CONVEGNO DEL
CENTRO NAZIONALE VOCAZIONI
VOCAZIONI CRISI
VERA O PRESUNTA?
Le novità di una ricerca. Le vocazioni ci
sono. Mancano gli accompagnatori. Quel “sassolino” di Amedeo Cencini! Le troppe latitanze (dell’ambiente, della scuola,
del gruppo, della famiglia e anche della Chiesa). La dimensione vocazionale
della pastorale ordinaria. Più attenzione alle singole persone.
La crisi delle
vocazioni? Non esiste. Semmai esiste la crisi degli accompagnatori dei giovani,
maschi e femmine, che ancora oggi, in numero molto più sorprendente del
previsto, a un certo punto della loro vita, per un periodo più o meno
prolungato, si sono sentiti chiamati al sacerdozio o alla vita consacrata. È
stato ripetuto in tutti i toni nel recente convegno nazionale del Centro
nazionale vocazioni (CNV), svoltosi a Roma dal 3 al 5 gennaio u.s. Se per
alcuni (o tanti!) dei presenti (oltre 600 persone, due terzi delle quali –
fatto insolito – erano sacerdoti e seminaristi), questa affermazione aveva un
sapore di novità, non lo è stata, sicuramente, per l’ultimo e più applaudito
relatore, p. Amedeo Cencini, il quale ha esordito
togliendosi, con non poca soddisfazione, un “sassolino” dalle scarpe. Da anni,
infatti, lui e molti altri con lui, andavano ripetendo che le vocazioni ci sono
anche oggi. Il “buon seminatore” continua anche oggi a gettare in abbondanza il
seme. Mancano, invece, le condizioni favorevoli per farlo crescere. Mancano,
soprattutto, le persone in grado di intercettare, di stimolare, di accompagnare
i tanti giovani che anche oggi sono potenzialmente disponibili a impegnare la
propria esistenza in un percorso di speciale consacrazione.
LA QUALITÀ UMANA
DEL PRESBITERO
Il richiamo,
questa volta, di tanti sacerdoti e seminaristi, e il calo di presenze, invece,
delle religiose, era dato sicuramente dal tema del convegno: Quale presbitero
per una comunità cristiana a servizio di tutte le vocazioni. «Non è un convegno
sul prete o sulla vocazione al ministero ordinato», ha precisato fin
dall’inizio il direttore del CNV, don Luca Bonari. Il soggetto primo delle
riflessioni anche in questo convegno non poteva non essere la comunità
cristiana «autentico e indispensabile grembo materno delle vocazioni al
ministero ordinato e alla vita consacrata». Se però pensiamo al fatto che la
responsabilità pastorale di una comunità cristiana ricade in prima istanza
sulla figura del parroco, è allora comprensibile il disappunto di don Luca quando
ha dovuto rilevare che, nonostante i tanti sacerdoti presenti, anche questa
volta il numero dei parroci era piuttosto scarso.
Su quattro
relazioni di fondo solo una, quella di mons. Luciano Monari,
era interamente incentrata sulla figura e la missione del presbitero. È una
riflessione che va letta con attenzione, non solo dai presbiteri, anche e
soprattutto per la insistita accentuazione della dimensione autenticamente
umana che deve precedere qualsiasi chiamata vocazionale presbiterale. La prima
e fondamentale vocazione comune a tutti, e quindi anche ai presbiteri, ha
esordito, è quella di “essere uomini”. «Sono convinto che la vocazione al
presbiterato, come ogni altra vocazione, ha un futuro se appare come una valida
realizzazione della vocazione umana e se il suo esercizio viene compreso e
vissuto come la migliore opportunità per “umanizzare” la propria vita». La
testimonianza e la forza di attrazione, anche vocazionale, di un presbitero, si
radicano soprattutto nella sua “qualità umana”.
Poste queste premesse,
mons. Monari, si è chiesto, allora, quale dovrebbe
essere la missione specifica del presbitero. Questi esiste, ha risposto, «per
rendere possibile il compimento di tutte le altre vocazioni». Il presbitero
compie “bene” il suo ministero «solo se porta in sé un’autentica “passione” per
le persone, il desiderio che le persone crescano e diventino libere, capaci di
amare, capaci di compiere fino in fondo la loro vocazione in Cristo». Una delle
prime responsabilità di un presbitero, infatti, è quella di «suscitare nei
giovani la consapevolezza della loro vocazione all’amore e cioè della
responsabilità che hanno di crescere in maturità umana». Li deve saper educare
a incontrare correttamente la realtà, ad amarla, ad accettare lealmente le
situazioni e le persone «senza deformare la percezione delle cose secondo le
proprie paure e i propri interessi». Li deve educare a fare delle scelte
responsabili, trasmettendo loro la voglia di vivere. Ma tutto questo sarà
possibile solo quando un presbitero aiuterà i giovani a incontrare, in maniera
irreversibile, priva di ambiguità, il Cristo vivente nel Vangelo, nei
sacramenti, in particolare nell’eucaristia, e poi nei rapporti umani. Questa
radicalità evangelica è purtroppo più difficile, dal momento che troppi giovani
oggi tengono sempre a portata di mano «un’uscita di sicurezza nel caso che
l’avventura finisse male».
Nonostante
tutto, comunque, il numero di potenziali vocazioni al sacerdozio e alla vita
consacrata, maschile e femminile, è decisamente più alto di quanto solitamente
non si pensi. A Cencini quel “sassolino” lo aveva
tolto il primo dei relatori, Franco Garelli, che,
ancora nell’aprile scorso, aveva pubblicato i risultati di una sua ricerca sui
giovani italiani di fronte alla vocazione.1
Confrontando i risultati di quella indagine – condotta su un campione
rappresentativo di giovani italiani, di ambo i sessi, di età compresa tra i 16
e i 29 anni, scelti sulla base di rigorosi criteri scientifici – con quelli
prevalenti nelle ricerche sui giovani, «emergono molto conferme, ma anche non
poche novità».
La prima di
queste è che le nuove generazioni non sembrano “refrattarie” all’idea stessa di
vocazione, anche se non tutti hanno una sua univoca concezione. Se al primo
posto troviamo la vocazione al sacerdozio, subito dopo segue, invece, quella
pur sempre significativa dell’assistente sociale. L’orizzonte di significato
dei giovani «non è chiuso a grandi prospettive di impegno e di realizzazione»,
non necessariamente solo sul piano religioso.
TROPPE
LATITANZE
Se dai giovani
si sposta la visuale sui loro “compagni di viaggio”, sull’eventuale presenza,
cioè, al loro fianco di persone in grado di accompagnarli nel loro processo di
maturazione, non si può non rilevare una seconda novità. La maggior parte dei
giovani «ha difficoltà a individuare nel proprio intorno immediato delle figure
capaci di richiamarli a un’idea alta di vocazione». È sconfortante dover
ammettere che spesso mancano “figure vocazionali significative” nei luoghi
ordinari in cui i giovani scandiscono l’esistenza (a scuola, nel lavoro, nelle
realtà associative). E questo è tanto più grave se letto alla luce del dato
forse più sorprendente della ricerca, quello, cioè, rappresentato dal numero di
giovani che ha dichiarato di aver pensato di abbracciare la vita sacerdotale o
religiosa. A fronte di un milione di giovani (dai 16 ai 29 anni) che hanno
manifestato nella loro vita «una sia pur fugace idea di farsi prete o
religioso/a», il 20% di questi, pari a 200.000, sono stati invece interessati
da questa prospettiva e vi hanno riflettuto per almeno tre anni.
Partendo da
questi dati, Cencini ha avuto buon gioco allora nel
ribadire che «il vero problema non è quello della crisi vocazionale, ma quello
della crisi dell’accompagnamento vocazionale». È la crisi (la latitanza)
dell’ambiente culturale, sempre più incapace di distinguere ciò che è bene e
ciò che è male. Se negli anni del ’68 era “proibito proibire”, adesso è
“proibito distinguere”. È la latitanza della scuola, ricca di molti insegnanti,
ma poverissima di maestri, incapace di offrire ai giovani gli elementi di fondo
per imparare a vivere. È la crisi del gruppo, che sta sempre più scomparendo
come “soggetto educativo” per lasciare il posto al “branco” nella più assoluta
omogeneizzazione anche valoriale dei suoi comportamenti.
Ma la crisi
forse più grave è quella della famiglia all’interno della quale si assiste a
una sempre più diffusa malintesa idea di libertà. La mancanza di coraggio
nell’opporre dei “no” alle richieste dei figli, a volte può assumere delle
dimensioni di vera e propria “violenza e crudeltà psicologica”. C’è però una
crisi anche nella Chiesa sempre più debole nella sua proposta educativa. A una
ipertrofia dei fini a cui dichiara di tendere, fa purtroppo riscontro una
sconcertante povertà di proposte di metodo. I valori sono sicuramente
importanti, ma senza chiari percorsi pedagogici capaci di incarnarli nella vita
delle persone, non si va da nessuna parte.
Non è in crisi
la vocazione, ha continuato a ripetere Cencini, ma la
sua realizzazione. Sempre più spesso non si è in grado di intercettare il
messaggio, il segnale vocazionale che viene lanciato, anche oggi, da tanti
giovani. «I nostri radar non sono in grado di percepire questi messaggi e noi
continuiamo a piangerci addosso per la carenza di vocazioni». Quanti “aborti
vocazionali” a causa di questo vuoto educativo!, ha ripetutamente affermato,
rifacendosi al documento del 1997 su “Nuove vocazioni per una nuova Europa». Se
si vuole raccogliere bisogna seminare nel cuore di chiunque e dovunque senza la
pretesa di frutti immediati. Quante volte la crisi di giovani preti nasce
proprio da questa delusione. Quello che viene seminato oggi, sarà raccolto
domani da altri. Ogni tempo e ogni stato di vita è un tempo “buono” per
seminare. Perché, allora, limitarsi a fare una proposta vocazionale solo
nell’1.5% dei casi?
Per lodevole che
possa essere l’iniziativa di alcune diocesi che hanno aperto delle chiese con
dei sacerdoti sempre disposti ad accogliere, è ancora più importante uscire,
andare a cercare, attendere le persone a quei “pozzi” della vita di oggi dove
sicuramente verranno i giovani e non solo i giovani. Senza andare in discoteca
e senza impiantare discoteche nei locali parrocchiali, bisogna uscire, anche
psicologicamente, dal “tempio” per intercettare tutti quei luoghi, quelle
situazioni, quelle realtà di vita in cui passano i giovani di oggi. «Ogni
domanda di attesa è sempre una domanda vocazionale».
Se è importante
uscire dal tempio, non lo è meno saper trasformare i nostri ambienti in
“pozzi”, capaci di dissetare, di dare una risposta alle attese dei giovani di
oggi. «Tutti i nostri ambienti pastorali dovrebbero diventare dei pozzi». È
preoccupante il fatto che tante persone, oggi, giovani e meno giovani,
frequentino in numero pur sempre rilevante le parrocchie, questi supermarket
dello spirito, o anche l’una o l’altra delle tante opere dei religiosi/e, in
cerca di un qualche servizio religioso, educativo, sanitario, ecc., ma che poi
le stesse persone «vadano a cercare altrove le ragioni per vivere e per
morire».
PROPOSTE
PIÙ CORAGGIOSE
Più ancora che
per Cencini, il documento Nuove vocazioni per una
nuova Europa, del 1997, ha fatto da sfondo alla relazione del vice direttore
del CNV, don Tonino Ladisa. Se già nel 1967 il
cardinal Lercaro poteva parlare di “dimensione
vocazionale della pastorale diocesana”, oggi più che mai non si può non
concordare con Ladisa quando, fin dal titolo del suo
intervento, al di là del gioco di parole, afferma che «la pastorale vocazionale
è la vocazione della pastorale».
Nonostante il
grande impegno profuso in questi ultimi anni, è ancora forte il bisogno di
«portare la pastorale vocazionale nel vivo delle comunità cristiane
parrocchiali, là dove la gente e dove i giovani in particolare sono coinvolti
più o meno significativamente in una esperienza di fede». Si tratta di far
uscire la pastorale vocazionale dalla cerchia degli addetti ai lavori per
raggiungere i solchi periferici della chiesa particolare».
Il superamento
di un certo e ancora diffuso clericalismo, con cui si tende a concentrare nel
ministero ordinato tutte le funzioni ecclesiali, è oggi una «questione di vita
o di morte per le vocazioni». Gli stessi organismi diocesani che si occupano
delle vocazioni sembrano, a volte, preoccupati quasi esclusivamente della
propria sopravvivenza. La pastorale vocazionale deve aiutare la pastorale
ordinaria a ripartire da Cristo. Nella predicazione, nella catechesi, nella
preghiera, nella carità, nella missione, le comunità cristiane devono saper
dimostrare concretamente che sono «segno reale dell’incontro con Cristo».
Oggi, però,
bisogna avere il coraggio di puntare su una pastorale ordinaria e vocazionale
«meno accondiscendente e consolatoria, più coraggiosa e provocante, capace di
suscitare domande piuttosto che offrire risposte gratuite». Non si può
aspettare che «uno impari ad ascoltare la Parola, a pregare, a vivere insieme,
a prendersi cura degli altri, per poi porgergli, solo in seconda battuta, il
volto di una vocazione specifica». La proposta vocazionale specifica, aveva
detto anche Cencini, andrebbe fatta non solo alla
fine ma anche e soprattutto all’inizio di un cammino di fede. Si dovrebbe
onestamente riconoscere, ha continuato Ladisa, che
talvolta «il nostro modo di fare pastorale vocazionale sembra rimanere
impantanato su una proposta generica della vita come vocazione senza che questa
porti a dare il volto vocazionale specifico ad ognuno». Proprio per questo, la
crisi vocazionale dei “chiamati”, rischia, a volte, di diventare soprattutto la
crisi dei “chiamanti”.
In tutte le
forme di accompagnamento spirituale, manca spesso l’attenzione alla singola
persona. Non basta la sempre più diffusa immagine di «comunità troppo bene
organizzate ed estremamente ricche di attività, anche lodevoli». Ci si dimentica
che le vocazioni, spesso, trovano un terreno più fecondo proprio in realtà
ecclesiali povere di strutture e di attività, ma forse, proprio per questo, più
ricche di attenzione alle persone. Un salto di qualità del genere era stato
auspicato anche da Benedetto XVI a Verona, quando parlando della educazione
della persona l’aveva definita una questione oggi «fondamentale e decisiva». Ma
se gli accompagnatori, per primi, non ne sono pienamente consapevoli, sarà
sempre più difficile risolvere anche la “crisi vocazionale”.
1 GARELLI F., (a cura), Chiamati a scegliere. I giovani italiani di fronte alla vocazione, Edizioni San Paolo, Milano, 2006.