P. NAVA AI MEMBRI DELLE CURIE GENERALI

C’ERA UNA VOLTA LA VISITA CANONICA

 

È possibile il rilancio di uno strumento di governo sempre più dimenticato? La visita canonica come processo di valutazione sulla base di criteri condivisi da tutti e mediante uno sforzo di edificazione reciproca.

 

Capita sempre più raramente di leggere o anche solo sentir parlare, oggi, di visita canonica. E pensare che in passato è stata un istituto cardine della vita consacrata. Anzi, secondo don Giancarlo Rocca, è stato un potente mezzo di coesione, di identità e, insieme, di controllo nella vita di tanti istituti religiosi. La storia di questo strumento di governo è in grado oggi di gettare una nuova luce «non solo sulla vita quotidiana dei religiosi e delle religiose e sulle loro attività, ma anche sulla loro storia sociale, sulla loro architettura, sui loro possedimenti, sulla loro vita religiosa e umana e, indirettamente, sulla storia politica e culturale dei territori in cui essi si trovavano, nonché sull’importanza che i documenti scritti hanno assunto nella vita quotidiana e nelle relazioni tra autorità e sudditi».

Proprio per questa scarsa attenzione ad un glorioso strumento di governo del passato, ha suscitato un certo interesse l’intervento di Pier Luigi Nava, monfortano, membro del consiglio di presidenza della Cism, il 28 ottobre 2006, sulla “risignificazione” della visita canonica. Ne ha parlato in occasione di un ciclo di lezioni promosso dall’Associazione dei membri delle curie generali (AMCG) nell’anno appena trascorso. Le competenze del visitatore, le formalità imposte dal diritto, le procedure tipiche del passato, ha affermato entrando subito in medias res, rischiano di assumere facilmente «una connotazione quasi burocratica lontana dalla nostra odierna sensibilità».

E dire che la manualistica e i commentari del codice di diritto canonico del 1917 conferiscono alla visita canonica un’importanza simile a quella di chi è insignito dell’ufficio di visitatore, sia esso un superiore maggiore o un religioso deputato ad hoc. Con il nuovo codice del 1983 le cose sono cambiate, ma non più di tanto. Se anche adesso non mancano letture piuttosto datate, questo significa che molto spesso non si è andati oltre le indicazioni tradizionali.

Anche nella prassi postconciliare si è andata consolidando una progressiva designificazione della visita canonica, fino al punto da ridurla a volte ad una vera e propria formalità. Una riprova la si ha, ad esempio, nella scarsa produzione bibliografica in proposito. Se ne parla e, soprattutto, se ne scrive sempre di meno. Una conferma quanto mai convincente la si trova nell’uso stesso del termine “canonica“, sostituito, a volte, da “visita fraterna”, da “visita pastorale” (sic!), o più semplicemente, da una non meglio precisata e più generica “verifica”.

 

UN GOVERNO

“ON LINE”

 

Ma perché se ne parla sempre di meno e perché rischia oggi di smarrire lungo la strada il suo significato originario? Non potrebbe essere anche questo un sintomo evidente della crisi in atto nel campo della vita consacrata? Pensiamo, ad esempio, osserva Nava tentando alcune ipotesi interpretative del fenomeno, alla mobilità dei governi generali. E’ un fatto che oggi il centro effettivo della vita e dell’attività di un istituto religioso è sempre più spesso “in periferia”, lontano, cioè, dalla sede centrale. I voli low cost offrono facilmente ad intere équipes di organismi generali la possibilità di muoversi su scala internazionale. Non per nulla c’è chi oggi parla, anche in riferimento ai direttivi centrali di un istituto religioso, di governance-airlines.

Da sempre, Roma è stata la sede naturale dei capitoli generali. Ora, invece, i capitoli e i cosiddetti consigli generali allargati – organismi a scadenza regolare - sono sovente convocati nelle aree culturali in cui è in atto una più forte espansione dell’istituto. Oggi non si può non prendere atto del fatto che i processi di internazionalizzazione della vita consacrata ne hanno profondamente modificato non solo la geografia storica, ma anche la governance, vale a dire le regole e le modalità di azione di governo rispetto ai diversi contesti socio-ecclesiali. Siamo di fronte ad un vertice espanso, con una indubbia ricaduta, in positivo, nelle entità periferiche dell’istituto. Nello stesso tempo, però, il moltiplicarsi delle visite, più o meno informali, rischia di marginalizzare l’incidenza della visita canonica, che, in epoca moderna, dal sedicesimo al diciannovesimo secolo, è sempre stata la sola visita prevista ed effettuata.

Pensiamo ancora alla globalizzazione della comunicazione con la messa in rete degli istituti di vita consacrata. La governance-on-line è una prospettiva molto più realistica di quanto non si pensi. Tramite una video-conferenza oggi i consigli generali e le commissioni internazionali dei diversi istituti religiosi hanno la possibilità di lavorare e di comunicare, a livello intercontinentale, anche comodamente seduti nel proprio ufficio. Con i mezzi informatici, a costo zero, con una semplice e-mail e relativi allegati è oggi possibile scambiarsi documenti e risolvere anche i problemi più urgenti in tempo reale. Le tante patologie nel campo dell’informazione, di cui spesso ci si poteva lamentare soprattutto in passato, oggi non hanno più ragion d’essere, grazie appunto a tutti gli strumenti informatici sempre più presenti e utilizzati anche a livello di governi generali dei nostri istituti.

Un altro problema strettamente connesso a quanto si è andato finora dicendo, è quello del decentramento. Trasferendo sempre più spesso in periferia i poteri e le facoltà, si è inevitabilmente ridotta la necessità del ricorso all’istanza superiore. E anche qualora questo ricorso si imponesse, nulla impedisce di aspettare la “prossima” visita canonica, invocandone, eventualmente, l’urgenza. L’ex ministro generale ofm, p. Giacomo Bini, aveva simpaticamente battezzato le province di un istituto come gli “ordini in periferia”. In questi ordini periferici, diceva, il visitatore solitamente è bene accolto, anche perché la sua vicinanza temporanea è ben diversa dalla scomoda prossimità permanente del proprio provinciale.

Non manca, inoltre, una sempre più diffusa confusione sullo status disciplinare della visita canonica. Quando si parla, infatti, di visita canonica, si chiede Nava, si evidenzia semplicemente un disagio lessicale o non si fa emergere piuttosto la punta di un iceberg in ordine ad una reale mimetizzazione delle regole?

Certo, la visita canonica è oggi un fenomeno di cui è difficile stabilirne con chiarezza i contorni e la portata, anche perché l’osservanza delle regole, che nella vita di una comunità religiosa si tende sempre più spesso tranquillamente a sottovalutare, non è più percepita così importante come in passato. E’ un fatto che oggi non mancano, a volte, situazioni di vera e propria anomia. Ora, se il magistero della Chiesa ha ritenuto opportuno un rinnovato riferimento alla regola e alle costituzioni potrebbe averlo fatto anche solo per scongiurare il rischio che le scelte soggettive, i progetti individuali e gli orientamenti locali” prendano il sopravvento non solo sulla regola, ma an

che sullo stile di vita comunitaria e sul progetto apostolico di un istituto (Ripartire da Cristo, n. 18).

 

DESTRUTTURAZIONE

DELLA VITA CONSACRATA

 

Lo sa benissimo anche Nava che la vita consacrata è da tempo impegnata nella ricerca di un suo nuovo modello, di una sua nuova specifica identità di fronte a tutte le sfide e le istanze del mondo attuale. Ma proprio per questo non si può ignorare un fenomeno particolarmente preoccupante, almeno in Occidente, quello, per certi versi, di una destrutturazione vera e propria della vita consacrata. E’ un fenomeno inevitabile tutte le volte che si arresta il «ciclo di rigenerazione delle risorse che stabilizzano la vita di una istituzione». E’ quanto avviene necessariamente, nel caso della vita consacrata, con l’aumento dei decessi e il tasso sempre più instabile di perseveranza. Anche il non piccolo problema delle risorse economiche, a fronte di un forte innalzamento della media di età e dei conseguenti investimenti, ha la sua non irrilevante importanza.

Una, però, delle possibili e più serie derive della destrutturazione è quella legata ad una “strisciante demotivazione del gruppo”. Gli strumenti classici di animazione e di governo della vita consacrata, visita canonica compresa, «sono considerati con scetticismo, se non con palese indifferenza», vanificandone l’impatto e tutta la loro efficacia. La visita canonica, in particolare, viene allora vissuta o sopportata come routine ut adimpleantur Scripturae. E’ il caso di quel religioso che ha vissuto il momento più bello della visita canonica solo quando ha riaccompagnato il superiore generale all’aeroporto.

Su questo processo di destrutturazione della visita canonica, si potrebbero certamente aggiungere molte altre osservazioni. Ma non è possibile e anche molto più utile ed opportuno, si chiede Nava, tentare di recuperare e rilanciarne il significato ecclesiale e istituzionale, a tutto beneficio di una rivitalizzazione dei nostri istituti religiosi? Sicuramente sì!. Anzi, Nava è fermamente convinto che la sua efficacia, presente e futura, è e sarà garantita solo ad una condizione, quella del mantenimento della sua tipizzazione canonica.

In parole ancora più semplici, in che senso possiamo oggi continuare a parlare di visita canonica? Non ci si dovrebbe lasciar spaventare dalle parole. L’attribuzione “canonica” richiama non solo la sua prescrittività nell’ambito della legislazione ecclesiale, ma anche la sua tipicità istituzionale. Con questo linguaggio, che può sembrare anche troppo tecnico, non si vorrebbe dire altro se non che la visita canonica dev’essere realizzata nel pieno rispetto delle regole e delle procedute proprie di ogni singolo istituto.

A prima vista, il fatto di riproporre, oggi, la formula e la procedura di una visita canonica classica, potrebbe ingenerare facilmente l’impressione di cadere in un vuoto formalismo e in un fuorviante arcaismo, col rischio scontato di produrre più resistenze che non consensi. Il rischio esiste. Ma, attenzione! Quando si parla oggi dell’importanza delle regole e delle procedure, non si fa altro che esplicitare “criteri e prassi condivisi”, legittimando le regole stesse. Legittimare, infatti, un’azione attraverso il diritto, osserva Nava citando V. Ferrari, significa «giustificarla esibendo la sua aderenza a un modello normativo riconoscibile dall’interlocutore».

Gli interlocutori della visita canonica, infatti, non sono altri che i propri confratelli e le proprie consorelle. Sono coloro, cioè, che riconoscendo e acconsentendo ad un modello relazionale-comunicativo e valutativo, intendono vivere una reale esperienza di corresponsabilità e di partecipazione alla vita del proprio istituto. Proprio per questo, la regola e la prassi di una visita canonica non può e non dovrebbe mai ridursi a un puro formalismo. Naturalmente il coinvolgimento corresponsabile dei confratelli e delle consorelle nasce molto prima dell’inizio della visita canonica. Nasce propriamente già nel momento in cui gli obiettivi e i percorsi programmatici della visita canonica vengono esaminati e approvati nei rispettivi organismi decisionali a livello di istituto.

Questo sempre più ampio e corresponsabile coinvolgimento di tutti i membri nella ideazione e nella programmazione della vita spirituale e apostolica di un istituto, non è affatto in contrasto con la tradizione classica della visita canonica che ha sempre riconosciuto al visitatore margini di discrezionalità necessari a garantire il rispetto non solo delle procedure, ma anche sia del contesto in cui avviene la visita che dei rispettivi destinatari. Sempre nella linea del rispetto del contesto potrebbe, allora, essere oggi preferibile il ricorso a dei moduli o a dei metodi che consentano una lettura-valutazione della situazione concreta delle persone e dei luoghi in cui si svolge la visita canonica.

E questo è tanto più necessario oggi di fronte al fenomeno sempre più ampiamente diffuso della multiculturalità che investe la vita degli attuali istituti di vita consacrata. Un certo tipo e un eventuale certo modulo di visita canonica non potrebbe più oggi essere proposto e adottato indifferentemente in tutte le entità di un istituto religioso. Anche le forme di collaborazione e di partecipazione variano da un contesto culturale all’altro. Se un certo modulo può funzionare in Occidente, altrove può risultare deludente o inopportuno. Le variabili culturali sono troppo importanti per non prenderle in seria considerazione già nella fase ricognitiva e preparatoria anche di una visita canonica.

Poste queste promesse, la visita canonica, nonostante certe diffuse e, per alcuni versi, comprensibili reazioni nei suoi confronti, dovrebbe essere intesa, invece, «nel suo significato più autentico: una visita pensata e realizzata non solo a partire da chi la deve gestire, ma soprattutto dalle esigenze dei suoi destinatari». Il presupposto fondamentale è sempre quello di alcune fondamentali regole condivise da tutti o, se su vuole, «di paradigmi o di criteri di valutazione strettamente correlati sia ai suoi più diretti destinatari che al contesto culturale in cui questi vivono».

 

UN PROCESSO

DI VALUTAZIONE

 

Ma non basta intendersi sul significato delle parole. La cosa più importante riguarda piuttosto un’intesa sulla sostanza della visita canonica. Tentando una definizione, Nava la presenta come una “strategia di governo”, un processo di valutazione, che, sulla base di alcuni criteri condivisi e quindi, in un atteggiamento di piena corresponsabilità, tende a tutelare e a promuovere, sia a livello personale che comunitario, il carisma di fondazione di un istituto religioso, in piena sintonia con le esigenze e le attese della Chiesa e della società del proprio tempo.

Si tratta, anzitutto, di una strategia, già, per altro, esplicitata dal codice di diritto canonico, secondo il quale i superiori dovrebbero visitare (visitent) «con la frequenza stabilita le case e i religiosi loro affidati, attenendosi alle norme dello stesso diritto proprio» (can. 628). I religiosi, dal canto loro, sempre a norma dello stesso codice, si dovrebbero comportare con fiducia nei confronti del visitatore, rispondendo «secondo verità nella carità alle domande da lui legittimamente poste», fermo restando il fatto che «a nessuno poi è lecito distogliere in alcun modo i religiosi da tale obbligo, né impedire altrimenti lo scopo della visita» (ivi).

In sintesi, come commenta A. Calabrese, il visitatore «ha il diritto di conoscere, e i religiosi hanno il dovere di manifestare, tutto ciò che riguarda la vita e la disciplina religiosa tanto nell’insieme quanto per ciò che si riferisce ai singoli religiosi, particolarmente ai superiori, secondo lo spirito e la natura di ciascun istituto». Ad esempio, «non sono legittime, e i religiosi non sono tenuti a rispondere, le domande riguardanti il foro interno o la vita strettamente intima sia propria o degli altri, oppure le faccende di parenti».1 Non viene imposto ai singoli religiosi l’obbligo di presentarsi ai superiori. L’obbligo, però, nasce se il visitatore lo impone. Il n. 628 del codice, precisa Nava, andrebbe costantemente letto anche alla luce di quanto detto subito dopo, là, cioè, dove si precisa che «i religiosi devono rivolgersi con fiducia ai propri superiori ai quali possono palesare l’animo proprio con spontanea libertà». Il codice, comunque, vieta esplicitamente ai superiori, di indurre i propri confratelli «a manifestare loro, in qualunque modo, la propria coscienza» (can. 630).

Parlare di visita canonica come di un processo di valutazione non è un fatto del tutto scontato e immediato. “Valutare” significa, in qualche modo, giudicare una situazione o un’azione personale o collettiva, verificandone la sua corrispondenza o meno ad un progetto, ad un programma, siano essi già realizzati o in corso di realizzazione.

Il visitatore non si muove mai su dei criteri puramente discrezionali, ma si deve costantemente riferire a dei criteri condivisi. Ora, ogni volta che si apre un dibattito di valutazione su un tema, esiste una tentazione tipica che dovrebbe essere superata dai religiosi, quella, cioè, di tendere sempre «ad allargare inopportunamente l’orizzonte della sua collocazione», finendo, non poche volte, fuori tema.

I criteri oggettivi di riferimento pongono in qualche modo dei paletti obbligati sia per il visitatore che per i visitati. La valutazione del visitatore è un evento istituzionale, che esige la debita attenzione agli interessi e alle aspettative sia dei singoli che del gruppo, sulla base di orientamenti ben definiti e non lasciati mai alla discrezionalità del visitatore. Valutare significa, ancora, intervenire direttamente in merito, ad esempio, al processo di apprendimento, di cambiamento e di innovazione nel contesto dell’esperienza religiosa-apostolica sia del singolo religioso che della sua comunità sulla base di determinate prospettive ecclesiali-istituzioniali chiaramente enunciate e presupposte da un direttivo generale o provinciale.

È facile comprendere, allora, come in una visita canonica ci si dovrebbe concentrare più sulla qualità dei processi che non sulla quantità dei risultati. Diventa quindi, per certi versi, una valutazione di tendenza, vale a dire «una lettura d’insieme di informazioni, di dati, di situazioni in cui emergono indicatori progressivi o regressivi di mentalità, di comportamenti, di stili di vita», sia nel campo della pastorale che in quelli della spiritualità, della formazione, della gestione dei servizi. La si può chiamare di tendenza in quanto nasce dalla complessità della realtà istituzionale della vita consacrata dove il riscontro dei risultati non lo si può avere in tempi brevi. Gli stessi risultati dell’azione di un governo generale, ad esempio, anche senza voler ricorrere ad analisi rigorose e scientifiche, si possono misurare solo sulla lunga durata.

 

UN PRESUPPOSTO

DI FIDUCIA

 

Volendo individuare uno standard minimo di criteri per l’attivazione di un processo di valutazione, si dovrebbe parlare anzitutto del quadro istituzionale-ecclesiale di riferimento, poi degli obiettivi previsti e dei risultati attesi e, infine, degli effetti inattesi o imprevisti. A livello di vita consacrata, ciò che viene più direttamente valutata è la coerenza di comportamenti di un religioso e/o della comunità con il patrimonio spirituale del proprio istituto e con il carisma di fondazione. Tra gli aspetti previi e in qualche modo ovvii di ogni processo di valutazione troviamo anzitutto un presupposto di fiducia, di quella virtù, cioè, «che esercita un pensare positivo, evitando da una parte un passivo conformismo e, dall’altra, un pregiudiziale disfattismo». La fiducia, infatti, è importante non solo in chi governa, ma anche in chi è governato. Essa nasce sempre dal riconoscimento delle diversità, non cerca di imporre un ordine alla complessità, alla molteplicità e alla problematicità sempre presenti anche nella vita consacrata. Così intesa, la fiducia si accompagna necessariamente alla virtù dell’attenzione, alla virtù, cioè, «dell’ascolto vero, che si contrappone alle verità invadenti di chi chiude mente, sensi e cuore a ciò che si dà nel mondo».2

Quindi, in sintesi, non si può valutare senza un’adeguato atteggiamento di fiducia, di attenzione, di ascolto e, insieme, di senso della corresponsabilità, definito da Vita consecrata come un tratto di quella «comunione ecclesiale [che] promuove un modo di pensare, parlare ed agire che fa crescere in profondità e in estensione la Chiesa» (n. 46).

Molto opportunamente Nava riprende, a questo proposito, una riflessione di p. T. Radcliffe, ex maestro generale dei domenicani, per il quale «una delle ragioni per cui sfuggiamo alla responsabilità è che, benché chiamati alla libertà, la libertà ci spaventa e la responsabilità è gravosa, perciò siamo tentati di evitarla». Nell’ordine domenicano ci sono parecchi livelli di responsabilità anche se poi «spesso ci piace immaginarla a un livello diverso da quello in cui deve essere esercitata». Quante volte si sente ripetere nelle comunità che «bisogna fare qualcosa», solo che di solito, commenta Radcliffe «la deve fare qualcun altro, il superiore, o il capitolo, o addirittura il maestro dell’ordine». Quante volte, ancora, viene chiamata in causa la provincia, dal momento che, come non ci si stanca mai di ripetere, «è la provincia che deve agire, dimenticando che la provincia siamo noi stessi, e pertanto non si può non farsene carico».3

Se come è stato detto: «uno dei modi di prendersi le proprie responsabilità è proprio quello di prendersi la responsabilità di lasciare ad altri certe responsabilità»,4 allora è facile comprendere come una visita canonica ponga necessariamente un religioso, una comunità di fronte alle proprie responsabilità. Sarebbe fuorviante pensare alla visita canonica come ad un fatto di pronto intervento per la soluzione di problemi di emergenza. E’ la comunità stessa che, in prima battuta, deve assumersi la responsabilità di capire, affrontare e risolvere la sua situazione. Gli interventi risolutivi non si possono invocare sempre e solo dall’alto. E’ la singola comunità che si deve seriamente interrogare sulle ragioni di fondo di un intervento esterno. Senza questo previo processo di mentalizzazione, il successivo apporto del visitatore ne risulterebbe sicuramente inficiato.

 

SAPER

ASCOLTARE

 

Ponendosi più direttamente sul versante di chi deve gestire una visita canonica, vale a dire il superiore maggiore o un suo delegato, cosa si potrebbe dire? Da qualunque parte si prendano le mosse, il primo dato che risalta con tutta evidenza, nella generalità dei casi, è quello della complessità della relazione persona-istituzione. Esiste a questo riguardo un tale carico di potenzialità e di limiti che non consentono a priori una semplificazione sia dei processi di valutazione che dei processi decisionali ad essi conseguenti. Non solo. La complessità investe direttamente anche il quadro socio-ecclesiale di un istituto religioso, andando dalla già pesante gestione del quotidiano alla più impegnativa responsabilità di individuare ed elaborare un senso condiviso su orientamenti istituzionali ed ecclesiali.

La complessità si avverte ancor di più «quando si affacciano problemi di riorganizzazione istituzionale, in particolare, di rivisitazione dell’assetto delle circoscrizioni provinciali e di ridimensionamento delle opere». Le prime a risentire, in questi casi, sono proprio le dinamiche relazionali e di comunicazione, che vanno spesso dalla positiva accoglienza a degli improvvisi rifiuti, dagli accordi sofferti alle polemiche pretestuose, dalla paziente tessitura di ricomposizione ai conflitti insanabili, dal desiderio di innovare alla imposizione dello status quo. Questo elenco, commenta Nava, potrebbe continuare ancora molto a lungo. Ma non si possono omettere almeno certe situazioni al limite del patologico, come la marginalità, l’autoemarginazione, la solitudine, le malattie psichiche. È tutto questo mondo del disagio che, prima o poi, «finisce con l’ingenerare malessere nelle nostre istituzioni».5

Questi fenomeni che percentualmente sembrano in un costante aumento, sono il riflesso anche dell’ambiente socio-culturale in cui oggi è immersa la vita consacrata. Senza enfatizzarli e senza, ovviamente minimizzarli, si dovrebbe però essere in grado di attrezzarsi mentalmente per saperli affrontare e possibilmente contenere. Anche in questo caso non bastano le buone intenzioni. Sono necessarie, invece, convincenti strategie di accompagnamento, messe in atto da chi è in grado di saperlo fare, anche se non necessariamente sarà sempre il superiore maggiore. Il servizio del superiore maggiore, da parte sua, non può ignorare oggi un’accresciuta esigenza di ascolto, di colloquio, di aiuto per la soluzione di problemi, di discernimento per il mandato di obbedienza, soprattutto di intermediazione dei conflitti.

In tutti i casi il superiore maggiore dev’essere, anzitutto, l’uomo dell’obbedienza, colui, cioè, che sa ob–audire, che sa essere-in-stato-di-ascolto. Ma, spesso, invece, si deve scontrare con una indifferenza al suo ascolto che talvolta risulta scoraggiante o demotivante. Non c’è bisogno di ricorrere a dei rinomati esperti o ai grandi sondaggi per evidenziare il frequente tasso di incomunicabilità che all’interno di un istituto esiste sia a livello discendente, dal generale al provinciale e al singolo religioso, sia a livello ascendente, in una direzione esattamente opposta.

Anche la stessa complessità di fronte alla quale si viene a trovare spesso un visitatore, potrebbe, in qualche modo, rendere sempre più precario il suo ruolo. «La destrutturazione in atto di non pochi istituti e province, ha messo a nudo problemi che durante un mandato (triennale, sessennale…), un superiore maggiore forse riesce ad abbordare, difficilmente può avanzare la pretesa di risolvere».6 La precarietà va, dunque, ascritta allo status stesso di superiore maggiore. Non certo per una malcelata forma di autolesionismo, ma più semplicemente «per evitare di indurre per sé e per agli altri aspettative che rischiano di andare puntualmente deluse». Questo non vuole dire, comunque, che si debba dare per scontata la debolezza della leadership interna ad un istituto.

Dal momento che gli spazi di intervento sono oggi sempre più ristretti, proprio per questo dovrebbero risultare anche più mirati. Non basta, ad esempio, prestare grande attenzione alle scelte più immediate. Vanno adeguatamente valutate anche e soprattutto quelle che possono pesare, spesso in maniera determinante, sul futuro di una provincia, di un istituto. «Se progettare e programmare è un lessico in circolazione nei nostri ambienti, lo è molto meno, invece, una metodologia di valutazione e di impatto di certi orientamenti di governo. Le scelte di oggi vanno sempre più calcolate nei loro effetti di media e lunga durata. Il circolo vizioso di errori corretti con sbagli più gravi alla lunga rende ingovernabili certe situazioni».

Ogni superiore maggiore riceve dai suoi predecessori una eredità stratificata dove spesso si sovrappongono con troppa disinvoltura orientamenti sensati ed insensati, senza, comunque, dare troppo credito a questi ultimi. La precarietà non ha necessariamente solo un’anima negativa. Il limite, ogni forma di limite, può diventare anche una grande opportunità, una chance. Bisogna saperla cogliere. Diversamente il limite si trasforma inevitabilmente in un fallimento. È allora il caso di dire che contrariamente a certe mentalità disfattiste, la destrutturazione può offrire l’opportunità per delle scelte coraggiose, come si usava dire tra gli anni ’70-’80, o, come si direbbe oggi, per degli input all’innovazione. Oggi non si può non dire sì all’innovazione. È il fenomeno stesso della destrutturazione ad esigerlo! Non è più possibile oggi, detto in altri termini, continuare a subire «eredità progettuali, organizzative, gestionali, formative, pastorali ecc. che nel prossimo futuro non saranno più sostenibili se non al prezzo dell’accelerazione della destrutturazione stessa e della demotivazione del gruppo».

 

RIVALUTARE

LA VISITA CANONICA

 

Raccogliendo un po’ tutte le sue idee, espresse a volte con un linguaggio molto tecnico, non sempre di immediata percezione, Nava cerca di riassumere il tutto in alcune considerazioni conclusive. La visita canonica, anzitutto, andrebbe rilanciata come “strategia di governo”, garantendole un obiettivo e un percorso di valutazione condiviso anche da tutti i destinatari. La visita non può essere vista come un evento di ispezione e di controllo, anche se, in ben determinate situazioni, questi aspetti non possono essere aprioristicamente esclusi.

Il ricorso a degli organismi come un consiglio generale allargato od analoghi, potrebbe rivelarsi come il sistema più opportuno e adeguato per l’elaborazione del metodo e del programma della visita. E’ certo, comunque, che le direzioni provinciali e/o periferiche devono essere necessariamente coinvolte nell’individuazione degli obiettivi della visita. La serietà della preparazione e l’auspicabile autorevolezza del visitatore devono essere fuori discussione. Più che il conseguimento dei risultati, potrebbe essere compromessa in partenza la credibilità e sostenibilità di una strategia di governo agli occhi dei destinatari stessi della visita. In caso contrario, questa sarebbe percepita come una formalità e non come una importante occasione per valutare in maniera convincente la reale situazione di una determinata provincia.

La figura e le competenze del visitatore erano molto più chiaramente affermate nel diritto proprio degli ordini mendicanti e dei chierici regolari che non nel diritto e nella prassi degli Istituti di vita religiosa maschili e femminili del XIX-XX secolo. A qualcuno, oggi, potrebbe apparire quasi un ruolo anacronistico. Tuttavia, l’esperienza diretta di non poche situazioni ha visto seriamente compromessa la visita canonica. Il motivo? Non certo per l’incapacità del titolare di sapersi muovere con prudenza e tatto. Più semplicemente per la debole autorevolezza accordata sempre più frequentemente sia al ruolo che alla figura del visitatore, con la spiacevole conseguenza che la visita canonica da evento di comunione con l’istituto, rischia di trasformarsi in una situazione di disagio reciproco. Proprio per questo non andrebbe mai sottovalutata l’ipotesi di nominare come visitatore/trice una persona che goda di indubbia autorevolezza di fronte ai propri confratelli/consorelle, una persona che sappia essere, come è sempre avvenuto nella prassi classica della visita canonica, supra partes rispetto agli stessi superiori committenti.

Gli obiettivi di una visita canonica saranno tanto più facilmente raggiunti quanto più il suo percorso sarà stato preventivamente preparato e condiviso attraverso una corresponsabile partecipazione di tutta la comunità. Non è il caso di illudersi più di tanto. Una visita canonica «non può certo pretendere di assolvere ad una funzione di problem solving». Al più potrà mettere la comunità di fronte alle sue responsabilità, prima di invocare soluzioni dall’alto, oltretutto non sempre bene accolte!

Lo sforzo di rivalutare la funzione della visita canonica non è un ossequio formale ad una tradizione di vita religiosa. Nasce, invece, dalla consapevolezza che «la comunità, che è separata dal mondo, deve applicare al suo interno la disciplina comunitaria. La disciplina comunitaria non serve a costituire una comunità di perfetti, ma solo all’edificazione di una comunità di persone che vivono veramente della misericordia di Dio a caro prezzo».7

La visita canonica, infine, non intende essere una valutazione del consenso sui valori dell’identità consacrata concretamente vissuti all’interno di un istituto e in una sempre più doverosa interazione ecclesiale. Vuol essere soprattutto uno sforzo di edificazione reciproca, di visibilità e di credibilità della testimonianza di vita dei consacrati. «I carismi, dati ai singoli dallo Spirito Santo, come ricorda s. Paolo, sono rigorosamente disciplinati dalla diaconia alla comunità, poiché Dio non è Dio del disordine, ma della pace» (1 Cor 14,32ss.). Lo Spirito Santo si può rendere “visibile”, anche in una visita canonica, solo se lo scopo perseguito risulterà a pieno vantaggio di tutta la comunità.

 

Angelo Arrighini

 

1_Rocca G., Dizionario degli Istituti di Perfezione 10 (2003) 114-115 e bibliografia annessa.

2_Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica, LEV, Città del Vaticano 1997, 136.

3_Mapelli B., Nuove virtù. Percorsi di filosofia dell’educazione, Ed. A. Guerrini, Milano 2004, 163-164.

4_Radcliffe T., Cantate un canto nuovo. La vocazione cristiana, EDB, Bologna 2001, 94.

5_Schauer F., Le regole del gioco. Un’analisi filosofica delle decisioni prese secondo le regole del diritto e nella vita quotidiana, Il Mulino, Bologna 2000, 252.

6_Cf. Pinkus L., Autorealizzazione e disadattamento nella vita religiosa, Borla, Roma 1991; Id., Psicodinamica della vita consacrata, Editrice Elledici, Leumann (To) 2000.

7_Cf. Nava P.L., «Destrutturazione, ristrutturazione e ridimensionamento. Criteri orientativi», in In tua Provvidentia 60 (2003) 44-52.

8_Bonhoeffer D., Sequela, Queriniana, Brescia 1997, 271.