P. NAVA AI MEMBRI DELLE CURIE GENERALI
C’ERA UNA VOLTA LA VISITA CANONICA
È possibile il
rilancio di uno strumento di governo sempre più dimenticato? La visita canonica
come processo di valutazione sulla base di criteri condivisi da tutti e
mediante uno sforzo di edificazione reciproca.
Capita sempre più raramente di leggere o anche solo sentir parlare, oggi,
di visita canonica. E pensare che in passato è stata un istituto cardine della
vita consacrata. Anzi, secondo don Giancarlo Rocca, è stato un potente mezzo di
coesione, di identità e, insieme, di controllo nella vita di tanti istituti
religiosi. La storia di questo strumento di governo è in grado oggi di gettare
una nuova luce «non solo sulla vita quotidiana dei religiosi e delle religiose
e sulle loro attività, ma anche sulla loro storia sociale, sulla loro
architettura, sui loro possedimenti, sulla loro vita religiosa e umana e,
indirettamente, sulla storia politica e culturale dei territori in cui essi si
trovavano, nonché sull’importanza che i documenti scritti hanno assunto nella
vita quotidiana e nelle relazioni tra autorità e sudditi».
Proprio per questa scarsa attenzione ad un glorioso strumento di governo
del passato, ha suscitato un certo interesse l’intervento di Pier Luigi Nava,
monfortano, membro del consiglio di presidenza della
E dire che la manualistica e i commentari del codice di diritto canonico
del 1917 conferiscono alla visita canonica un’importanza simile a quella di chi
è insignito dell’ufficio di visitatore, sia esso un superiore maggiore o un
religioso deputato ad hoc. Con il nuovo codice del 1983 le cose sono cambiate,
ma non più di tanto. Se anche adesso non mancano letture piuttosto datate,
questo significa che molto spesso non si è andati oltre le indicazioni
tradizionali.
Anche nella prassi postconciliare si è andata consolidando una progressiva
designificazione della visita canonica, fino al punto da ridurla a volte ad una
vera e propria formalità. Una riprova la si ha, ad esempio, nella scarsa
produzione bibliografica in proposito. Se ne parla e, soprattutto, se ne scrive
sempre di meno. Una conferma quanto mai convincente la si trova nell’uso stesso
del termine “canonica“, sostituito, a volte, da “visita fraterna”, da “visita
pastorale” (sic!), o più semplicemente, da una non meglio precisata e più
generica “verifica”.
UN GOVERNO
“ON LINE”
Ma perché se ne parla sempre di meno e perché rischia oggi di smarrire
lungo la strada il suo significato originario? Non potrebbe essere anche questo
un sintomo evidente della crisi in atto nel campo della vita consacrata?
Pensiamo, ad esempio, osserva Nava tentando alcune ipotesi interpretative del
fenomeno, alla mobilità dei governi generali. E’ un fatto che oggi il centro
effettivo della vita e dell’attività di un istituto religioso è sempre più
spesso “in periferia”, lontano, cioè, dalla sede centrale. I voli low cost
offrono facilmente ad intere équipes di organismi generali la possibilità di
muoversi su scala internazionale. Non per nulla c’è chi oggi parla, anche in
riferimento ai direttivi centrali di un istituto religioso, di governance-airlines.
Da sempre, Roma è stata la sede naturale dei capitoli generali. Ora,
invece, i capitoli e i cosiddetti consigli generali allargati – organismi a
scadenza regolare - sono sovente convocati nelle aree culturali in cui è in
atto una più forte espansione dell’istituto. Oggi non si può non prendere atto
del fatto che i processi di internazionalizzazione della vita consacrata ne
hanno profondamente modificato non solo la geografia storica, ma anche la
governance, vale a dire le regole e le modalità di azione di governo rispetto
ai diversi contesti socio-ecclesiali. Siamo di fronte ad un vertice espanso,
con una indubbia ricaduta, in positivo, nelle entità periferiche dell’istituto.
Nello stesso tempo, però, il moltiplicarsi delle visite, più o meno informali,
rischia di marginalizzare l’incidenza della visita canonica, che, in epoca
moderna, dal sedicesimo al diciannovesimo secolo, è sempre stata la sola visita
prevista ed effettuata.
Pensiamo ancora alla globalizzazione della comunicazione con la messa in
rete degli istituti di vita consacrata. La governance-on-line è una prospettiva
molto più realistica di quanto non si pensi. Tramite una video-conferenza oggi
i consigli generali e le commissioni internazionali dei diversi istituti
religiosi hanno la possibilità di lavorare e di comunicare, a livello
intercontinentale, anche comodamente seduti nel proprio ufficio. Con i mezzi
informatici, a costo zero, con una semplice e-mail e relativi allegati è oggi
possibile scambiarsi documenti e risolvere anche i problemi più urgenti in
tempo reale. Le tante patologie nel campo dell’informazione, di cui spesso ci
si poteva lamentare soprattutto in passato, oggi non hanno più ragion d’essere,
grazie appunto a tutti gli strumenti informatici sempre più presenti e
utilizzati anche a livello di governi generali dei nostri istituti.
Un altro problema strettamente connesso a quanto si è andato finora
dicendo, è quello del decentramento. Trasferendo sempre più spesso in periferia
i poteri e le facoltà, si è inevitabilmente ridotta la necessità del ricorso
all’istanza superiore. E anche qualora questo ricorso si imponesse, nulla
impedisce di aspettare la “prossima” visita canonica, invocandone,
eventualmente, l’urgenza. L’ex ministro generale ofm, p. Giacomo Bini, aveva
simpaticamente battezzato le province di un istituto come gli “ordini in
periferia”. In questi ordini periferici, diceva, il visitatore solitamente è
bene accolto, anche perché la sua vicinanza temporanea è ben diversa dalla
scomoda prossimità permanente del proprio provinciale.
Non manca, inoltre, una sempre più diffusa confusione sullo status
disciplinare della visita canonica. Quando si parla, infatti, di visita
canonica, si chiede Nava, si evidenzia semplicemente un disagio lessicale o non
si fa emergere piuttosto la punta di un iceberg in ordine ad una reale
mimetizzazione delle regole?
Certo, la visita canonica è oggi un fenomeno di cui è difficile stabilirne
con chiarezza i contorni e la portata, anche perché l’osservanza delle regole,
che nella vita di una comunità religiosa si tende sempre più spesso
tranquillamente a sottovalutare, non è più percepita così importante come in
passato. E’ un fatto che oggi non mancano, a volte, situazioni di vera e
propria anomia. Ora, se il magistero della Chiesa ha ritenuto opportuno un
rinnovato riferimento alla regola e alle costituzioni potrebbe averlo fatto
anche solo per scongiurare il rischio che le scelte soggettive, i progetti
individuali e gli orientamenti locali” prendano il sopravvento non solo sulla regola,
ma an
che sullo stile di vita comunitaria e sul progetto apostolico di un
istituto (Ripartire da Cristo, n. 18).
DESTRUTTURAZIONE
DELLA VITA CONSACRATA
Lo sa benissimo anche Nava che la vita consacrata è da tempo impegnata
nella ricerca di un suo nuovo modello, di una sua nuova specifica identità di
fronte a tutte le sfide e le istanze del mondo attuale. Ma proprio per questo
non si può ignorare un fenomeno particolarmente preoccupante, almeno in
Occidente, quello, per certi versi, di una destrutturazione vera e propria
della vita consacrata. E’ un fenomeno inevitabile tutte le volte che si arresta
il «ciclo di rigenerazione delle risorse che stabilizzano la vita di una
istituzione». E’ quanto avviene necessariamente, nel caso della vita consacrata,
con l’aumento dei decessi e il tasso sempre più instabile di perseveranza.
Anche il non piccolo problema delle risorse economiche, a fronte di un forte
innalzamento della media di età e dei conseguenti investimenti, ha la sua non
irrilevante importanza.
Una, però, delle possibili e più serie derive della destrutturazione è
quella legata ad una “strisciante demotivazione del gruppo”. Gli strumenti
classici di animazione e di governo della vita consacrata, visita canonica
compresa, «sono considerati con scetticismo, se non con palese indifferenza»,
vanificandone l’impatto e tutta la loro efficacia. La visita canonica, in
particolare, viene allora vissuta o sopportata come routine ut adimpleantur
Scripturae. E’ il caso di quel religioso che ha vissuto il momento più bello
della visita canonica solo quando ha riaccompagnato il superiore generale
all’aeroporto.
Su questo processo di destrutturazione della visita canonica, si potrebbero
certamente aggiungere molte altre osservazioni. Ma non è possibile e anche molto
più utile ed opportuno, si chiede Nava, tentare di recuperare e rilanciarne il
significato ecclesiale e istituzionale, a tutto beneficio di una
rivitalizzazione dei nostri istituti religiosi? Sicuramente sì!. Anzi, Nava è
fermamente convinto che la sua efficacia, presente e futura, è e sarà garantita
solo ad una condizione, quella del mantenimento della sua tipizzazione
canonica.
In parole ancora più semplici, in che senso possiamo oggi continuare a
parlare di visita canonica? Non ci si dovrebbe lasciar spaventare dalle parole.
L’attribuzione “canonica” richiama non solo la sua prescrittività nell’ambito
della legislazione ecclesiale, ma anche la sua tipicità istituzionale. Con
questo linguaggio, che può sembrare anche troppo tecnico, non si vorrebbe dire
altro se non che la visita canonica dev’essere realizzata nel pieno rispetto
delle regole e delle procedute proprie di ogni singolo istituto.
A prima vista, il fatto di riproporre, oggi, la formula e la procedura di
una visita canonica classica, potrebbe ingenerare facilmente l’impressione di
cadere in un vuoto formalismo e in un fuorviante arcaismo, col rischio scontato
di produrre più resistenze che non consensi. Il rischio esiste. Ma, attenzione!
Quando si parla oggi dell’importanza delle regole e delle procedure, non si fa
altro che esplicitare “criteri e prassi condivisi”, legittimando le regole
stesse. Legittimare, infatti, un’azione attraverso il diritto, osserva Nava
citando V. Ferrari, significa «giustificarla esibendo la sua aderenza a un modello
normativo riconoscibile dall’interlocutore».
Gli interlocutori della visita canonica, infatti, non sono altri che i
propri confratelli e le proprie consorelle. Sono coloro, cioè, che riconoscendo
e acconsentendo ad un modello relazionale-comunicativo e valutativo, intendono
vivere una reale esperienza di corresponsabilità e di partecipazione alla vita
del proprio istituto. Proprio per questo, la regola e la prassi di una visita
canonica non può e non dovrebbe mai ridursi a un puro formalismo. Naturalmente
il coinvolgimento corresponsabile dei confratelli e delle consorelle nasce
molto prima dell’inizio della visita canonica. Nasce propriamente già nel
momento in cui gli obiettivi e i percorsi programmatici della visita canonica
vengono esaminati e approvati nei rispettivi organismi decisionali a livello di
istituto.
Questo sempre più ampio e corresponsabile coinvolgimento di tutti i membri
nella ideazione e nella programmazione della vita spirituale e apostolica di un
istituto, non è affatto in contrasto con la tradizione classica della visita
canonica che ha sempre riconosciuto al visitatore margini di discrezionalità
necessari a garantire il rispetto non solo delle procedure, ma anche sia del
contesto in cui avviene la visita che dei rispettivi destinatari. Sempre nella
linea del rispetto del contesto potrebbe, allora, essere oggi preferibile il
ricorso a dei moduli o a dei metodi che consentano una lettura-valutazione
della situazione concreta delle persone e dei luoghi in cui si svolge la visita
canonica.
E questo è tanto più necessario oggi di fronte al fenomeno sempre più
ampiamente diffuso della multiculturalità che investe la vita degli attuali
istituti di vita consacrata. Un certo tipo e un eventuale certo modulo di
visita canonica non potrebbe più oggi essere proposto e adottato
indifferentemente in tutte le entità di un istituto religioso. Anche le forme
di collaborazione e di partecipazione variano da un contesto culturale
all’altro. Se un certo modulo può funzionare in Occidente, altrove può risultare
deludente o inopportuno. Le variabili culturali sono troppo importanti per non
prenderle in seria considerazione già nella fase ricognitiva e preparatoria
anche di una visita canonica.
Poste queste promesse, la visita canonica, nonostante certe diffuse e, per
alcuni versi, comprensibili reazioni nei suoi confronti, dovrebbe essere
intesa, invece, «nel suo significato più autentico: una visita pensata e
realizzata non solo a partire da chi la deve gestire, ma soprattutto dalle
esigenze dei suoi destinatari». Il presupposto fondamentale è sempre quello di
alcune fondamentali regole condivise da tutti o, se su vuole, «di paradigmi o
di criteri di valutazione strettamente correlati sia ai suoi più diretti
destinatari che al contesto culturale in cui questi vivono».
UN PROCESSO
DI VALUTAZIONE
Ma non basta intendersi sul significato delle parole. La cosa più
importante riguarda piuttosto un’intesa sulla sostanza della visita canonica.
Tentando una definizione, Nava la presenta come una “strategia di governo”, un
processo di valutazione, che, sulla base di alcuni criteri condivisi e quindi,
in un atteggiamento di piena corresponsabilità, tende a tutelare e a
promuovere, sia a livello personale che comunitario, il carisma di fondazione
di un istituto religioso, in piena sintonia con le esigenze e le attese della
Chiesa e della società del proprio tempo.
Si tratta, anzitutto, di una strategia, già, per altro, esplicitata dal
codice di diritto canonico, secondo il quale i superiori dovrebbero visitare
(visitent) «con la frequenza stabilita le case e i religiosi loro affidati,
attenendosi alle norme dello stesso diritto proprio» (can. 628). I religiosi,
dal canto loro, sempre a norma dello stesso codice, si dovrebbero comportare
con fiducia nei confronti del visitatore, rispondendo «secondo verità nella
carità alle domande da lui legittimamente poste», fermo restando il fatto che
«a nessuno poi è lecito distogliere in alcun modo i religiosi da tale obbligo,
né impedire altrimenti lo scopo della visita» (ivi).
In sintesi, come commenta A. Calabrese, il visitatore «ha il diritto di
conoscere, e i religiosi hanno il dovere di manifestare, tutto ciò che riguarda
la vita e la disciplina religiosa tanto nell’insieme quanto per ciò che si
riferisce ai singoli religiosi, particolarmente ai superiori, secondo lo
spirito e la natura di ciascun istituto». Ad esempio, «non sono legittime, e i
religiosi non sono tenuti a rispondere, le domande riguardanti il foro interno
o la vita strettamente intima sia propria o degli altri, oppure le faccende di
parenti».1 Non viene imposto ai singoli religiosi l’obbligo di presentarsi ai
superiori. L’obbligo, però, nasce se il visitatore lo impone. Il n. 628 del
codice, precisa Nava, andrebbe costantemente letto anche alla luce di quanto detto
subito dopo, là, cioè, dove si precisa che «i religiosi devono rivolgersi con
fiducia ai propri superiori ai quali possono palesare l’animo proprio con
spontanea libertà». Il codice, comunque, vieta esplicitamente ai superiori, di
indurre i propri confratelli «a manifestare loro, in qualunque modo, la propria
coscienza» (can. 630).
Parlare di visita canonica come di un processo di valutazione non è un
fatto del tutto scontato e immediato. “Valutare” significa, in qualche modo,
giudicare una situazione o un’azione personale o collettiva, verificandone la
sua corrispondenza o meno ad un progetto, ad un programma, siano essi già
realizzati o in corso di realizzazione.
Il visitatore non si muove mai su dei criteri puramente discrezionali, ma
si deve costantemente riferire a dei criteri condivisi. Ora, ogni volta che si
apre un dibattito di valutazione su un tema, esiste una tentazione tipica che
dovrebbe essere superata dai religiosi, quella, cioè, di tendere sempre «ad
allargare inopportunamente l’orizzonte della sua collocazione», finendo, non
poche volte, fuori tema.
I criteri oggettivi di riferimento pongono in qualche modo dei paletti
obbligati sia per il visitatore che per i visitati. La valutazione del
visitatore è un evento istituzionale, che esige la debita attenzione agli
interessi e alle aspettative sia dei singoli che del gruppo, sulla base di
orientamenti ben definiti e non lasciati mai alla discrezionalità del
visitatore. Valutare significa, ancora, intervenire direttamente in merito, ad
esempio, al processo di apprendimento, di cambiamento e di innovazione nel
contesto dell’esperienza religiosa-apostolica sia del singolo religioso che
della sua comunità sulla base di determinate prospettive
ecclesiali-istituzioniali chiaramente enunciate e presupposte da un direttivo
generale o provinciale.
È facile comprendere, allora, come in una visita canonica ci si dovrebbe
concentrare più sulla qualità dei processi che non sulla quantità dei
risultati. Diventa quindi, per certi versi, una valutazione di tendenza, vale a
dire «una lettura d’insieme di informazioni, di dati, di situazioni in cui
emergono indicatori progressivi o regressivi di mentalità, di comportamenti, di
stili di vita», sia nel campo della pastorale che in quelli della spiritualità,
della formazione, della gestione dei servizi. La si può chiamare di tendenza in
quanto nasce dalla complessità della realtà istituzionale della vita consacrata
dove il riscontro dei risultati non lo si può avere in tempi brevi. Gli stessi
risultati dell’azione di un governo generale, ad esempio, anche senza voler
ricorrere ad analisi rigorose e scientifiche, si possono misurare solo sulla
lunga durata.
UN PRESUPPOSTO
DI FIDUCIA
Volendo individuare uno standard minimo di criteri per l’attivazione di un
processo di valutazione, si dovrebbe parlare anzitutto del quadro
istituzionale-ecclesiale di riferimento, poi degli obiettivi previsti e dei
risultati attesi e, infine, degli effetti inattesi o imprevisti. A livello di
vita consacrata, ciò che viene più direttamente valutata è la coerenza di
comportamenti di un religioso e/o della comunità con il patrimonio spirituale
del proprio istituto e con il carisma di fondazione. Tra gli aspetti previi e
in qualche modo ovvii di ogni processo di valutazione troviamo anzitutto un
presupposto di fiducia, di quella virtù, cioè, «che esercita un pensare
positivo, evitando da una parte un passivo conformismo e, dall’altra, un
pregiudiziale disfattismo». La fiducia, infatti, è importante non solo in chi
governa, ma anche in chi è governato. Essa nasce sempre dal riconoscimento
delle diversità, non cerca di imporre un ordine alla complessità, alla
molteplicità e alla problematicità sempre presenti anche nella vita consacrata.
Così intesa, la fiducia si accompagna necessariamente alla virtù
dell’attenzione, alla virtù, cioè, «dell’ascolto vero, che si contrappone alle
verità invadenti di chi chiude mente, sensi e cuore a ciò che si dà nel
mondo».2
Quindi, in sintesi, non si può valutare senza un’adeguato atteggiamento di
fiducia, di attenzione, di ascolto e, insieme, di senso della
corresponsabilità, definito da Vita consecrata come un tratto di quella
«comunione ecclesiale [che] promuove un modo di pensare, parlare ed agire che
fa crescere in profondità e in estensione la Chiesa» (n. 46).
Molto opportunamente Nava riprende, a questo proposito, una riflessione di
p. T. Radcliffe, ex maestro generale dei domenicani, per il quale «una delle
ragioni per cui sfuggiamo alla responsabilità è che, benché chiamati alla
libertà, la libertà ci spaventa e la responsabilità è gravosa, perciò siamo
tentati di evitarla». Nell’ordine domenicano ci sono parecchi livelli di
responsabilità anche se poi «spesso ci piace immaginarla a un livello diverso
da quello in cui deve essere esercitata». Quante volte si sente ripetere nelle
comunità che «bisogna fare qualcosa», solo che di solito, commenta Radcliffe
«la deve fare qualcun altro, il superiore, o il capitolo, o addirittura il
maestro dell’ordine». Quante volte, ancora, viene chiamata in causa la
provincia, dal momento che, come non ci si stanca mai di ripetere, «è la
provincia che deve agire, dimenticando che la provincia siamo noi stessi, e
pertanto non si può non farsene carico».3
Se come è stato detto: «uno dei modi di prendersi le proprie responsabilità
è proprio quello di prendersi la responsabilità di lasciare ad altri certe
responsabilità»,4 allora è facile comprendere come una visita canonica ponga
necessariamente un religioso, una comunità di fronte alle proprie
responsabilità. Sarebbe fuorviante pensare alla visita canonica come ad un
fatto di pronto intervento per la soluzione di problemi di emergenza. E’ la
comunità stessa che, in prima battuta, deve assumersi la responsabilità di
capire, affrontare e risolvere la sua situazione. Gli interventi risolutivi non
si possono invocare sempre e solo dall’alto. E’ la singola comunità che si deve
seriamente interrogare sulle ragioni di fondo di un intervento esterno. Senza
questo previo processo di mentalizzazione, il successivo apporto del visitatore
ne risulterebbe sicuramente inficiato.
SAPER
ASCOLTARE
Ponendosi più direttamente sul versante di chi deve gestire una visita
canonica, vale a dire il superiore maggiore o un suo delegato, cosa si potrebbe
dire? Da qualunque parte si prendano le mosse, il primo dato che risalta con
tutta evidenza, nella generalità dei casi, è quello della complessità della
relazione persona-istituzione. Esiste a questo riguardo un tale carico di
potenzialità e di limiti che non consentono a priori una semplificazione sia dei
processi di valutazione che dei processi decisionali ad essi conseguenti. Non
solo. La complessità investe direttamente anche il quadro socio-ecclesiale di
un istituto religioso, andando dalla già pesante gestione del quotidiano alla
più impegnativa responsabilità di individuare ed elaborare un senso condiviso
su orientamenti istituzionali ed ecclesiali.
La complessità si avverte ancor di più «quando si affacciano problemi di
riorganizzazione istituzionale, in particolare, di rivisitazione dell’assetto
delle circoscrizioni provinciali e di ridimensionamento delle opere». Le prime
a risentire, in questi casi, sono proprio le dinamiche relazionali e di
comunicazione, che vanno spesso dalla positiva accoglienza a degli improvvisi
rifiuti, dagli accordi sofferti alle polemiche pretestuose, dalla paziente
tessitura di ricomposizione ai conflitti insanabili, dal desiderio di innovare
alla imposizione dello status quo. Questo elenco, commenta Nava, potrebbe
continuare ancora molto a lungo. Ma non si possono omettere almeno certe
situazioni al limite del patologico, come la marginalità, l’autoemarginazione,
la solitudine, le malattie psichiche. È tutto questo mondo del disagio che,
prima o poi, «finisce con l’ingenerare malessere nelle nostre istituzioni».5
Questi fenomeni che percentualmente sembrano in un costante aumento, sono
il riflesso anche dell’ambiente socio-culturale in cui oggi è immersa la vita
consacrata. Senza enfatizzarli e senza, ovviamente minimizzarli, si dovrebbe
però essere in grado di attrezzarsi mentalmente per saperli affrontare e
possibilmente contenere. Anche in questo caso non bastano le buone intenzioni.
Sono necessarie, invece, convincenti strategie di accompagnamento, messe in
atto da chi è in grado di saperlo fare, anche se non necessariamente sarà
sempre il superiore maggiore. Il servizio del superiore maggiore, da parte sua,
non può ignorare oggi un’accresciuta esigenza di ascolto, di colloquio, di
aiuto per la soluzione di problemi, di discernimento per il mandato di
obbedienza, soprattutto di intermediazione dei conflitti.
In tutti i casi il superiore maggiore dev’essere, anzitutto, l’uomo
dell’obbedienza, colui, cioè, che sa ob–audire, che sa
essere-in-stato-di-ascolto. Ma, spesso, invece, si deve scontrare con una
indifferenza al suo ascolto che talvolta risulta scoraggiante o demotivante.
Non c’è bisogno di ricorrere a dei rinomati esperti o ai grandi sondaggi per
evidenziare il frequente tasso di incomunicabilità che all’interno di un
istituto esiste sia a livello discendente, dal generale al provinciale e al
singolo religioso, sia a livello ascendente, in una direzione esattamente
opposta.
Anche la stessa complessità di fronte alla quale si viene a trovare spesso
un visitatore, potrebbe, in qualche modo, rendere sempre più precario il suo
ruolo. «La destrutturazione in atto di non pochi istituti e province, ha messo
a nudo problemi che durante un mandato (triennale, sessennale…), un superiore
maggiore forse riesce ad abbordare, difficilmente può avanzare la pretesa di
risolvere».6 La precarietà va, dunque, ascritta allo status stesso di superiore
maggiore. Non certo per una malcelata forma di autolesionismo, ma più
semplicemente «per evitare di indurre per sé e per agli altri aspettative che
rischiano di andare puntualmente deluse». Questo non vuole dire, comunque, che
si debba dare per scontata la debolezza della leadership interna ad un
istituto.
Dal momento che gli spazi di intervento sono oggi sempre più ristretti,
proprio per questo dovrebbero risultare anche più mirati. Non basta, ad
esempio, prestare grande attenzione alle scelte più immediate. Vanno
adeguatamente valutate anche e soprattutto quelle che possono pesare, spesso in
maniera determinante, sul futuro di una provincia, di un istituto. «Se
progettare e programmare è un lessico in circolazione nei nostri ambienti, lo è
molto meno, invece, una metodologia di valutazione e di impatto di certi
orientamenti di governo. Le scelte di oggi vanno sempre più calcolate nei loro
effetti di media e lunga durata. Il circolo vizioso di errori corretti con
sbagli più gravi alla lunga rende ingovernabili certe situazioni».
Ogni superiore maggiore riceve dai suoi predecessori una eredità
stratificata dove spesso si sovrappongono con troppa disinvoltura orientamenti
sensati ed insensati, senza, comunque, dare troppo credito a questi ultimi. La
precarietà non ha necessariamente solo un’anima negativa. Il limite, ogni forma
di limite, può diventare anche una grande opportunità, una chance. Bisogna
saperla cogliere. Diversamente il limite si trasforma inevitabilmente in un
fallimento. È allora il caso di dire che contrariamente a certe mentalità
disfattiste, la destrutturazione può offrire l’opportunità per delle scelte
coraggiose, come si usava dire tra gli anni ’70-’80, o, come si direbbe oggi,
per degli input all’innovazione. Oggi non si può non dire sì all’innovazione. È
il fenomeno stesso della destrutturazione ad esigerlo! Non è più possibile
oggi, detto in altri termini, continuare a subire «eredità progettuali,
organizzative, gestionali, formative, pastorali ecc. che nel prossimo futuro
non saranno più sostenibili se non al prezzo dell’accelerazione della
destrutturazione stessa e della demotivazione del gruppo».
RIVALUTARE
LA VISITA CANONICA
Raccogliendo un po’ tutte le sue idee, espresse a volte con un linguaggio
molto tecnico, non sempre di immediata percezione, Nava cerca di riassumere il
tutto in alcune considerazioni conclusive. La visita canonica, anzitutto,
andrebbe rilanciata come “strategia di governo”, garantendole un obiettivo e un
percorso di valutazione condiviso anche da tutti i destinatari. La visita non
può essere vista come un evento di ispezione e di controllo, anche se, in ben
determinate situazioni, questi aspetti non possono essere aprioristicamente
esclusi.
Il ricorso a degli organismi come un consiglio generale allargato od
analoghi, potrebbe rivelarsi come il sistema più opportuno e adeguato per
l’elaborazione del metodo e del programma della visita. E’ certo, comunque, che
le direzioni provinciali e/o periferiche devono essere necessariamente
coinvolte nell’individuazione degli obiettivi della visita. La serietà della
preparazione e l’auspicabile autorevolezza del visitatore devono essere fuori
discussione. Più che il conseguimento dei risultati, potrebbe essere compromessa
in partenza la credibilità e sostenibilità di una strategia di governo agli
occhi dei destinatari stessi della visita. In caso contrario, questa sarebbe
percepita come una formalità e non come una importante occasione per valutare
in maniera convincente la reale situazione di una determinata provincia.
La figura e le competenze del visitatore erano molto più chiaramente
affermate nel diritto proprio degli ordini mendicanti e dei chierici regolari
che non nel diritto e nella prassi degli Istituti di vita religiosa maschili e
femminili del XIX-XX secolo. A qualcuno, oggi, potrebbe apparire quasi un ruolo
anacronistico. Tuttavia, l’esperienza diretta di non poche situazioni ha visto
seriamente compromessa la visita canonica. Il motivo? Non certo per l’incapacità
del titolare di sapersi muovere con prudenza e tatto. Più semplicemente per la
debole autorevolezza accordata sempre più frequentemente sia al ruolo che alla
figura del visitatore, con la spiacevole conseguenza che la visita canonica da
evento di comunione con l’istituto, rischia di trasformarsi in una situazione
di disagio reciproco. Proprio per questo non andrebbe mai sottovalutata
l’ipotesi di nominare come visitatore/trice una persona che goda di indubbia
autorevolezza di fronte ai propri confratelli/consorelle, una persona che
sappia essere, come è sempre avvenuto nella prassi classica della visita
canonica, supra partes rispetto agli stessi superiori committenti.
Gli obiettivi di una visita canonica saranno tanto più facilmente raggiunti
quanto più il suo percorso sarà stato preventivamente preparato e condiviso
attraverso una corresponsabile partecipazione di tutta la comunità. Non è il
caso di illudersi più di tanto. Una visita canonica «non può certo pretendere
di assolvere ad una funzione di problem solving». Al più potrà mettere la
comunità di fronte alle sue responsabilità, prima di invocare soluzioni
dall’alto, oltretutto non sempre bene accolte!
Lo sforzo di rivalutare la funzione della visita canonica non è un ossequio
formale ad una tradizione di vita religiosa. Nasce, invece, dalla
consapevolezza che «la comunità, che è separata dal mondo, deve applicare al
suo interno la disciplina comunitaria. La disciplina comunitaria non serve a
costituire una comunità di perfetti, ma solo all’edificazione di una comunità
di persone che vivono veramente della misericordia di Dio a caro prezzo».7
La visita canonica, infine, non intende essere una valutazione del consenso
sui valori dell’identità consacrata concretamente vissuti all’interno di un
istituto e in una sempre più doverosa interazione ecclesiale. Vuol essere
soprattutto uno sforzo di edificazione reciproca, di visibilità e di
credibilità della testimonianza di vita dei consacrati. «I carismi, dati ai
singoli dallo Spirito Santo, come ricorda s. Paolo, sono rigorosamente
disciplinati dalla diaconia alla comunità, poiché Dio non è Dio del disordine,
ma della pace» (1 Cor 14,32ss.). Lo Spirito Santo si può rendere “visibile”,
anche in una visita canonica, solo se lo scopo perseguito risulterà a pieno
vantaggio di tutta la comunità.
1_Rocca G., Dizionario degli Istituti di Perfezione 10 (2003) 114-115 e
bibliografia annessa.
2_Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica, LEV, Città del
Vaticano 1997, 136.
3_Mapelli B., Nuove virtù. Percorsi di filosofia dell’educazione, Ed. A.
Guerrini, Milano 2004, 163-164.
4_Radcliffe T., Cantate un canto nuovo. La vocazione cristiana, EDB,
Bologna 2001, 94.
5_Schauer F., Le regole del gioco. Un’analisi filosofica delle decisioni
prese secondo le regole del diritto e nella vita quotidiana, Il Mulino, Bologna
2000, 252.
6_Cf. Pinkus L., Autorealizzazione e disadattamento nella vita religiosa,
Borla, Roma 1991; Id., Psicodinamica della vita consacrata, Editrice Elledici,
Leumann (To) 2000.
7_Cf. Nava P.L., «Destrutturazione, ristrutturazione e ridimensionamento. Criteri
orientativi», in In tua Provvidentia 60 (2003) 44-52.
8_Bonhoeffer D., Sequela, Queriniana, Brescia 1997, 271.