UN CARDINE DI TUTTA LA VITA SPIRITUALE

PREGHIERA CONTEMPLATIVA

 

Per pregare occorre essere capaci di sederci in silenzio accanto a noi stessi e attendere pazientemente il passaggio del Signore. Prima di chiederci di amarlo, il Signore ci chiede di scoprirci amati da lui. Soltanto allora possiamo sperare che la nostra risposta sia in qualche modo adeguata al suo dono.

 

H. Urs Von Baltahasar scrive che “Il cristiano esiste o scompare con la preghiera” La preghiera infatti costituisce un cardine essenziale attorno a cui si muove l’intera vita spirituale cristiana. Se manca, poco alla volta viene meno anche la fede.

La quaresima, per parte sua, è qui a ricordarcelo. Senza la preghiera non è possibile alcun cammino di conversione. Assieme all’ascolto della parola di Dio e all’ascesi, essa rappresenta la via più sicura per riportare la propria vita sotto lo sguardo di Dio e giungere alla Pasqua come creature nuove, risorte con Cristo.

L’autore di questa riflessione offre alcune “note” – come egli le chiama – per un itinerario di preghiera contemplativa e suggerisce alcune previe disposizioni interiori che l’esperienza ha mostrato utili per un autentico e duraturo itinerario di preghiera. Ricorda, inoltre che, per tutte le forme di vita consacrata l’avviamento alla preghiera contemplativa e l’accompagnamento personale dei giovani sono due cardini di un serio ed efficace percorso formativo.

Qual è l’atteggiamento interiore che ci aiuta a “stare” (in latino manere) davanti al Signore volentieri, vincendo l’inquietudine che ci spinge a fuggire, come Adamo, dalla sua presenza; e divenire così capaci – sorretti dallo Spirito Paraclito e in compagnia di Maria, nostra madre – di vivere ogni giorno questa prolungata sosta dinanzi a lui, sotto il suo sguardo pieno di luce e di calore, per una salutare “cura del sole” che risana le ferite e ridona la forza di amare?…

Qui intendiamo parlare di preghiera contemplativa, ove contemplazione vuol dire esser presi dalla gioia e dalla bellezza della rivelazione divina come lieta notizia (eu-aggelion) dell’amore di Dio per noi in Cristo Gesù. Come sempre, l’etimologia ha anche qui un suo peso: contemplor-contemplari è formato da con-templum, e significa guardare a lungo e con viva partecipazione qualcosa di bello; nel nostro caso, saper vedere ovunque i segni della presenza di Dio, percependo il mondo intero come un tempio. La contemplazione è così il dono col quale ci è dato di restare per un certo tempo consapevolmente alla presenza del Signore per avere sulla realtà sovente opaca che ci circonda uno sguardo reso da lui capace di cogliere tutto come segno trasparente del suo amore per noi.  Potremmo dire che essa può considerarsi per la vita del singolo ciò che la celebrazione eucaristica è per la vita della Chiesa: in subordinazione e come sua derivazione, anch’essa è culmen et fons della nostra identità di figli nel Figlio.

Il modo di pregare di una persona rivela il suo modo di vedere/sentire Dio e il tipo di rapporto che essa ha con lui. Ma oltre che rivelazione del volto che noi diamo a Dio, la preghiera è pure rivelazione del nostro volto più profondo e segreto: la qualità della nostra vita è in relazione con la qualità della nostra preghiera; e la qualità della nostra preghiera è a sua volta in rapporto con la qualità della nostra vita. Ha dunque una sua verità il duplice adagio: «Dimmi come preghi e ti dirò com’è il tuo Dio / dimmi come preghi e ti dirò chi sei».

 

SCOPRIRCI

AMATI

 

Per pregare occorre essere capaci di sederci in silenzio accanto a noi stessi e attendere pazientemente il passaggio del Signore. E questo presuppone che abbiamo incominciato a vivere riconciliati e ad amare correttamente noi stessi. Ma per quale via si può giungere a un giusto amore di sé?

Prima di chiederci di amarlo, il Signore ci chiede di scoprirci amati da lui. Soltanto allora possiamo sperare che la nostra risposta sia in qualche modo adeguata al suo dono.

Prima il Signore, fissatolo, lo amò; poi gli disse: va... vendi... da’...vieni e seguimi... (Mc 10, 21). L’apparente durezza delle parole di Cristo si scioglie dinanzi alla previa esperienza di saperci amati da Lui.

Come Natanaele (Gv 1, 46-51), «ogni orante pensa di incontrare Gesù per poterlo vedere, e deve invece accorgersi, sotto lo sguardo di Gesù, che da lungo tempo è lui a essere visto, osservato, giudicato e assunto nella grazia, così che altro non gli resta che inginocchiarsi e adorare il Verbo di Dio: “Maestro, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!”.1 E come per gli apostoli, sarà anche per noi l’inizio di un nuovo straordinario cammino...

È stato questo l’itinerario percorso da Francesco: dal momento in cui si scoprì amato dal Signore nel dialogo silenzioso e profondo davanti al Crocefisso di san Damiano, egli divenne capace di affidare a lui la guida della propria vita, e cominciò a esprimere in precise scelte concrete la certezza che la via che il Signore propone nel Vangelo è davvero quella che porta alla vita vera.

E gli fu possibile lasciarsi condurre fiduciosamente da lui a vincere se stesso, disposto a soffrire ogni giorno qualcosa per lui, ma con una crescente letizia interiore.

Da Francesco impariamo che la penitenza, quando è vera, nasce dalla gioia, di essa si alimenta e ad essa conduce. Vera penitenza e gioia spirituale sono sorelle inseparabili. E al tempo stesso la conversione è poi la via che consente di sperimentare e proclamare con efficacia la gioia di essere cristiani, restituendo così al Vangelo il suo significato profondo di lieto annuncio.

 

AMATI

COSÌ COME SIAMO

 

Saperci amati così come siamo e crederlo sino in fondo è la via per scoprirci amabili ad intra (ai nostri occhi) e divenirlo anche ad extra (con i fratelli).

Per far questo, dobbiamo lasciarci guidare dallo Spirito a percepire sempre meglio il vero volto del Dio rivelatosi in Gesù Cristo. Che non sia un cammino facile ce lo suggerisce questo racconto dei Padri del deserto:

 

«Un giorno un giovane monaco chiese ad un anziano: “Abba, dimmi qual’è l’opera più difficile del monaco”; e l’altro rispose: “Dimmi tu quale pensi che sia”.

Il giovane monaco disse: “Forse è la vita comune”; ma l’abba rispose: “No, figliolo, prima o poi gli uomini, per cattivi che siano, a forza di stare insieme si vogliono bene”. L’altro riprese:“Ma allora qual’è, la castità?”. “No, figliolo, tu senti la castità come un problema grosso perché hai vent’anni, ma aspetta ancora qualche anno e tutto si acquieterà”.

“Ma allora che cos’è, padre, l’opera più difficile del monaco? Forse la teologia, studiare Dio, parlare di Dio?”. L’abba gli disse: “No, figliolo, guardati intorno: quanti ecclesiastici parlano di Dio dalla mattina alla sera!”. “A questo punto dimmelo tu, abba, qual’è l’opera più difficile del monaco”.

“È pregare, pregare dando del tu a Dio”. E aggiunse:“Ricordati che un uomo, tre giorni dopo morto, di fronte alla presenza di Dio prova ancora difficoltà a guardarlo in faccia, a dirgli “Padre” e a dargli del tu: questa è l’opera più difficile”».2

 

E in realtà è necessario fare un notevole cammino interiore per accogliere nel cuore il dono immenso della paternità di Dio, che ha dell’incredibile.

Istintivamente, siamo soliti attribuire a Dio il volto che noi abbiamo su noi stessi: pensiamo che egli ci veda con gli occhi con cui noi guardiamo noi stessi. E sovente ciò che noi pensiamo di noi stessi è quanto è andato solidificandosi nel nostro cuore attraverso le esperienze che abbiamo vissuto con gli altri, specialmente quelle con i nostri genitori. Ed è abitualmente uno sguardo severo, esigente, mai del tutto positivo.

Eppure il Dio che abbiamo conosciuto in Gesù Cristo è davvero il “Totalmente Altro!”. Ed è solo con lui che abbiamo a che fare. Ogni altra immagine di Dio scade al livello di un idolo da noi scolpito (cf. Sal 115 e 135).

A questo riguardo può esserci utile la seguente considerazione di un noto contemplativo del nostro tempo, Thomas Merton: «Una delle chiavi della vera esperienza religiosa – egli dice – è la sconvolgente presa di coscienza del fatto che, per quanto noi siamo odiosi a noi stessi, non lo siamo affatto e mai per Dio. Questa coscienza ci fa meglio capire la differenza tra il nostro amore e il suo. Il nostro amore è un bisogno, il suo è un dono. Noi abbiamo bisogno di vedere il buono in noi per considerarci amabili. Egli no. Ci ama non perché noi siamo buoni, ma perché lui lo è. Finché ci rapportiamo con un Dio che è solo una proiezione del nostro povero io, noi non possiamo che provare timore per una potenza tremenda e insaziabile, che avrebbe bisogno di vedere la bontà in noi per accoglierci, e che per l’infinita chiarezza della sua visione non trova altro che male, e pertanto non può che essere severo con noi».

 

NON PER PURA

CONDISCENDENZA

 

All’acuta annotazione del Merton potremmo aggiungere tuttavia che l’amore del Signore per noi non è pura condiscendenza, quasi si trattasse solo di un rassegnato “abbassarsi” verso la nostra povertà; è invece anche passione e incanto per il bello che Egli non manca mai di vedere in ognuna delle “sue” creature, le quali – tutte – esistono perché lui le ha pensate, amate e volute in modo consapevole e libero.

Di fatto, Dio ha una profonda passione: tale passione siamo ciascuno di noi e noi tutti insieme. Egli si appassiona alla nostra vita, a tutto ciò che ci accade. Amante sempre di noi innamorato, è perennemente in trepidante attesa di essere ammesso alla nostra compagnia, come una madre desidera condividere le vicende dei suoi figlioli.

Il tempo che destiniamo alla preghiera è quello in cui gli diciamo: Maranà tha, vieni Signore!

Io, la passione del mio Dio, voglio divenire la sua gioia, lasciandomi invadere ed afferrare dal suo Spirito che vuole plasmare il mio volto perché somigli di più a quel Figlio di cui egli si compiace pienamente, il Signore Gesù.

 

Noi conosciamo per esperienza la fatica dell’uomo nel ricercare Dio, ed è questa che ci balza sempre agli occhi quando parliamo di fede. C’è ed è vera. Ma vi è pure un altro punto di vista dal quale possiamo leggere il dramma della “storia della salvezza”: è il punto di vista di Dio.

Ci consente di cogliere la fatica che Egli ha fatto, fa e farà sino alla fine dei tempi per “salvare” l’uomo, vertice del creato e sua profonda passione, suo tormento continuo. E lo vediamo come un Dio innamorato di noi, costretto a rincorrerci sempre; e così spesso respinto o accolto da noi malamente.

In Gesù Cristo abbiamo conosciuto un Dio mendicante d’amore, vulnerabile e povero, un Dio il cui amore è disatteso e respinto, un Dio da noi messo in croce...

Da sempre, Tu vai cercando qualcuno che Ti accolga fino in fondo, che apra a Te la sua vita e si lasci invadere dal tuo amore appassionato. “Donna, dammi da bere!”, chiedevi un giorno alla samaritana. E sulla croce ha gridato: “Ho sete!” Molti Padri hanno letto questo tuo grido come la domanda che tu rivolgi ad ognuno perché ti si lasci entrare nella nostra vita e ti si accolga come “Signore” di essa.

È stata questa sete che ti ha spinto alla follia del tuo nascere povero a Betlemme, del tuo morire nudo sulla croce e del tuo rimanere tra noi nell’oscurità sconvolgente del mistero eucaristico: le tre espressioni del tuo “amore kenotico” che Francesco non si stancava mai di contemplare.

Per dare un senso al tuo venire tra noi, sarebbe bastato che una sola persona, nell’arco dell’intera storia umana, ti avesse accolto ed amato davvero... E in certo senso tu non sapevi se ciò sarebbe accaduto. Hai rischiato anche tu, come accade talvolta pure a noi quando decidiamo di amare davvero: l’amore porta una componente di rischio, rende vulnerabili, perché non può che “proporsi” e può cadere nel vuoto, essere del tutto o in parte disatteso... _È consolante sapere che vi sono state, e vi sono ancor oggi, persone che – come Maria e Francesco – ti hanno detto di sì, un sì totale e per sempre. Esse sono state la tua gioia, la gioia del loro Dio. Essere la tua gioia, la gioia del mio Signore e mio Dio: può esservi aspirazione più grande? “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal. 2,20).

Pregare è intrattenersi con Colui dal quale sappiamo di essere amati (Santa Teresa di Gesù).

Nessuno di noi sta volentieri e a lungo in compagnia di una persona dalla quale ci si sa sopportati; è invece dolce intrattenersi con chi sappiamo che ci vuole bene, ci stima e considera preziosa la nostra presenza. Altra cosa è poi stare con una persona di cui si è innamorati. Il nostro punto di partenza è quello di sostare a lungo alla presenza di Colui che sappiamo essere innamorato di noi, col desiderio ardente di innamorarci noi pure di lui. Non dimenticando che noi sappiamo restare fedeli solo alle cose che amiamo perché in qualche modo ci piacciono. Quando c’è disamore, inizia la presa di distanza e l’infedeltà, ameno potenziale: è così nel matrimonio, nelle amicizie, nel lavoro… È così pure col Signore: il suo amore giunge a noi attraverso la Parola e i Sacramenti (la divina liturgia), ma se egli non rimane una presenza che il nostro cuore apprezza e che ci dà gioia, piano piano ci allontaneremo da lui, sorgente di acqua viva, per cercare altrove qualche surrogato di gioia, in cisterne screpolate… La preghiera contemplativa, di cui qui stiamo parlando, è il tempo privilegiato in cui coltiviamo il nostro amore per il Signore ed insieme il termometro del nostro reale apprezzamento per lui: se ad una cosa diamo poco tempo, infatti, vuol dire che per noi vale poco…

 

COME FIGLI

NEL FIGLIO

 

Il Dio che si è rivelato a noi nel Signore Gesù Cristo è ”tenerezza, consolazione, umiltà, sicurezza, riposo, gioia e letizia, comprensione, è protettore, custode e difensore...”, come Francesco canta nelle Lodi di Dio altissimo (FF 261). E allora noi possiamo stare (rimanere, direbbe il vangelo di Giovanni) davanti a lui senza temere, in una pace profonda e – certi di essere da lui accolti per la sola grandezza del suo cuore di Padre tenerissimo che non cessa di vedere in noi i lineamenti dell’Unigenito “che gli basta sempre e in tutto e per il quale a noi ha fatto cose tanto grandi” (Rnb 23,5. FF 66) – abbandonarci tra la sue braccia con la confidente parresìa/audacia che nello Spirito ci spinge a gridare abbà-papà (Rom. 8,15: “E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo ‘abbà’ “).

Alla scuola del salmista possiamo fare nostra l’esperienza del bambino che sta “tranquillo e sereno... in braccio a sua madre” (Sal 130). Letto in quest’ottica, diviene un salmo stupendo:

 

Signore, non si inorgoglisce il mio cuore

non si leva con superbia il mio sguardo;

non vado in cerca di cose grandi,

superiori alle mie forze.

Io sono tranquillo e sereno

come bimbo svezzato in braccio a sua madre,

come un bimbo svezzato è l’anima mia.

Speri Israele nel Signore, ora e sempre!

 

Pregare “da cristiani”, ossia inseriti nel mistero del Cristo Salvatore e guidati dal suo Spirito, vuol dire allora metterci fiduciosi e confidenti davanti al volto del Signore; vuol dire lasciare che il suo sguardo si posi su di noi e prendere sempre più coscienza che il suo è lo sguardo di un amore tenerissimo e incondizionato, il solo capace di sanare la ferita profonda che, in misura più o meno grande, è presente nel cuore di ciascuno: la ferita inscritta nella nostra finitudine creaturale, che ci fa percepire limitati, mai pienamente positivi, e dunque sempre alle prese col timore di non essere abbastanza amabili.

Il lungo cammino che ci è chiesto, alla fin fine, è quello di passare dalla situazione interiore propria del “fratello maggiore” della parabola lucana, che vede Dio come un padrone a cui sottostare a denti stretti e da cui rivendicare diritti, a quella del “fratello prodigo” che torna col cuore ancora simile al cuore del maggiore, ma scopre con commozione un padre tenerissimo, a cui finalmente riesce ad abbandonarsi pieno di gratitudine. In questo consiste per ognuno il mutamento della conversione.

 

AMABILI

PERCHÉ AMATI

 

E tuttavia, pieni di gratitudine, possiamo anche noi esclamare con il grande Agostino: «poiché Tu mi hai amato per primo, o Signore, mi ha reso amabile!».

Un approfondimento di questa densa, fondamentale affermazione ci viene offerto da un altro grande dell’esperienza cristiana autentica, il danese Søren Kierkegaard (1813 -1855): «Tu ci hai amati per primo, o Dio. Noi parliamo di te come se ci avessi amato per primo una volta sola. Invece continuamente, di giorno in giorno, per la vita intera, tu ci ami per primo. Quando al mattino mi sveglio ed elevo a te il mio spirito, tu sei il primo, tu mi ami per primo. Se mi alzo all’alba e immediatamente elevo a te il mio spirito e la mia preghiera, tu mi precedi, tu già mi hai amato per primo. È sempre così. E noi, ingrati, che parliamo come se tu ci avessi amato per primo una volta sola...».

Questa gioiosa constatazione, questa “lieta notizia” che costituisce oggettivamente il centro e la sostanza del Nuovo Testamento, può e deve diventare il fondamento di un continuo risanamento della nostra più vera identità, rendendo anche noi finalmente consapevoli, come Francesco, che «l’uomo tanto vale quanto vale davanti a Dio» (Ammonizione 19, FF 169).

E Dio ci vede sempre nella luce del suo Verbo Unigenito, a immagine del quale ci ha pensati, amati e voluti; e ognuno di noi vale per lui la morte di questo suo dilettissimo Figlio, che ha preso su di sé la croce proprio per assicurarci che anche noi, in lui, siamo un enorme tesoro agli occhi di Dio.

«Se vuoi conoscere chi sei, non guardare quello che sei stato, ma l’Immagine che Dio aveva nel crearti» _(così Evagrio Pontico; si veda l’emblematica scultura del portale nord della cattedrale di Chartres, del secolo XIII, ove da un lato vi è il Cristo che plasma il volto di Adamo a immagine del proprio, e dall’altro i loro due volti sono abbinati, così da trasmettere il messaggio-chiave dell’antropologia cristiana: “plasmati a sua immagine - chiamati a somigliargli”.

 

Ciò che il profeta Isaia rivela ad Israele vale per ciascuno di noi, e le parole ispirate dallo Spirito che leggiamo nel profeta ciascuno di noi le può fiduciosamente riferire a se stesso:

 

“Così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe,

che ti ha plasmato, o Israele:

Non temere, perché io ti ho redento,

ti ho chiamato per nome, e tu mi appartieni _(tu sei mio).

Se dovrai attraversare le acque, sarò con te,

i fiumi non ti sommergeranno;

se dovessi passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai,

la fiamma non ti potrà bruciare;

poiché io sono il Signore tuo Dio,

il Santo d’Israele, il tuo Salvatore...

Tu sei prezioso ai miei occhi,

perché sei degno di stima e io ti amo...

Non temere, perché io sono con te...

tu porti il mio nome:

io ti ho creato con sapienza,

per manifestare la mia gloria” (Is. 43, 1-7).

 

“Si dimentica forse una donna del suo bambino

così da non commuoversi per il figlio della sua carne?

Anche se ci fosse una donna

che si dimenticasse del proprio figlio,

io invece non ti dimenticherò mai!” (Is. 49, 15).

 

Questa Parola è più solida della roccia ed è continuamente confermata da tutto il N.T. (si veda, solo per limitarci a qualche passo, Gv.3, 16-17: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito...”; _Lc. 10, 20: “Non rallegratevi perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”; e il grande inno al vittorioso ed irreversibile amore che Dio ha manifestato agli uomini nella Croce di Cristo: “Chi ci separerà dall’amore di Dio in Cristo Gesù?” in Rm 8, 35-39).

 

Grazie ad essa, io vengo a sapere, o Signore, che tu non mi guardi con i “miei” occhi, ma con i “tuoi”. Ed è tutto un altro sguardo, soprattutto se considero che il 90% delle energie è da noi speso per cercare di resistere alla minacciosa e deprimente sensazione di valere poco, sempre alle prese come siamo col timore di non essere abbastanza amati; e si soffre, e si fa soffrire, di quel “male oscuro” oggi così diffuso che è la depressione _(cf. l’episodio del bimbo down non ammesso alla prima comunione con i compagni di catechismo perché ritenuto non abbastanza preparato, che consola la mamma in pianto dicendole: “Ne pleur pas, mam, car le Seigneur m’aime comme ça!”, e il parroco si rende conto che ha già colto l’essenziale della fede e non esita a dargli il via libera alla recezione del sacramento con una gran festa tutta per lui la domenica successiva).

 

RESI AMABILI

ANCHE CON I FRATELLI

 

Se tu mi ami così come sono, anch’io posso amarmi e vivere finalmente riconciliato con me stesso, anche con ciò che mi limita e mi fa debole... E posso poi guardare attorno a me, il mondo dei miei fratelli, con uno sguardo pieno di misericordia, di bontà e di pazienza. Poiché ogni giorno scopro che questo è lo sguardo che tu hai su di me, alla tua scuola apprendo a far sì che divenga via via anche lo sguardo mio su me stesso e su chi mi vive accanto, rendendomi conto sempre meglio che siamo tutti racchiusi entro un immenso disegno di misericordia che costituisce la nostra sola solida speranza.

«La Bibbia afferma che il nostro amore a Dio e al prossimo suppone un fatto precedente, senza il quale resterebbe incomprensibile: l’amore di Dio verso di noi. È questo il dato che precede ogni altro, origine e misura del nostro amore. L’amore dell’uomo nasce da quello di Dio, e deve commisurarsi su di esso» (B._Maggioni).

Dunque, per amare Dio devo prima scoprire che sono amato da lui in Cristo Gesù, e così imparare a credere piano piano, anche con il cuore, che sono amabile.

Solo così posso amare me stesso (e, al di là delle apparenze, non è poi così facile). E solo amando me stesso nella luce dell’amore di Dio, sono reso capace di vivere anche il secondo comandamento che mi dice: “ama il prossimo tuo come te stesso” (si pensi all’acuto monologo di Pietro Bernardone sulla radicale impossibilità di amare veramente il prossimo fino a quando uno prova schifo per se stesso, nel musical: _Forza, venite gente) .

Senza esserne consapevoli, sovente ci muoviamo dentro questo circolo vizioso: non amiamo il prossimo, perché non amiamo noi stessi – e non amiamo noi stessi, perché non crediamo di essere amati da Dio.

Gente di poca fede, siamo condannati a essere gente di poco amore: non facendone esperienza noi, non possiamo darlo al prossimo. Tormentati dal timore di non essere amabili e incapaci di vedere e apprezzare i tanti segni d’amore che già hanno punteggiato la nostra storia e che ogni giorno ci vengono regalati, diveniamo tormento per quanti ci vivono accanto.

Può esserci utile allora far nostra questa preghiera:

 

Signore, riconciliami con me stesso!

Come potrò incontrare e amare gli altri,

se non riesco ad incontrare ed amare me stesso?

Signore, tu che mi ami così come sono

e non come mi sogno,

aiutami ad accettare la mia condizione di uomo

limitato eppur chiamato a superarsi.

Insegnami a vivere con le mie luci e le mie ombre,

le mie dolcezze e i miei atti di collera,

i miei sorrisi e le mie lacrime,

col mio passato e il mio presente.

Donami di accogliermi come mi accogli tu,

di amarmi come tu mi ami.

Liberami dal tipo di perfezione _che io pretendo di darmi,

e aprimi alla santità che tu vuoi donarmi.

Risparmiami i rimorsi di Giuda,

che è rientrato in se stesso per non uscirne più,

spaventato e disperato davanti al suo peccato.

Concedimi il pentimento di Pietro,

che ha incontrato il silenzio del tuo sguardo

pieno di tenerezza e di misericordia.

E se devo piangere,

che non sia su me stesso,

ma sul tuo amore non corrisposto.

Signore, tu conosci la disperazione _che sovente corrode il mio cuore.

Il disgusto di me stesso

io lo proietto senza sosta sugli altri!

Poiché tu mi hai amato per primo, mi hai reso amabile.

Che la tua tenerezza, Signore, _mi renda finalmente amabile ai miei occhi.

Vorrei tanto aprire la serratura della porta _della mia prigione

di cui io stesso tengo in pugno la chiave.

Donami il coraggio di uscire da me stesso.

Dimmi che tutto è possibile a colui che crede.

Dimmi che posso ancora guarire,

alla luce del tuo sguardo e della tua Parola.

(libera versione da M. Hubaut, francescano)

 

UN CUORE

PIÙ GRANDE DEL NOSTRO

 

È nella preghiera personale vissuta nella gratuità davanti al volto del Signore, e qui soltanto, che possiamo essere “ricostruiti” nella nostra identità più vera e autentica, quella che ci consente di riconoscerci in tutta umiltà quali “perle” e “tesori di Dio” pur sapendoci tanto piccoli... e la paura di non valere niente e di non essere degni d’amore lascerà il posto alla confidenza e alla speranza: “Davanti a Lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri: Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3, 19-20). “Nell’amore non c’è timore. L’amore perfetto scaccia il timore...e chi teme non è perfetto nell’amore” (1Gv 4,18).

Una speranza che non abbiamo mai motivo di rimettere in discussione, finché “viviamo nel tempo della misericordia”, come Francesco definiva la nostra vita terrena (2 Cel.38, FF 623).

Ce ne dà conferma un episodio che Clemente d’Alessandria (+ 215) si compiace di narrare «perché tu – scrive a un amico – una volta pentito, acquisti fiducia che ti resta una degna speranza di salvezza».

L’episodio ha al centro un giovane che l’apostolo Giovanni affidò in custodia al vescovo di una città nei pressi di Efeso. “Ti affido costui - gli disse - con ogni premura dinanzi a questa chiesa e prendendo Cristo come testimone”.

Il giovane trovò ospitalità e attenzione nella casa del vescovo. Ma questi, alla lunga, diminuì la sorveglianza e il giovane, influenzato da cattivi compagni, prese a commettere delle scelleratezze. Alla fine, disperando della salvezza in Dio, ne commise di sempre più grandi; anzi, mise insieme una banda di cui diventò capo attivo, sanguinario e crudelissimo.

Un giorno Giovanni, passando da quella comunità, chiese al vescovo di restituirgli il deposito affidato a lui: “Chiedo il giovinetto e l’anima di quel fratello”. Amareggiato il vescovo gli rispose: “Quello è morto... _Per Dio è morto, giacché è divenuto malvagio e corrotto”. Profondamente addolorato, l’apostolo si mise in viaggio alla ricerca del giovane. Si lasciò arrestare dalle sentinelle dei predoni e chiese lo portassero al loro capo. Costui fino allora, armato com’era, aspettava. Quando però in colui che veniva avanti riconobbe Giovanni, preso da vergogna si mise a fuggire. Ed egli lo inseguiva con tutte le sue forze, dimentico della sua stessa età e gridando:“Perché, o figlio, fuggi davanti a me che sono tuo padre, che sono vecchio e inerme? Abbi pietà di me, o figlio. Non temere: tu hai ancora speranza della vita eterna. Io darò a Cristo giustificazione per te. Se sarà necessario, pagherò io volentieri la tua morte, come il Signore pagò la nostra. Per te darò in cambio la mia vita. Fermati. Abbi fede: è Cristo che mi ha mandato”. Egli, ascoltando, in un primo momento si fermò guardando a terra, poi gettò via le armi; infine, tremando, piangeva amaramente. E quando il vegliardo gli venne vicino, lo abbracciò chiedendo perdono per quanto glielo permettevano i singhiozzi, ricevendo un secondo battesimo dalle sue lacrime e nascondendo la destra. Ma Giovanni, facendosi garante per lui e giurandogli che aveva trovato perdono per lui dal Salvatore, pregandolo, supplicandolo e baciando proprio quella destra, lo ricondusse alla chiesa, e non se ne partì di lì, come narrano, prima di averlo posto a capo di quella chiesa, dando un esempio di pentimento sincero e un grande segno di seconda nascita, un trofeo di risurrezione che tutti vedessero (citato da L._Padovese, La speranza nei Padri, Piemme 1984, pp.62-63).

 

UNO SGUARDO

CHE GUARISCE LA FERITA

 

Pregare significa allora in primo luogo metterci ai piedi di colui che per pura grazia abbiamo conosciuto quale nostro amabile Salvatore e, guidati dal suo Spirito che solo è capace di far nascere e mantenere nel nostro cuore una grande fiducia-confidenza (l’audacia-parresia dei figli), lasciare che il suo sguardo pieno di misericordia ci raggiunga e ci risani.

E contemplare vuol dire essere invasi dalla gioia di scoprire che il suo è uno sguardo di tenerezza, di bontà _e di compiacimento per il solo fatto che siamo sue creature, amate da sempre e per sempre dal suo cuore tanto più grande del nostro, al di là delle povertà che ancora abitano la nostra fragile esperienza. E percepire che questo sguardo di Colui che ci ha creati e redenti è come olio che allevia e guarisce la ferita presente nel cuore di ognuno.

 

Poiché tu mi ami così come sono, anch’io posso amarmi e trovare in te la forza per cambiare. Poiché Tu, amante della vita, ami ognuna delle tue creature, posso amarle anch’io, cominciando dai fratelli che mi hai posto accanto. È il tuo amore che ha il potere di rendermi tutto amabile: me stesso, gli altri, il creato ed anche tutto ciò che mi è chiesto di fare nella vita semplice d’ogni giorni. E mi ricorderò che “con gli altri non saremo mai troppo dolci e troppo buoni nel nostro modo di fare: la dolcezza è la prima delle forze, e forse la prima delle virtù” (Teilhard de Chardin); in ogni caso, è la via più efficace per migliorare a un tempo me e il mio ambiente...

 

Ed è illuminante notare come non vi sia contraddizione tra coscienza della propria pochezza e grande fiducia nel Signore. Francesco ne è un esempio altissimo, quando passa tanta parte della sua preghiera a ripetere: “Chi sei tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?” (Terza considerazione sulle stimmate, FF 1915). Lui sa di essere piccolo e insignificante, ma sa pure di appartenere ad un dolcissimo Iddio... e questo è ciò che gli dà solidità e forza per crescere nella sequela del suo Signore: sempre più consapevole di essere amato in modo del tutto gratuito, è reso capace di rispondere a tale amore con la passione dell’innamorato ricolmo di gratitudine.

 

Alla scuola di Francesco, potrò anch’io riconoscere onestamente che il mio vero tesoro è l’amore che Dio ha per me in Gesù Cristo, e non il mio amore per lui, che si riduce sempre a molto poco...

E allora non troverò più fastidioso, ma semplice e salutare portare nella preghiera, con gli aspetti positivi, anche i lati oscuri della mia vita: la gioia e la tristezza, l’entusiasmo e l’avvilimento nel cammino, la vittoria della grazia ed il mio peccato, la generosità e la pigrizia, la premurosa attenzione e l’indifferenza verso i fratelli...

E sarò finalmente consapevole che “la santità non è tanto uno sport in cui trionfano gli eroi, ma un’avventura di misericordia in cui i piccoli e gli umili sono colmati di doni; e ciò che conta è la convinzione, gioiosamente accettata, di una profonda miseria che la misericordia del Signore Gesù salva continuamente” (G. Huighe).

 

Applicando al campo spirituale le indicazioni sul nuovo ed efficace metodo di curare le ferite esponendole al sole, scoperto dal grande chirurgo reggiano Cesare Magati (1577-1647), divenuto in seguito cappuccino col nome di Liberato da Scandiano, posso senza timore esporre anch’io al sole del Suo amore le mie povertà, inserendomi nel folto numero dei malati del Vangelo (Mt 9,12 e Lc 19,10) per riconoscere che lui è il Medico di cui ho bisogno.

Fr. Prospero Rivi

Noviziato interprovinciale cappuccini_S. Arcangelo di Romagna

1 Balthasar V.H., La preghiera contemplativa, Jaka Book 1982, 11.

2 Bianchi E. – Baroffio B., La preghiera fatica di ogni giorno, Piemme 1983, 11-12.