LA PROFEZIA DELLA VC NELLA CHIESA OGGI
UNA VITA SAMARITANA
La vita consacrata
riuscirà a essere luminosa, irradiante, affascinante se tornerà più decisamente
a Dio e all’uomo: Dio come fonte e culmine del nostro essere e del nostro
operare e l’uomo bisognoso come destinatario e luogo del nostro culto a Dio.
Poche istituzioni ecclesiali hanno posto un impegno tanto grande nel
prendere sul serio l’invito del concilio Vaticano II al rinnovamento quanto la
vita consacrata. Tuttavia, dopo 40 anni e dopo tanti cambiamenti operati, ci
troviamo ancora in un processo di transizione, senza aver raggiunto il
traguardo atteso. Il che ci insegna, credo, che oggi la vita consacrata debba
anzitutto accettare che l’unico modo di rendersi attuale è quello di essere in
trasformazione continua, così come avviene per la vita, e congiuntamente di non
anteporre nulla a Dio, così da diventare veramente consacrata.1
Più che di crisi di identità, ritengo che per la vita consacrata si debba
pensare a una crisi di credibilità. Ci troviamo – come non ammetterlo? – in una
situazione di stallo. Il Congresso internazionale della vita consacrata,
svoltosi a Roma alla fine di novembre dell’anno 2004, ha preso ispirazione da
una duplice icona: quella della samaritana (Gv 4) e quella del buon samaritano
(Lc 10). Queste figure sono segni della profonda sete per Dio e della immensa
compassione per l’umanità, che devono caratterizzare i consacrati e le
consacrate. Il messaggio è trasparente: nel mondo la vita consacrata ha la
missione specifica di rendere prossimo e avvicinare Dio all’uomo ferito e
abbandonato ai margini del cammino; diventare cioè una vita samaritana,
assetata di Dio e compassionevole con il bisognoso.
LA CONNOTAZIONE
“SAMARITANA”
Definire la vita consacrata come una vita samaritana implica non solo di
guardare all’itinerario spirituale percorso da queste due figure evangeliche,
ma anche di assumere e fare propria la condizione sociale di un “gruppo”, come
lo erano i samaritani ai tempi di Gesù, che vive “ai margini” della società e
della Chiesa.
Diventare “samaritani”, sotto questo profilo, vuol dire accettare il
rifiuto del mondo e della società; comporta di rinunciare ai privilegi di cui
come consacrati abbiamo goduto fino a pochi anni fa, e non soltanto a livello
sociale ma anche ecclesiale, dove i “nuovi movimenti” sembrano avere la parte
migliore. Vuol dire sposarci con la povertà, intesa non solo come scarsità di
mezzi economici, ma come mancanza di potere, e camminare nella vita con
maggiore umiltà, diventando anche oggetto di pregiudizio.
Per secoli la vita consacrata è stata il fiore all’occhiello della Chiesa;
il suo ruolo sociale nell’evangelizzazione e nella promozione umana è stato
insostituibile nei diversi ambiti dell’agricoltura, dell’educazione, della
salute, dell’attenzione ai più poveri, ... cosi come continua a esserlo in
America Latina, Asia, Africa. La sua presenza in campo sociale, con un ruolo di
supplenza dello stato, è stato così grande da correre il rischio di adulterare
la sua missione, che non è semplicemente quella di fare delle opere con
efficacia e gratuità, ma di diventare una metafora di Dio, un segno della sua
presenza tenera e salvifica nel mondo.
ASSETATI
DI DIO
Il racconto di Giovanni ci presenta un Gesù stanco e assetato, che si reca
al pozzo di Giacobbe, dove giunge anche una donna samaritana, alla quale egli
chiede da bere. Sorprende che il bisogno fisico porti Gesù a rompere le
barriere etniche e culturali. In questo contesto di marginalità infranta Gesù
si presenta come “dono di Dio”, “la sorgente di acqua viva”.
Gesù è il dono della vita eterna per chi crede in lui. Egli meglio di
nessun altro conosce i bisogni più profondi degli uomini, la loro sete immensa
di senso, di felicità e di salvezza. Gesù risveglia nella samaritana il
“desiderio” della sorgente dell’acqua viva da lui offerta. È appunto l’anelito
di felicità ciò che ha portato la donna samaritana a cercare un appagamento,
senza successo, passando da una esperienza ad un’altra.
Alla luce di questo testo, la vita consacrata ha bisogno di fare una seria
revisione, per rendersi conto, con onestà e coraggio, anche se con sofferenza e
umiliazione, delle mancanze di fedeltà al suo Signore, della sua ricerca di
sicurezza talvolta a prezzo di perdere identità e rilevanza. Forse bisognerebbe
identificare i nomi e i volti dei successivi “mariti”, con i quali la vita
consacrata ha perso la gioia, l’incanto, la passione. Dove ha cercato di
appagare la sua sete? A quali acque?
Come la donna samaritana la vita consacrata può sentirsi insoddisfatta e
vuota, senza gioia e senza entusiasmo, senza dinamismo e senza passione. Come
la donna samaritana essa deve incontrare Gesù, sorgente di acqua viva, per
ritrovare il senso, la gioia e la passione della vita, per essere credibile e
attraente; deve ripartire da Cristo con uno slancio evangelizzatore per
ritornare significativa e feconda. La nuova evangelizzazione ha bisogno
di nuovi evangelizzatori, che parlino di Dio non per sentito dire, ma perché lo
hanno incontrato, e che quindi non possono tacere l’esperienza di questo
incontro e sentono l’urgenza di comunicarlo.
Non basta lavorare per il Regno o per i valori del Regno; è necessario
riconoscerci al servizio del Re, sentirci servi dell’unico Signore. Solo Gesù
può essere fondamento della nostra vita. Solo Gesù merita tutto il nostro
amore. Solo Gesù dà ragione di ciò che siamo e di ciò che facciamo.
SOLIDALI
CON L’UMANITÀ
In Luca il buon samaritano non è una persona reale, ma è un personaggio di
una parabola, per mezzo della quale Gesù risponde a un maestro della legge che
lo ha messo alla prova. Lo scriba, essendo disposto ad adempiere il precetto
divino, vuole identificare chi deve amare. Gesù, da buon pedagogo, risponde in
modo che lo scriba stesso dica quanto già sa; difatti, vedendo la risposta
corretta, Gesù gli dice: “Fa questo e vivrai”. La vita eterna non si raggiunge
attraverso una scienza rivelata cui abbiamo accesso, bensì attraverso il
dinamismo trasformatore e divinizzatore dell’Amore (cf. 1Cor 13).
Alla vita consacrata può capitare ciò che è capitato allo scriba, di avere
cioè solo una conoscenza teorica di Dio e di Gesù. Essa può pensare infatti che
tale conoscenza basti per ottenere la salvezza, senza rendersi conto – o non
voler accettare – che la salvezza non è una realtà estrinseca, come se fosse il
premio per le nostre scelte o la ricompensa per le nostre rinunce o la
retribuzione per il nostro adempimento formale della legge; la salvezza è
invece realtà intrinseca, vale a dire, la trasformazione che l’amore opera in
noi. Anche a noi il Signore oggi ripete: “Fa questo e vivrai”.
La parabola del buon samaritano è urtante, specialmente per noi consacrati.
Essa pone in contrasto l’atteggiamento spensierato ed egoista degli uomini che
per professione dovrebbero essere più sensibili ai bisogni degli altri, e
quello del “samaritano buono” che si prende cura di quel povero uomo che è
stato assaltato, derubato, ferito e abbandonato ai bordi della strada. Nel
mondo “inventato” da Gesù, coloro che per vocazione sono consacrati al culto di
Dio (il sacerdote e il levita) e dovrebbero essere a lui più vicini si mostrano
indifferenti verso chi è nel bisogno, mentre colui che è emarginato socialmente
e ritenuto lontano dal vero culto (il samaritano) si mostra sensibile e si avvicina
a chi trova casualmente ferito.
Oggi come ieri la vita consacrata è chiamata a essere un segno della
vicinanza di Dio, della sua autentica incarnazione, della sua radicale
solidarietà con l’uomo fino alla morte in croce. Ma oggi a differenza di ieri
la vita consacrata si trova con la sfida e l’opportunità di rinnovarsi
spostando l’accento dal formalismo, esteriore e farisaico, all’autenticità
della carità, interiore e cristiana, insomma di essere come Gesù “che passò
beneficando tutti”.
I bisogni del prossimo ci indicano il luogo dove Dio ci aspetta e sono uno
stimolo per la fantasia e la generosità apostolica della vita consacrata. Ed
essa, se “samaritana”, dovrà realizzare quello che è urgente oggi e prestare
attenzione a quello che è necessario per domani: curerà le ferite,
preoccupandosi di offrire un rimedio non momentaneo ma duraturo; caricherà su
di sé i bisogni dell’uomo che trova per strada e si incaricherà del suo pieno
recupero. Oggi la vita consacrata diventerebbe irrilevante, la sua testimonianza
invisibile, se non prendesse sul serio il mandato di farsi prossimo al
bisognoso. Se la vita consacrata vuole sopravvivere in un mondo dove c’è una
“eclisse di Dio” (Martin Buber), dovrà trovare Dio nell’unica icona vivente di
lui, l’uomo (cf. Gn 1,26), il prossimo che soffre e ha bisogno, quella che è la
sua via d’accesso a lui.
Non so se a volte la concezione di missione che abbiamo non ci porti a
reagire costruendo barriere sociali, culturali, religiose, sessuali, facendone
un bel pretesto e una buona scusa per non intervenire. Non so se non dovremmo
essere più audaci, più profetici, meno calcolatori, assumendo di più il
rischio. Certo questo esigerebbe di cambiare la nostra mentalità, ci porterebbe
a essere più flessibili, a saper fare i conti con gli imprevisti, a essere
disposti a cambiare i nostri piani pur di portare compassione e solidarietà a
quanti l’attendono, anche se non la chiedono.
NELLA GRAZIA
DI UNITÀ
Dare a Dio il primato che gli corrisponde non vuol dire diventare schiavi di
orari e di programmi, ma di servirlo lì dove egli ci attende: “Ho avuto fame,
sete, ero in carcere, o ammalato...” (cf. Mt 25 31-46). La sete di Dio e la
solidarietà con l’umanità sono inseparabili; essi sono accolti e vissuti come
grazia in unità.
Occorre, mi si permetta di dire questo come salesiano, recuperare la
passione del Da mihi animas cetera tolle, il programma spirituale e apostolico
di don Bosco e la ragione del suo instancabile operare per “la gloria di Dio e
la salvezza delle anime”. Si tratta della passione per Dio e per l’umanità, che
trova la sua sorgente nel cuore di Cristo e il suo nutrimento nel fuoco dello
Spirito. Tale passione implica la capacità di patire, ossia è una passione che
è sofferenza per amore, e richiede di essere innamorati, ossia è una passione
che è innamoramento e fascino.
Il Da mihi animas pone al centro della vita del consacrato il senso della
paternità di Dio, le ricchezze della morte e della risurrezione di Cristo e la
potenza dello Spirito, che sono donate a ogni uomo. Nello stesso tempo
sollecita nel consacrato l’ardente desiderio di comunicare a tutti e di far
gustare ad altri questi doni, perché abbiano una vita felice, illuminata dalla
fede, in questo mondo, e l’abbiano salva per l’eternità.
Il cetera tolle motiva il consacrato a prendere le distanze da un certo
modello liberale, light, di vita consacrata. L’attribuzione della crisi della
vita consacrata alla cultura imperante, cioè a fattori quali il secolarismo, il
consumismo, l’edonismo, non è sufficiente. La vita consacrata storicamente
nasce come proposta alternativa, come movimento contro-culturale, come
contestazione e ripresa della fede in situazione di stallo. È la debolezza di
motivazioni e di identità di fronte al mondo che oggi la rende fragile.
Sono convinto che la vita consacrata rappresenta una vera terapia per la
nostra società e un dono alla Chiesa, a condizione che essa sia un segno
visibile e credibile della presenza e dell’amore di Dio (mistica), che sia
un’istanza critica nei confronti di tutto quanto attenta alla persona umana,
intesa secondo il disegno di Dio (profezia), e che sia solidale con l’umanità,
specialmente la più povera, bisognosa, esclusa o messa in disparte (diaconia).
La vita consacrata tornerà a essere luminosa, irradiante, affascinante se
tornerà più decisamente a Dio e all’uomo come i due poli attorno ai quali gira
la sua vita: Dio come fonte e culmine del nostro essere e del nostro operare e
l’uomo bisognoso come destinatario e luogo del nostro culto a Dio. Sembra che
oggi più che mai ciò che ci viene chiesto sia di ascoltare lo Spirito e
lasciarci guidare da Lui.
Don Pascual Chávez Villanueva, SDB
1 Questo articolo è stato scritto da don Pascual Chávez per
l’Osservatore Romano in occasione delle festa della Presentazione. Qui lo
pubblichiamo per gentile concessione dell’autore.