A QUARANT’ANNI DALLA POPULORUM PROGRESSIO
PROPOSTE ANCORA VALIDE
La prima proposta
riguarda il dovere della solidarietà; la seconda, la giustizia sociale perché
tutti i popoli possano partecipare al commercio mondiale; la terza è il dovere
della carità universale. L’enciclica si rivela anche oggi un testo profetico e
provocatorio. Riflessioni di un missionario.
È un’enciclica che costò dure critiche a papa Montini da parte di coloro
che pretendevano che egli rimanesse, come ebbe a dire il card. Poupard, “il
cappellano dell’Occidente”. Populorum progressio (PP), dopo il concilio si
presentava come una parola profetica e progettuale che intendeva mettere la
Chiesa al servizio del mondo, nella linea della costituzione pastorale Gaudium
et spes.
L’enciclica di Paolo VI ebbe un’immediata eco nel mondo ecclesiastico e più
ancora in quello secolare. Ciò era dovuto ai temi che affrontava con un
tempismo inusitato e con una notevole lucidità, ma anche per il metodo. Era,
infatti, la prima volta che un documento pontificio ufficiale citava teologi,
filosofi, economisti e sociologi, religiosi e laici, come Henry De Lubac,
Jacques Maritain e
È importante rileggerla oggi e richiamarne le idee centrali, non solo
perché Populorum progressio (PP) è stato un documento genuinamente
rivoluzionario che guardava in faccia un problema sociale ormai mondiale, ma
anche perché le indicazioni che Paolo VI ha dato sono ancora attuali, perché…
non sono state ancora realizzate. Erano passati solo una diecina di anni dalla
conferenza di Bandung (1955) e da quel fenomeno che allora era chiamato il
“risveglio dei popoli di colore”, cioè, di quei paesi che giungevano allora
all’indipendenza dalla colonia o che stavano lottando per conseguirla.
L’Occidente abbandonando il ruolo di padrone coloniale, si proponeva come
partner, non sempre disinteressato, dello sviluppo delle nuove nazioni.
Alla fine del XIX secolo, la Chiesa aveva dato, seppure con un certo
ritardo, una risposta alla questione sociale degli operai con la Rerum novarum
di Leone XIII, affermando che la sola logica del mercato non poteva bastare per
regolare equamente i rapporti tra ricchi e poveri, tra imprenditori e
lavoratori. Il concilio Vaticano II sentì il dovere di «cogliere tutte le
dimensioni del problema [dello sviluppo dei popoli] e l’urgenza di un’azione
solidale» (PP 1), perché ormai la «la questione sociale [aveva] acquistato
dimensione mondiale» (3) e si iscriveva nel quadro dello sviluppo complessivo
dei popoli e attendeva delle risposte nuove e coraggiose. Per certi
irriducibili era un’indebita intromissione della Chiesa nel campo secolare, ma
Paolo VI non esitò a “giocarsi in prima persona” affermando che il magistero
conciliare in questo campo era «grave e esige un’applicazione urgente» da parte
di una Chiesa che non voleva restare estranea alle «gioie e alla speranze, alle
tristezze e ai dolori dell’uomo» (GS 1). L’ostacolo alla crescita e allo
sviluppo dell’uomo e della società era il crescente e drammatico divario che si
affermava allora (e che continua anche oggi) tra “i popoli dell’opulenza” e “i
popoli della fame” (PP 3), creando uno squilibrio che, se non sanato, poteva
portare il mondo alla guerra. «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (PP 87),
è la sintesi etica dell’enciclica e, nello stesso tempo, l’indice della sua
attualità. Paolo VI era convinto che se non si prosciugano le paludi del
sottosviluppo e non si consente ai popoli di raggiungere un minimo di sviluppo
economico, sociale e politico, la loro “rabbia” crescerà producendo conflitti
tra le nazioni e terrorismo internazionale.
Rileggendo a quarant’anni di distanza e con il distacco che permette il
silenzio che l’ha avvolta, PP si rivela un testo profetico e provocatorio.
Disattesa e quasi dimenticata, a causa della congiuntura sociale degli anni
‘70, PP è stata ripresa e aggiornata nel 1987 da Papa Wojtyƒa con Sollicitudo
rei socialis (SRS).
LE NOVITÀ E LE CORAGGIOSE
AFFERMAZIONI DI PAOLO VI
Paolo VI si rivolgeva a tutti gli uomini di buona volontà e non solo ai
cristiani, perché lo sviluppo del mondo interessava tutti coloro che erano
preoccupati delle sorti del mondo. Il papa trattava un tema che a certi
sembrava esulare dalle normali preoccupazioni “religiose” della Chiesa.
L’ambito economico e sociale fino allora era affidato dalla morale tradizionale
alla responsabilità dello stato, ma finiva per rimanere staccato da
considerazioni di tipo etico e morale. Populorum progressio segnava quindi un
passo nuovo nel cammino della dottrina sociale. Era una logica deduzione della
dottrina conciliare della Gaudium et spes e dell’antica dottrina sociale della
Chiesa, ma ne allargava gli orizzonti passando dalla condizione degli operai
presa in considerazione da Rerum novarum allo sviluppo dei popoli dell’intero
pianeta. L’aspirazione allo sviluppo dei popoli era considerato un chiaro
«segno dei tempi».
Per Paolo VI l’impegno dello sviluppo e la sua tematizzazione morale
diventano un tema ineludibile della missione della Chiesa, un campo da
evangelizzare, sul quale deve essere proclamata e applicata la parola di Dio.
Qualche anno dopo, nel sinodo del 1971, i vescovi avrebbero detto che la
predicazione della giustizia era elemento costitutivo della missione della
Chiesa.
Una seconda novità di Populorum progressio era la constatazione della nuova
ampiezza assunta dalla questione sociale. Essa ora non riguardava più soltanto
una categoria, i lavoratori, ma il mondo intero per quella interconnessione tra
popoli sviluppati e quelli in via di sviluppo (PP 19) che ormai stava
diventando esperienza sempre più quotidiana grazie all’evolvere della
comunicazione sociale. Inoltre, i popoli ancora in via di sviluppo – era questo
l’eufemismo di allora! – erano molto più numerosi di quelli sviluppati. Da
questa interconnessione conseguiva l’impegno etico a vivere la solidarietà per
cui «le nazioni sviluppate hanno l’urgentissimo dovere di aiutare le nazioni in
via di sviluppo» (PP 48 che cita GS 86.3).
Ma per Paolo VI non bastava uno sviluppo qualsiasi, limitato alla sfera
dell’economico: doveva essere uno sviluppo autenticamente umano, integrale (PP
14) e solidale. E qui entra la terza novità della enciclica che è nella
connessione che il papa stabilisce tra sviluppo e pace del mondo e che viene
espressa in un principio che entrerà nella storia: «Lo sviluppo è il nuovo nome
della pace» (PP 87). Infatti l’esigenza della giustizia sociale non potrà
essere più soddisfatta che sul piano mondiale, in una solidarietà globale.
Disattenderla può scatenare la violenza dei poveri, quella che è stata chiamata
“la rabbia dei popoli”. Non è possibile pensare allo sviluppo di un popolo se a
questo si continua a negare l’accesso al commercio mondiale, oppure gli si
offre solo armi per la guerra.
La radice di queste novità è una visione dell’uomo e della società che
Paolo VI trae dalla visione antropologica cristiana e dalla filosofia
personalista del suo tempo: l’uomo è un essere che trascende se stesso e le sue
dimensioni, perché segnato dalla somiglianza con il Dio creatore della sua
libertà e dignità, un Dio che è relazione e apertura a tutti.
L’AZIONE
PER LO SVILUPPO
Ma lo sviluppo attende un’azione concertata. L’enciclica parla della
destinazione universale dei beni della creazione (22-23), che Giovanni Paolo II
ha successivamente esplicitato e specificato con il concetto di “ipoteca
sociale” che grava su ogni proprietà che non è più assoluta (SRS 42) e di
un’economia al servizio dell’uomo in contrasto con “l’imperialismo
internazionale del denaro” che schiaccia interi popoli riducendoli in povertà
(25-26); denuncia le speculazioni e le esportazioni di risorse a esclusivo
vantaggio dei proprietari che invece di mettere a disposizione dello sviluppo
il reddito disponibile lo usano secondo il libero capriccio (PP 24); afferma
che la libera iniziativa, elemento tipico del liberalismo economico, non è
sufficiente perché essa perpetua il «rischio di accrescere ulteriormente la
ricchezza dei ricchi e la potenza dei forti, ribadendo la miseria dei poveri e
rendendo più pesante la servitù degli oppressi» (PP 33). Non è forse questo ciò
di cui siamo spettatori nel “nuovo ordine mondiale” della globalizzazione?
Paolo VI invita a promuovere delle riforme coraggiose del sistema e delle
trasformazioni “audaci e innovative” (PP 32-33) per servire l’uomo con
programmi di alfabetizzazione, di sostegno alla famiglia che è uno dei pilastri
dello sviluppo umano, senza credere che l’unica strada sia la riduzione delle
nascite con i Family planning.
Denuncia il rischio del materialismo disumanizzante limitato alla crescita
economica (PP 41). L’obiettivo è il raggiungimento di un “umanesimo plenario”
che include tutte le dimensioni dell’uomo anche quella spirituale e religiosa
perché l’uomo può organizzare la vita senza Dio, ma “senza Dio egli non può
alla fine che organizzarla contro l’uomo”. L’umanesimo che esclude Dio è un
umanesimo inumano, dice il papa citando Henry de Lubac (PP 42).
CHE COSA
RESTA DA FARE ?
Siamo convinti che le proposte di Populorum progressio rimangono ancora
valide, riassunte in tre “doveri”.
Il primo dovere: la solidarietà. Non bastano le campagne per vincere la
fame, l’analfabetismo, l’istruzione ecc. che vengono promosse, ma che spesso si
limitano a tamponare per un momento l’emergenza. Paolo VI ricorda che ci
vogliono programmi a media e lunga scadenza per «costruire un mondo in cui ogni
uomo, senza esclusioni di razza, di religione, di nazionalità possa vivere una
vita pienamente umana… dove il povero Lazzaro possa assidersi alla stessa mensa
del ricco» (47). Ma perché questo avvenga deve crescere la solidarietà che
impedisce di accumulare il superfluo e lo mette invece a disposizione dei
popoli più deboli.
Il secondo dovere riguarda la giustizia sociale perché tutti i popoli
possano partecipare al commercio mondiale. Qui resta ancora molto da fare. Le
riunioni dell’Organizzazione mondiale del commercio insieme con le riunioni del
G8 mostrano quanto è difficile trovare un accordo che permetta ai paesi più
poveri di poter entrare nel commercio mondiale senza essere sfavoriti. È
un’ipocrita presa in giro quando i paesi poveri sono invitati a entrare nel commercio
mondiale con i loro prodotti, soprattutto agricoli, dove però non riescono a
venderli a causa della concorrenza dei paesi ricchi aiutati dai loro governi
con misure protezionistiche o con interventi a sostegno dei produttori che
impongono i loro prodotti a prezzi competitivi. Paolo VI aveva affermato che
«la legge del libero mercato non è più in grado di reggere da sola le relazioni
internazionali» e che «i prezzi che si formano “liberamente” sul mercato
possono condurre a risultati iniqui» (58).
Il terzo dovere richiamato dal papa in Populorum progressio sembra essere
quello più attuale in questa stagione di “globalizzazione dell’esclusione”,
terrorismo internazionale e guerra. Paolo VI dice che «il mondo è malato», non
perché manchino le risorse, ma per «la mancanza di fraternità tra gli uomini e
tra i popoli» (PP 66) e continua offrendo delle indicazioni valide anche oggi:
parla dell’ospitalità reciproca e dell’accoglienza fraterna, del senso sociale
con cui industriali, esperti e volontari dovrebbero mettersi a disposizione dei
paesi più deboli per offrire loro fraternamente e disinteressatamente il loro
contributo (PP 71-72). Lo chiama il dovere della carità universale. In realtà
solo questa riuscirà a creare un mondo nuovo segnato dalla pace e dai “dialoghi
di civiltà” che Paolo VI ha evocato prima che Samuel P. Huntington teorizzasse
“lo scontro delle civiltà”: «Tra le civiltà, come tra le persone, un dialogo
sincero è fattore di fraternità. L’impresa dello sviluppo ravvicinerà i popoli»
(73).
«Lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (PP 76.87) è la conclusione di
Populorum progressio, il tema che la riassume e la consegna al magistero
permanente della Chiesa e alla sapienza universale. Per raggiungere questa pace
Paolo VI invita i popoli a uscire dall’isolamento e a cercare la concertazione
mondiale sotto la responsabilità di un’autorità mondiale che promuova un
“ordine giuridico universalmente riconosciuto” (PP 78). Siamo tutti spettatori
dell’impotenza politica dell’ONU ridotto oggi a un potere oligarchico incapace
di governare il mondo, perché gli interessi particolari di ciascuno dei
“grandi” prevale sul bene dell’umanità intera e perché non si esita a lasciar
andare avanti conflitti interminabili (v. il Medio Oriente) o ad avviarne altri,
come quello dell’Iraq, voluto da un solo stato contro tutti. L’ONU dovrà essere
riorganizzata in modo da diventare il motore dello sviluppo del mondo. Dello
sviluppo però la Chiesa dovrà sentirsi sempre e comunque responsabile, essendo
il “sacramento universale di salvezza” (GS 45), il Corpo di Cristo nella sua
pienezza (PP 79), germe di quel Regno che vedrà alla fine tutta l’umanità
raccolta attorno al Padre comune.
Gabriele Ferrari s.x.