GIORNATA MONDIALE DEL MALATO

NON SOLO CURARE MA PRENDERSI CURA

 

Il richiamo del papa a una assistenza integrale della persona in fase terminale cade in un momento che vede l’Italia impegnata in un acceso dibattito sui problemi relativi alla fine della vita. Come situarsi, in quanto credenti, di fronte all’affermarsi di una cultura contraria ai valori cristiani?

 

Nel suo messaggio per la XV Giornata mondiale del malato, l’11 febbraio prossimo, Benedetto XVI presta particolare attenzione ai malati incurabili, soprattutto a quelli che si trovano a vivere l’ultima fase della loro esistenza.

Il pontefice invita alla promozione di «politiche sociali eque che possano contribuire a eliminare le cause di molte malattie» e chiede che venga assicurata una «migliore assistenza per quanti stanno morendo e per quanti non possono contare su alcuna cura medica».

Nelle parole del papa viene sottolineata la necessità di «promuovere politiche in grado di creare condizioni in cui gli esseri umani possano sopportare anche malattie incurabili e affrontare la morte in una maniera degna».

Tra le varie iniziative in grado di rispondere in maniera più adeguata ai bisogni dei morenti, Benedetto XVI dà risalto soprattutto ai Centri per le cure palliative, auspicando che il loro numero cresca affinché venga offerto a un numero crescente di malati «l’aiuto umano e l’accompagnamento spirituale di cui hanno bisogno».

 

IL DIBATTITO

SULLA “FINE DELLA VITA”

 

Il richiamo del papa a una assistenza integrale della persona in fase terminale cade in un momento che vede l’Italia impegnata in un acceso dibattito sui problemi relativi alla fine della vita. Casi recenti in cui alcuni malati cronici hanno chiesto di essere aiutati a morire hanno contribuito a rimettere sul tappeto temi da tempo discussi, quali, per esempio, quelli dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia.

I mezzi di comunicazione di massa rincorrono queste situazioni, sollecitando l’opinione pubblica a schierarsi su queste problematiche, spesso facendo appello più ai sentimenti che alla ragione. In tutti i pronunciamenti si fa leva sia sull’insopportabilità delle prove patite che sulla dignità della persona.

Come situarsi, in quanto cittadini credenti, di fronte a questo fenomeno, segno dell’affermarsi di una cultura contraria ai valori cristiani?

 

Comprendere

 

Mi sembra che il primo atteggiamento da assumere è bene espresso in una frase del filosofo Spinoza: Non piangere non ridere, ma comprendere.

Si tratta di comprendere, in primo luogo, che alla radice della proposta tanto dell’eutanasia che dell’accanimento terapeutico vi è un’affermata tendenza della cultura contemporanea che induce alla rimozione della morte. Tale processo di rimozione è sempre stato presente nell’esperienza degli uomini. Esso, infatti, trova la sua origine nella psicologia della persona umana, come ha fatto notare Freud, già agli inizi del secolo XX, affermando che «in fondo, nessuno crede alla propria morte, o, che è lo stesso, che ciascuno è inconsciamente convinto della propria immortalità».

Se la tendenza a rimuovere la morte è qualcosa di naturale, e quindi registrabile in ogni epoca, essa però assume connotazioni particolari nei diversi periodi storici. Per quanto riguarda il nostro tempo, è sufficiente leggere quanto scrive Giovanni Arpino, nel romanzo Passi d’addio, per avere un’idea dei limiti raggiunti dal processo di rimozione e di occultamento della morte. «È colpa grave del nostro mondo, di questi nostri anni il non voler più parlare della morte. La nascondiamo, la camuffiamo come accidente da eliminare subito. Mentre la morte fu sempre onorata nei tempi davvero umani, forse terribili ma umani. Ora la si rimira come se costituisse un’offesa, un oltraggio. Chi muore è quasi accusato di tradire chi resta (…). Ecco qual è la nostra spaventosa bestemmia, il voler far morire la morte. Abbiamo espulso la morte dalla sfera dei nostri pensieri, e così siamo diventati burattini ridicoli di una vitalità meccanica che esige di ignorare il suo destino finale. Ci ritroviamo infelici, vili, proprio mentre andiamo recitando sicurezza e energia».

In secondo luogo, va posta la domanda: quale immagine di uomo emerge dall’atteggiamento favorevole all’accanimento terapeutico e all’eutanasia?

«Quella del padrone assoluto, risponde il card. Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, quella dell’arbitro insindacabile di sé, delle sue decisioni, delle sue scelte, della realtà della sua vita, e quindi anche di questa particolare realtà che è la morte».

Lo stesso rileva che l’accanimento terapeutico e l’eutanasia «sono modi apparentemente diversi, ma in realtà identici di affrontare, da parte dell’uomo, la realtà della morte». L’ipotesi di Tettamanzi è confermata dal prof. Malherbe, medico e filosofo dell’università di Lovanio. Secondo questo studioso, tra accanimento terapeutico ed eutanasia vi è una continuità logica, perché in essi è sempre l’uomo che non si lascia misurare in maniera umana dalla morte: con l’accanimento terapeutico l’uomo fa di tutto per posticipare la morte, per ritardarla, e con l’eutanasia l’uomo fa di tutto per anticipare la morte e quindi in ambedue i casi l’uomo vuole esercitare il suo comando, il suo dominio sulla morte.

Questa visione della realtà trova un appoggio in un certo tipo di progresso scientifico-tecnico, che conferma quanto è scritto nella Gaudium et spes: «Vi è il pericolo che l’uomo, fidandosi troppo delle odierne scoperte, pensi di bastare a se stesso e più non cerchi cose più alte» (57).

Quanto è scritto nella costituzione conciliare citata fa un riferimento implicito al fatto che il problema della salute, della vita e della morte sono state tolte dalla sfera metafisica, morale e religiosa e trasferite nella sfera pratica, per cui le domande sulla fine della vita passano dal terreno del senso e del valore a quello dello sviluppo di mezzi sempre più potenti. Nell’affrontare la morte e nell’assistere il morente non viene più ascoltata la parola che la morte dice sulla condizione umana e che si esprime nel grido di chi, avvicinandosi al termine della vita, lancia a chi gli è vicino.

La parola che dice il morente rivela lo scarto tra quello che egli è e quello che vorrebbe essere appare chiaro, perché la sofferenza è sempre una ferita al narcisismo umano. Attraverso di essa, il reale fa irruzione nell’immaginario. E questo reale della morte che è reso presente nella sofferenza scuote e spacca la coerenza dei nostri “io” immaginari, ci fa provare la realtà del soggetto che vive in noi, quest’altro più intimo a noi di noi stessi e che non può mai essere concepito adeguatamente all’immagine che l’uomo ha di se stesso.

Sempre nell’ambito della comprensione, va considerato che il rifiuto della morte si ripercuote sull’atteggiamento sia verso il processo del morire che verso il morente. La gente viene assai meno esposta a quello spettacolo del morire che, nel passato, faceva parte dell’esperienza comune. La maggior parte delle persone muore ancora nelle istituzioni sanitarie che ne regolano le sequenze con minuziose prescrizioni intese a isolare sia l’avvenimento del moribondo che il cadavere del defunto.

Il periodo che precede la morte è, quindi, desocializzato, perché la società, malata della rimozione della morte, si trova impotente nel farsi carico degli ultimi istanti di vita di colui che muore. Il morente è spesso abbandonato a una pesante solitudine. Una solitudine più psicologica e spirituale che fisica, perché causata dalla mancata comunicazione della verità – la cosiddetta congiura del silenzio – dalla tendenza a dare risposte prevalentemente tecniche alla sofferenza, ciò che impedisce di coglierne il senso.

 

Rispondere

 

Se il paziente ha bisogno che il suo appello – che parla della finitudine e della condizione mortale dell’individuo – sia ascoltato e che le emozioni che l’accompagnano, l’inquietudine, la paura, la speranza, siano accolte, quale atteggiamento proporre, alternativo all’accanimento terapeutico e all’eutanasia?

In ambito umanistico e cristiano tale modo alternativo di porsi di fronte al morente prende il nome di accompagnamento, e ha come scopo di aiutare l’individuo a vivere fino alla fine.

Nella prospettiva antropologica dell’accompagnamento il malato morente, da una parte rivela la precarietà della condizione umana che non va rifiutata come nel caso dell’accanimento terapeutico; come ricorda il papa nel suo messaggio «la vita umana ha i suoi limiti intrinseci, e, prima o poi, termina con la morte». Dall’altra egli non è visto come un semplice residuo biologico, per cui non c’è più niente da fare, un essere da narcotizzare e sopprimere attraverso l’intervento eutanasico; al contrario egli resta una persona «in cui eccellono i valori dell’intelligenza, della volontà, della coscienza, della fraternità» (Gaudium et spes, n. 61), e in quanto tale capace fino all’ultimo, se inserito in una relazione, di fare della propria vita un’esperienza di crescita e di compimento.

 

Prendersi cura

 

Tale esperienza di crescita domanda che accanto al curare emerga anche il prendersi cura, in una sintesi creativa.

L’espressione prendersi cura esprime il coinvolgimento personale dell’operatore sanitario con la persona che soffre, coinvolgimento che si manifesta attraverso la compassione, la premura, l’incoraggiamento e il sostegno emotivo. Nel concetto del prendersi cura sono quindi compresi sia la competenza professionale e la preparazione scientifica sia il coinvolgimento personale che porta a centrarsi nella persona del malato, le cui esperienze anche se non possono essere da noi penetrate pienamente, possono però toccarci profondamente, in quanto anche noi condividiamo la stessa umanità. Aver cura del paziente sarà allora un atto sintetico, in cui l’intelligenza non meno del cuore, ha la sua parte e il suo posto.

In un libro significativo, scritto agli inizi degli anni 80, In a different voice, l’americana Carol Gilligan esprime in una maniera molto significativa l’esigenza di tale sintesi. La voce diversa di cui parla l’autrice è costituita, nel mondo della salute, dall’accostarsi alle persone con un atteggiamento di partecipazione piuttosto che di distacco, di sintonia e di compassione piuttosto che di razionalità astratta. Una voce che ribadisce la primarietà della persona, la sua singolarità, in quanto chiede di essere presa in considerazione per se stessa. Una voce parlata, lungo i secoli, prevalentemente dalle donne, ma che non è solo delle donne, anche se la nostra tradizione l’ha relegata ad esse.

Nel passare dal curare al prendersi cura si supera il comportamento professionale basato solo sui diritti del malato e sui doveri di chi li assiste. Si giunge, cioè, a fare esperienza di ciò che vuol dire mettersi all’ascolto dell’appello che viene dalla condizione particolare vissuta dalla persona prossima alla morte. Rispondendo a tale appello si fa, quindi, qualcosa di più del semplice “proprio dovere”. Nella concretezza di un preciso rapporto umano si mettono in pratica non solo le regole che strutturano la professione sanitaria, ma più profondamente si dà forma alla propria identità morale di persone. L’esperienza del professionista sanitario rende così possibile l’epifania dell’alterità, di cui parla Levinas che fa consistere l’essenza dell’esperienza morale come esperienza dell’incontro con l’altro, con il volto dell’altro.

L’accompagnamento del malato morente nei termini appena delineati occupa un posto essenziale nelle cure palliative, cui fa accenno il messaggio del papa. Come si legge nell’Oxford Textbook of Palliative Medicine, «le cure palliative affermano la vita e considerano il morire come un processo naturale, non affrettano e non ritardano la morte, offrono sollievo al dolore e agli altri sintomi sgradevoli, tengono conto degli aspetti psicologici e spirituali delle cure, offrono condizioni concrete che aiutano sia il paziente a vivere quanto più attivamente possibile fino alla morte, sia la famiglia a far fronte alla sofferenza del paziente e poi al lutto».

La radice etimologica del termine palliativo si trova nel sostantivo latino pallium, che significa mantello. Ne deriva il concetto di stendere il mantello sopra un corpo, che dà concretamente l’idea di un intervento protettivo e curativo capace di recare beneficio cioè calore, ma allo stesso tempo, sotto l’aspetto spirituale, di dare conforto e protezione a chi si trova in una condizione di sofferenza.

 

DIALOGO

E CONFRONTO

 

Nel momento attuale la posizione del credente si scontra in maniera forte con quella sostenuta da una frangia significativa della popolazione italiana, condizionata da gruppi di pressione di innegabile efficacia. La posizione da assumere in questa situazione si configura attraverso il dialogo e il confronto. Il dialogo è necessario per comprendere veramente ciò che vivono e intendono veicolare coloro che promuovono l’accanimento terapeutico o l’eutanasia, ad esempio la sofferenza vissuta da chi deve affrontare la morte senza il sostegno di una fede e l’apertura di speranza che non delude.

Il confronto è finalizzato a illuminare con la luce della fede la ragione in modo che possa interpretare in maniera più giusta i grandi temi della dignità della vita nella sua fase finale e il giusto senso dell’autonomia personale.

Per ciò che concerne il principio dell’autonomia, ad esempio, è importante che la domanda del paziente venga esaminata con maggiore attenzione e onestà: è veramente libera tale domanda? è ascoltata attentamente? è decodificata correttamente? qual è il suo significato preciso?

L’ascolto attento e la decodificazione corretta sono necessari soprattutto quando si tenga conto dello stato di vulnerabilità fisica, psicologica e spirituale in cui il paziente in fase terminale si trova.

Chi è il soggetto che richiede di essere aiutato a morire? È il paziente o l’ambiente che lo circonda? Qual è l’oggetto della richiesta: è il diritto ad agire autonomamente della propria morte o piuttosto il diritto a essere assistiti e accuditi fino alla fine senza sentirsi di peso e senza vergognarsene?

Il dialogo e il confronto acquistano una particolare forza quando sono avvalorati da gesti che trasmettono visibilmente, come afferma il papa al termine del suo messaggio, il desiderio della Chiesa di assistere i morenti e «di stare al loro fianco (…) rendendo presente l’amorevole misericordia di Cristo».

 

Angelo Brusco