso la sacramentale e spirituale imitazione del mistero pasquale. È nella gustazione teologale del volto del Padre che il battezzato realizza se stesso. La partecipazione liturgica persegue lo scopo di sviluppare il desiderio del battezzato di essere se stesso nella persona del Maestro per contemplare il Padre. La celebrazione orienta la comunità a desiderare d’accedere al riposo di Dio, come riscoperta e gustazione dell’armonia esistenziale che costituisce il senso portante del cammino dell’uomo nel tempo».

 

Marisa Sfondrini