INQUIETANTE
CRISTO L’EMARGINATO?
Cristo è ancora una
presenza inquietante oppure lascia il tempo che trova, cioè quello di sempre? Forse
non è il messaggio, non è la persona che guida la vita, non è il volto che
affascina e muove, non è la domanda che interroga, non la Parola che illumina e
dona speranza.
Si può dire, senza rischiare scomuniche, che spesso anche nella vita
pratica quotidiana dei religiosi – come ormai in quella di moltissima gente –
Cristo è emarginato? Certamente è presente nell’orizzonte mentale, ma – come si
sa – questo si colloca lontano, appunto come orizzonte e piuttosto in modo
labile. Certamente Cristo è evocato di tanto in tanto, in determinati momenti
“chiusi”, quali preghiere, celebrazioni, inizio di riunioni e assemblee. Certo
non lo si nega (ci mancherebbe altro), ma è sempre lui l’ispiratore principe
della vita dei consacrati e del loro agire? Domande che, nel clima di oggi,
suscitano altre domande per un serio esame di coscienza e che non intendono
tranciare giudizi né asserire verità inconfutabili, ma semplici interrogativi
che attendono una risposta, dalla quale dipende sia l’identità della vita
consacrata sia il suo futuro.
PRESENZA
SCOLORITA?
L’agire dei consacrati – in un oggi dai contorni sbiaditi e dalle identità
spente – sembra troppe volte essere determinato e ispirato dalla preoccupazione
di non vedere fallire le opere ereditate: un motivo commerciale, quindi, anche
se non lo si dice e non lo si direbbe mai apertamente. E allora Cristo e la
missione evangelizzatrice corrono il pericolo di essere – in pratica, appunto –
relegati a quell’ “insignificanza” quotidiana che, da bravi religiosi,
rimproveriamo ai laici, alla cultura contemporanea. Essere presenza
significativa nella giornata del religioso vuol dire costituire ciò che dà
senso alla vita quotidiana.
È lui che diventa provocazione per lo stile e il livello dell’esistenza del
consacrato e della comunità? Nell’animo di ciascuno e dell’intera comunità
risuona ancora la forza dirompente del Vangelo, il messaggio che per essere
comunicato deve prima essere vissuto? «Se vuoi fare la rivoluzione, devi vivere
la rivoluzione» ha scritto qualcuno.
Cristo è ancora una presenza inquietante oppure lascia il tempo che trova,
cioè quello di sempre? Non lo si relega certo nel passato, ma lo si pone
accanto, cioè fuori, lo si pone lì vicino, e non dentro. Allora Cristo appare
come devitalizzato: una presenza canonica, non ingombrante (per carità!), ma
“usuale, accanto a tante altre, che spessissimo hanno maggiore ascolto e
visibilità. Il consacrato si riprende molto di quella radicalità di adesione
che aveva dato a Cristo.
E allora il messaggio evangelico rimane, il riferimento a Cristo resta, ma
subiscono una leggera (involontaria?) manipolazione e declassamento: Cristo non
turba più le coscienze ed entra – sbiadito – nella galleria dei messaggi e
personaggi che ogni giorno il consacrato trova e incontra. Uno dei tanti e
nemmeno il più interessante: non è il messaggio, non è la persona che guida la
vita, non è il volto che affascina e muove, non è la domanda che interroga, non
la Parola che illumina e dona speranza.
PRESENZA
NON CERCATA?
Le radici di questa dimenticanza è a volte da ricercarsi in una sotterranea
– ma diffusa – convinzione: non si cerca più Cristo perché, in quanto
consacrati, si crede di possederlo: non ci si considera più inadeguati (come
invece lo si dovrebbe essere sempre) alla missione e di conseguenza non si
approfondisce più la Parola. Cristo non è più un realtà viva da conoscere,
riconoscere, vivere: “lasciarsi plasmare da Cristo” è divenuto uno slogan, ma
senza una ricaduta sulla vita reale? E la radicalità tanto sbandierata è
filtrata: si è attenti alla persona (ma non per rispetto della persona, ma
dell’ autorità); si è misurati con le parole (sfumate, con abilità, là dove
invece occorrerebbe la “parresia” evangelica); si è vigilanti sulla “fisicità”
delle opere (e un po’ meno sulla loro attualità e significatività). In questo
non esaltante contesto è chiaro che la forza trasformante e significante del
Vangelo è svigorita, annacquata. Mancando – come recitava il Congresso
internazionale del 2004 sulla vita consacrata – la “passione per Cristo” viene
meno anche la “passione per l’umanità”.
E allora nessuna meraviglia se non ci si appassiona più a una vita e a un
messaggio unici, che hanno attraversato i secoli, con la capacità (che oggi non
hanno certo perduto) di trasformare la società e il mondo, quando erano accolti
e vissuti da uomini e donne appassionati, che chiamiamo “Santi”. Qui forse (ma
per certo lo danno tante analisi sulla sua situazione oggi) risiede l’origine
della debolezza e dello smarrimento della vita religiosa. Se il cuore non arde
più di tanto, non vengono più generate forze dinamiche; se si cancella (o è
resa sterile) la fonte non germina più la rivoluzione; se i progetti sono
profani (e ci vogliono anche questi) e non evangelici la peculiarità della vita
consacrata chiaramente scompare.
PRESENZA
“SNERVATA”?
Ne risulta una vita religiosa snervata ”, letteralmente: senza una linfa e
sangue nuovo (che soltanto la presenza non marginale di Cristo riscoperto nella
sua forza trasformante può assicurare), il futuro – ma prima ancora la
testimonianza nel presente – è tagliato fuori dalla storia dei consacrati. Soltanto
la parola di Cristo è in grado di scoprire e tracciare “le rotte del futuro”:
con una ricerca certo paziente, ma non rimandata, consapevole delle difficoltà,
ma non distratta, umilmente refrattaria ad azzardi, ma non pigra. Ma vi è – a
volte – l’impressione che molti religiosi si sentano individualmente – a
differenza degli istituti e delle comunità che cercano queste “rotte” – a loro
agio nell’esistente (vita e tipo di missione) e non abbiano neppure la voglia
di cercare, anche perché comporterebbe cambiamenti che – si sa – non sempre
sono indolori, a vario titolo. Invece i famosi e vituperati – qui a torto –
“figli delle tenebre” ci insegnano gli “investimenti di ricerca”, che per noi
religiosi hanno un senso un po’ diverso, ma sono necessari per
l’attualizzazione dell’altrettanto famoso carisma” Occorre (nel clima
“de-passionato” e “de-passionante” di oggi) un supplemento di convinzioni
appassionate e condivise, derivanti dall’immersione nella figura e nella parola
di Cristo, come pure nella migliore storia carismatica della vita consacrata.
È convinzione ormai comune che andiamo verso un futuro non definito e non
definibile nei suoi tratti principali e problematico nei suoi frutti sperati, ma
un futuro non necessariamente apocalittico.
PRESENZA
DINAMICA
La storia della vita consacrata certamente continuerà. Il “come” dipende
dalla grazia dello Spirito e dal discernimento che gli istituti sapranno fare,
appoggiandosi allo Spirito e leggendo il proprio carisma alla luce dei
molteplici e istruttivi segni del tempo. Quello che è certo, al momento, è che
le trasformazioni che chiamano all’esame di coscienza e al cambiamento sono
irreversibili. Inutile, paralizzante, fuorviante aspettarsi e sognare ritorni
al passato, come fanno ancora certi irriducibili e begli spiriti, sia sotto
l’aspetto sociale che religioso e culturale. I mutamenti in atto – ci dicono da
tempo tutti i segni percepibili – sono generali e profondi e toccano tutti gli
aspetti essenziali – appunto sociali, culturali, etici – della vita sia
individuale che collettiva e mettono a nudo la precarietà delle acquisizioni
storiche che, a volte, crediamo granitiche e irremovibili.
In questi clima è comprensibile il senso diffuso di disagio e di
inquietudine nella vita consacrata, per ora incapace di cogliere l’intero
quadro nel quale si muove e nel quale intravedere il cammino e il traguardo. Ma
proprio questo senso di disagio e di precarietà dovrebbe unire i religiosi
nella ricerca delle strade per avviarsi verso il futuro, sulla base di una
ritrovata spiritualità forte e in solida comunione. Si afferma comunemente che
è nei momenti critici e nelle situazioni di emergenza che emergono le doti
migliori delle persone.
Ebbene oggi è il tempo di mostrare la creatività – che ancora c’è, grazie
allo Spirito – della vita consacrata, affinché non si rassegni a una presenza
slavata e arrancante nella Chiesa e nella società di oggi. Ma occorre – si
rilevava qui sopra – una solida comunione (oltre che con Cristo, come più volte
detto) tra i membri delle comunità; invece ancora troppo spesso si trovano
comunità che sono l’assemblaggio di individui che volentieri e tenacemente
perseguono – ognuno – la loro personale gratificazione. In questo modo, procedendo
in modo sparso e confuso (a cominciare dalle basi in cui radicarsi), non si
costruisce niente, o ben poco, e non si trova il dinamismo necessario per
uscire dall’impasse esistenziale, spirituale, evangelizzatrice. Al massimo si
sopravvive, in attesa dell’inevitabile fine. Che non è l’atteggiamento massimo
della vita consacrata.
Ennio Bianchi