VI RAPPORTO
CARITAS
VITE FRAGILI PRESENZA
QUADRUPLICATA
La pubblicazione del VI Rapporto Caritas
Italiana/Fondazione “E. Zancan” Vite fragili su povertà ed esclusione sociale
in Italia costituisce una sfida pedagogica e culturale, rivolta alle istituzioni,
alla comunità cristiana, alla società civile. Proposte tre chiavi di lettura.
La prima parte
del Rapporto si sofferma sulle condizioni di vita dei bambini, icona e metafora
della fragilità.
Innanzitutto, i
minori stranieri, di 191 nazionalità, sono oggi nella maggior parte delle
scuole, costituiscono in media il 5% circa degli studenti (500mila presenze,
stima anno scolastico 2006-2007). Nell’arco di quattro anni la loro presenza è
più che quadruplicata, la metà circa è nata in Italia e la restante parte è
costituita da minori ricongiunti.
Se osserviamo
tuttavia i percorsi scolastici dei minori immigrati, si colgono alcuni punti
critici (ritardo scolastico, divario negli esiti e nella prosecuzione degli
studi), che sembrano andare nel senso contrario rispetto all’integrazione
positiva. Sono in ritardo scolastico il 10% dei bambini che frequentano la
prima elementare; il 47% di coloro che sono inseriti in prima media e il 75%
dei frequentanti il primo anno della scuola secondaria di secondo grado; il tasso
di bocciature degli alunni stranieri, rispetto ai compagni italiani, è più alto
del 3% nella scuola elementare, del 7,5% nella scuola secondaria di primo grado
e del 12,5% nelle superiori; infine, anche se non esistono ricerche sulla
dispersione scolastica, si può dire che il 40% di chi prosegue gli studi si
orienta verso istituti professionali, contro il 19% degli italiani.
In secondo
luogo, dall’analisi degli aspetti della legge della riforma Moratti che
riguardano direttamente o indirettamente gli aspetti dell’integrazione
scolastica degli alunni con disabilità, emergono aspetti problematici:
l’anticipazione della scelta dopo la terza media, la licealizzazione di tutti
gli istituti superiori, il trasferimento alle regioni degli istituti di
istruzione professionale, l’istituzione del tutor, inteso come figura singola,
l’eccessiva complessità degli obiettivi specifici di apprendimento nella scuola
secondaria di primo grado, il carattere selettivo della riforma e gli scarsi
mezzi finanziari per realizzarla. Il Rapporto approfondisce poi i temi della
comunicazione della diagnosi, dell’integrazione scolastica, e del cosiddetto
“progetto globale di vita”, in base a 89 interviste (22 a persone con
disabilità fisiche, 49 a genitori di disabili tra 8-30 anni, 19 a operatori dei
servizi sociosanitari). Per quanto riguarda l’autismo, numerose ricerche
confermano che il percorso diagnostico si realizza con ritardo. L’88% dei
genitori afferma di avere denunciato anomalie di comportamento al pediatra nel
primo anno di vita, mentre la diagnosi è stata ritardata nel 56,2% dei casi
dopo i tre anni di età e nel 17,1% dopo i cinque anni, spesso all’ingresso a
scuola. Nel 72,6% dei casi i genitori si sono rivolti fuori regione per
ottenere la diagnosi: solo il 32,6% ha consultato un solo centro.
Un ulteriore
aspetto affrontato è quello della pluralità dei modelli familiari. Secondo
l’Istat (2005), in Italia, almeno 5.362.000 persone vivono in famiglie che sono
o libere unioni o ricostituite coniugate o con un solo genitore. Dal 1994 al
2003 l’incremento in separazioni e divorzi è stato continuo (da 51.445
separazioni nel 1994 a 81.744 nel 2003, con aumento del 59%). I figli
interessati vivono in un mondo di famiglie che si moltiplicano, con sempre meno
coetanei. Sono anche figli che rischiano di entrare in una fase di povertà, in
particolare quando la famiglia diviene mono-genitoriale (monoreddito o reddito
incerto). La fragilità sociale ed economica femminile poi emerge soprattutto
quando si rompe il matrimonio. Considerando dunque i vari rischi ai quali può
trovarsi esposto il bambino che vede modificarsi la struttura familiare, va
delineata una mappa degli interventi messi in atto e prefigurato il modo nel
quale questi interventi devono essere meglio articolati e sviluppati.
STORIE
DI VITE
DIFFICILI
Nella seconda
parte del Rapporto vengono illustrati dati e storie di persone in difficoltà
(17.203) che nei mesi di aprile-maggio 2005 si sono rivolte ai 241 Centri di
ascolto (147 diocesi) collegati con Caritas diocesane aderenti al Progetto Rete
nazionale. Si tratta in maggioranza di cittadini stranieri (63,6%), più della
metà provenienti dall’Europa orientale (51,9%) e poco meno di un quarto
dall’Africa (23,8%). Quasi il 60% dei cittadini stranieri era in possesso di
permesso di soggiorno o in attesa di riceverlo.
Molte le
differenze tra stranieri e italiani: solo il 40,9% degli stranieri vive con i
propri familiari o con parenti (contro il 60,5% di italiani), quasi un terzo
degli utenti italiani vive comunque da solo; più dei due terzi degli utenti
sono risultati disoccupati, tra gli stranieri tale valore raggiunge il 72,1%, a
fronte del 60,3% per gli italiani; un quinto degli utenti dei Centri è
costituito da persone con gravi difficoltà abitative (senza dimora o in sistemazioni
precarie). I bisogni maggiormente rilevati sono relativi ai problemi economici,
che riguardano i due terzi degli utenti; tra le richieste spiccano quelle
relative a beni e servizi materiali (47,1%) e al lavoro (29,3%). Ma c’è anche
una quota consistente di persone che richiedono esplicitamente sussidi
economici (richiesta molto frequente tra gli utenti italiani, mentre le
richieste di lavoro sono più diffuse tra gli stranieri: 35,0% contro il 19,6%
degli italiani).
L’elemento
essenziale che emerge dai dati raccolti è la persistenza di povertà “classica”,
legata a problemi di lavoro, reddito e abitativi. Senza dimenticare altri tipi
di problemi (familiari, relazionali, sanitari, di istruzione, di dipendenza da
sostanze, di detenzione o post-detenzione, disabilità), comunque presenti. Le
nuove tendenze di “impoverimento del ceto medio” non sembrano costituire il
nucleo centrale degli utenti Caritas. Molto probabilmente, se tali fenomeni non
saranno governati, le “famiglie in affanno” di oggi costituiranno i nuovi
utenti di domani. La raccolta di 120 storie di vita, relative a famiglie in
carico presso i Centri di ascolto (58 famiglie italiane, 59 straniere e 3
famiglie miste) fa emergere infatti una forte situazione di
multi-problematicità delle famiglie italiane, che evidenziano cronicità,
disturbi psichici, precedenti di conflittualità familiare e difficoltà nella
promozione sociale in misura molto maggiore rispetto a quanto accade per gli
stranieri.
OSSERVATORIO
DELLE FRAGILITÀ
Mons. Vittorio
Nozza, direttore Caritas italiana, ha precisato che «il concetto di fragilità è
un concetto contenitore, in grado di descrivere bene la generalità del rischio
di povertà e di marginalità sociale in cui si trova o può venirsi a trovare
ogni persona; la fragilità rappresenta una condizione unificante e
universalistica, che ci ricorda l’insopprimibile vulnerabilità dell’essere
umano, a prescindere dalla condizione sociale di appartenenza.
Allo stesso
tempo, uno dei rischi che è possibile leggere nell’utilizzo incontrollato del
termine “fragilità”, risiede nell’eccessiva dose di generalizzazione di tale
concetto: se siamo tutti fragili, allora nessuno è fragile».
Ricordiamo
allora che proprio la fragilità è stato uno dei cinque ambiti di lavoro del
quarto Convegno ecclesiale di Verona, che ha evidenziato l’ampio spettro delle
fragilità umane più evidenti o emergenti, individuando in esse risorse idonee
per attingere al vero significato e valore della dignità umana. Alla Caritas
italiana è giunto poi, proprio da Verona, un invito a concentrare le energie su
quattro impegni generali: intercettare e comprendere cultura e linguaggi del
nostro tempo per andare dove la dignità è più calpestata e dove il grido è più
soffocato; favorire luoghi di confronto e di elaborazione comune per far
crescere una cultura di carità e giustizia; investire sulle relazioni per
testimoniare la speranza; farsi carico di azioni e risposte a bisogni concreti
per creare una cultura della carità in fedeltà alla propria funzione
pedagogica.
Una logica insomma
da Osservatorio della povertà, che diventa a questo punto necessario anche per
evidenziare la guerra tra poveri, in un contesto caratterizzato da disparità di
trattamento e di risorse pubbliche: un fatto sempre più diffuso che determina,
tra l’altro, il progressivo allontanamento dalle strutture di assistenza di
molti poveri anziani italiani, messi in difficoltà dall’affollamento.
NUOVE
DISUGUAGLIANZE
SOCIALI
Identificando le
tre chiavi di lettura del Rapporto (processo di impoverimento in atto nel paese,
attenzione privilegiata ai minori, dimensione qualitativa della povertà), dal
canto suo mons. Giuseppe Pasini, presidente Fondazione “Zancan”, ha affondato
il coltello nella piaga: oltre 7,5 milioni di cittadini vivono sotto la linea
della povertà, ed esistono oltre 900mila famiglie con un reddito che supera di
pochissimo (da 50 a 100 euro il mese) la stessa linea. «La povertà e
l’impoverimento rivelano un quadro di disuguaglianze sociali che non possono
essere risolte con l’assistenza o la beneficenza. Queste attività tamponano
l’emorragia, ma non curano la malattia sociale. Si rendono pertanto necessarie
nuove politiche sociali e un progetto serio di contrasto alla povertà».
Una ricerca di
Giuseppe Brunetta sulla distribuzione della ricchezza relativa agli anni
1999-2000 denuncia una crescente divaricazione sociale: l’1% delle famiglie (le
più benestanti) possiedono il 17,2% della ricchezza nazionale; il 10% del ceto
sociale alto possiede il 48,5% della ricchezza nazionale (quasi metà del
totale); mentre il 40% delle famiglie a più basso reddito raggiunge solo il 7%
della ricchezza nazionale.
Si tratta allora
di trovare insieme strade idonee non a creare un livellamento innaturale, ma ad
assicurare a tutti il livello dignitoso di vita così previsto dalla
costituzione, senza il quale non si può parlare di uguaglianza. Secondo Pasini
infatti è sempre attuale il richiamo di don Milani “fare parti uguali fra
uguali è giustizia, fare parti uguali tra disuguali è somma ingiustizia”. «La
giustizia e la solidarietà non sono un unguento da spalmare in modo uniforme
sull’organismo sociale, partendo dall’ipotesi che tutte le membra abbiano
uguali opportunità. Se non si concentreranno sui più deboli maggiori risorse
umane ed economiche, si finirà per perpetuare e aggravare le disuguaglianze già
oggi denunciate… Stiamo retrocedendo, senza accorgerci, al livello della
cultura vetero-liberale del 1800, nella quale la povertà istituzionalmente era
considerata un problema di ordine pubblico e perciò affidata al Ministero
dell’Interno. Oggi la struttura istituzionale è cambiata, ma è ancora presente
una cultura che considera i poveri, i nomadi, gli immigrati, i “diversi” come
un ostacolo alla quiete dei benestanti e come un nemico da cui difendersi,
magari alzando muri o scavando fossati».
A ben guardare,
raramente i poveri ascoltati hanno ricondotto la loro situazione a cause e
fenomeni macrosociali e appare molto rara la loro capacità di coalizzarsi nella
promozione sociale. Cogliamo almeno qui un appello affinché la Chiesa non sia
chiusa nel tempio o abbarbicata attorno al campanile: sarebbe un modo per
sottrarsi alle grida di questi fratelli, ma anche alla fedeltà alla Parola e al
Pane del Padre.
Mario Chiaro