SETTIMANA DI
PREGHIERA PER L’UNITÀ
ROMPERE INSIEME IL
SILENZIO
La Settimana di preghiera di quest’anno
riunisce due temi, con altrettanti inviti alle Chiese e al popolo cristiano:
pregare e impegnarsi insieme per l’unità dei cristiani, e, nel contempo, unirsi
per dare risposta alla sofferenza umana.
“Non possiamo
non dirci ecumenici”: allo stesso modo di Benedetto Croce, che riconosceva un
legame necessario fra il nostro paese e l’impronta cristiana firmando il suo
famoso “Non possiamo non dirci cristiani”. Per noi, cattolici che viviamo
l’esperienza dell’essere Chiesa a quarant’anni dal concilio Vaticano II, nuova
pentecoste dello Spirito, il dialogo ecumenico non dovrebbe essere un’opzione
fra le tante, da perseguire o meno a seconda delle stagioni: bensì l’unica
modalità, la forma comune dell’essere cristiani oggi. Fu Gesù stesso, infatti,
a operare e pregare per la comunione piena tra quelli che credono in lui e lo
confessano come narrazione definitiva all’umanità di quel Dio che nessuno ha
mai visto. La ricerca dell’unità, va sottolineato, per i cristiani non dovrebbe
poi neppure essere una pura questione strategica, adottata per il conseguimento
della forza ritenuta necessaria contro gli altri, i non cristiani o i
cosiddetti non credenti. Il bisogno vitale di essere uniti è piuttosto
originato dalla sequela autentica del Signore: il che comporta la
sperimentazione quotidiana del comandamento dell’amore reciproco, il servizio
all’altro, soprattutto se povero e debole, la pratica oggigiorno così difficile
del perdono e del cammino di riconciliazione. Certo, non si tratta di un
cammino agevole: tutt’altro! «Riconoscere e rispettare l’alterità, la diversità
– ha ragione il priore di Bose, Enzo Bianchi – è operazione difficile. Ed è
altrettanto difficile comunicare con l’altro accettando di essere particolari e
universali insieme, sincronicamente. Questo risulta evidente oggi per i
cristiani che, avendo preso coscienza di essere una minoranza all’interno di
un’umanità che segue (o non segue) altre religioni, si trovano assaliti dalla
paura di non poter sentirsi e farsi leggere come la religione per eccellenza,
l’unica che possiede la verità».
Ma c’è di più.
C’è il fatto che, storicamente e per lunghi secoli, ci siamo divisi fra noi
cristiani, contrapposti e combattuti frontalmente, accusandoci a vicenda di
essere eretici o scismatici; mentre gli iniziali, timidi vagiti di un cammino
ecumenico risalgono appena agli inizi del secolo appena concluso...
In realtà, una
prima prospettiva di una preghiera per l’unità delle chiese cristiane –
antenata della Settimana di preghiera che anche quest’anno si tiene dal 18 al
25 gennaio – nasce in ambito protestante alla fine del XVIII secolo; e nella
seconda metà dell’ottocento prende a diffondersi un’Unione di preghiera per l’unità
che viene sostenuta sia dalla prima Assemblea dei vescovi anglicani a Lambeth
sia dal papa Leone XIII. Agli inizi del novecento, poi, il reverendo Paul
Wattson propone la celebrazione di un Ottavario per l’unità della Chiesa,
appunto dal 18 al 25 gennaio, con un significato profondamente simbolico:
apertura con la memoria della cattedra di Pietro e chiusura con la memoria
della conversione di Paolo. Il movimento di Fede e costituzione, divenuto in
seguito una commissione del Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC), avvia la
pubblicazione di alcuni suggerimenti per l’Ottavario, cui ben presto cominciano
a collaborare anche i cattolici francesi. Il Vaticano II, infine, definisce
chiaramente la preghiera come anima del movimento ecumenico: e attualmente la
Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani viene celebrata in tutto il
mondo nel tempo ricordato a partire da un passo biblico e da un sussidio
elaborato congiuntamente dalla commissione Fede e costituzione del CEC
(protestanti e ortodossi) e dal Pontificio consiglio per la promozione
dell’unità dei cristiani (cattolici).
IL TEMA
DI QUEST’ANNO
La Settimana di
preghiera per l’unità dei cristiani di quest’anno riunisce due temi, con
altrettanti inviti alle Chiese e al popolo cristiano: pregare e impegnarsi
insieme per l’unità dei cristiani, e, nel contempo, unirsi per dare risposta
alla sofferenza umana. Si tratta di due responsabilità profondamente
inter-connesse: entrambe si riferiscono alla guarigione del corpo da parte di
Cristo, ed è per questo che il testo scelto narra di una guarigione. “Fa
sentire i sordi e fa parlare i muti” (Mc 7,37) è infatti lo slogan adottato per
la ricorrenza del 2007, su suggerimento delle comunità cristiane della regione
di Umlazi, presso Durban, in Sud Africa (ogni anno, significativamente, la
bozza originaria per la Settimana viene preparata da un gruppo locale, quindi
rielaborata per l’uso internazionale e distribuita in tutto il mondo per poter
essere adattata in funzione dei diversi ambiti geografici). Il materiale
riflette un’esperienza cruciale per un popolo che ha dovuto sopportare
un’enorme sofferenza. Umlazi è stata fondata, originariamente, sotto il regime
di apartheid come sobborgo per la gente di colore (township). Il retaggio di
razzismo, disoccupazione e povertà continua a provocare situazioni terribili
alla popolazione, che ancora soffre della scarsità di scuole, ospedali, case
adeguate: un contesto che favorisce un alto tasso di criminalità e problemi di
abuso all’interno di famiglie e comunità. Ma la sfida maggiore che la
popolazione della township e degli insediamenti precari deve affrontare è
quella dell’AIDS (il 50% della gente di Umlazi ne è infetta).
In un recente
incontro, i capi della varie comunità cristiane del luogo si sono chiesti che
cosa potessero fare insieme per combatterla, accorgendosi che un motivo di
aggravio della situazione è il marchio che impedisce alle persone che hanno
sofferto abusi, alle vittime di violenze o a malati affetti da AIDS, di parlare
dei loro problemi. Vi è una mentalità culturale che suggerisce di non parlare
di temi legati alla sessualità. Come risultato, molti esitano a chiedere
assistenza, che pure sarebbe disponibile, spesso proprio a livello ecumenico,
attraverso le chiese locali. A causa di tale situazione, i capi delle chiese
locali di Umlazi hanno organizzato una celebrazione ecumenica centrata sul tema
rompere il silenzio. La celebrazione invitava i giovani di Umlazi a trovare il
coraggio di dire l’indicibile, e a chiedere assistenza, consapevoli che mantenere
il silenzio può significare la morte. Nell’incontro fra il rappresentante del
gruppo di Umlazi e la Commissione preparatoria internazionale, essi hanno
riflettuto sulla ricerca della piena unità visibile fra le chiese cristiane
alla luce dell’esperienza dei cristiani di Umlazi e del loro invito a rompere
il silenzio che opprime e isola le persone nel loro dolore. Insieme hanno
selezionato il brano di Marco, e hanno ideato un quadro biblico-teologico sul
tema dell’ascoltare, del parlare e del silenzio, all’interno del quale la
ricerca dell’unità e la ricerca di una reazione cristiana alla sofferenza umana
trovino spazio. Infine, si è preso la decisione di mantenere questo duplice
fuoco tanto nella celebrazione liturgica quanto nei commenti per ciascuno degli
otto giorni.
LA GUARIGIONE
DEL SORDOMUTO
Il contesto
immediato del versetto marciano (7,31-37) riguarda la narrazione di Gesù che
guarisce un uomo sordomuto: simbolicamente, il gesto si inserisce nella
prospettiva missionaria dell’evangelista, e rappresenta una prefigurazione
dell’offerta di salvezza al mondo dei popoli. L’apertura ecumenica è suggerita
dalla sua ambientazione geografica: per descrivere il percorso di Gesù, Marco
menziona le regioni di Tiro, Sidone e della Decapoli (confederazione di dieci
città, abitate in prevalenza da non ebrei o greci). Qui non è fondamentale la
coerenza geografica della cosa, quanto il suo significato: Gesù si muove in
territori esterni alla terra d’Israele. Dapprima conduce il sordomuto lontano
dalla folla, per parlare con lui da solo, poi gli mette le dita sulle orecchie,
sputa e tocca la lingua dell’uomo dicendogli: “Effatà!”, cioè “Apriti!” (invito
che, felicemente, viene ripreso nel rito del battesimo cristiano). Come in
molti altri brani evangelici, anche in questa storia di guarigione vediamo la
risposta compassionevole di Dio di fronte alla sofferenza umana: è una prova
eloquente della sua misericordia. Nel restituirgli l’udito e la capacità di
parlare, Gesù manifesta la potenza divina e il suo desiderio di portare
l’umanità alla pienezza, realizzando la promessa di Isaia: “Allora i ciechi
riacquisteranno la vista e i sordi udranno di nuovo. Allora lo zoppo salterà
come un cervo, e il muto griderà di gioia” (Is 35,5-6). Il dono dell’udito
rende l’uomo capace di ascoltare la buona novella proclamata da Gesù; il dono
della parola gli permette di proclamare agli altri ciò che ha visto e udito.
Queste dimensioni si ritrovano nella reazione di quelli che sono stati
testimoni della guarigione: «Tutti erano molto meravigliati e dicevano: “È
straordinario! Fa sentire i sordi e fa parlare i muti!”».
Il tema della
Settimana 2007 – come scrivono a sei mani nella presentazione dell’iniziativa
mons. Vincenzo Paglia, presidente della Commissione CEI per l’ecumenismo e il
dialogo, il prof. Gianni Long, presidente uscente della Federazione delle
Chiese Evangeliche in Italia, e l’arciprete Traian Valdman, delegato per
l’ecumenismo del Vicariato ortodosso romeno d’Italia – ci porta così nel cuore
del messaggio del Vangelo. L’amore supera ogni distanza, abbatte ogni barriera;
coloro che amano, infatti, sanno spendere la propria vita per gli altri.
Essi sanno
svuotarsi dell’amore per se stessi per amare e servire gli altri, a partire dai
più deboli. È possibile, peraltro, far derivare dal testo biblico un ulteriore
significato: il fatto che spesso davanti al peccato e al male noi siamo sordi e
muti. Non vogliamo ascoltare il grido dei poveri, e non intendiamo dare
testimonianza alla condizione inumana che richiede di chiamare per nome il
demone per cacciarlo. In Italia, sempre più spesso, entriamo quotidianamente in
contatto con quanti hanno lasciato terra e casa, per la guerra o per la fame,
in vista di un luogo migliore. Sovente però, purtroppo, ci tappiamo le orecchie
alla loro condizione e richiesta di aiuto. Certo, sappiamo che c’è sempre un
rischio quando si apre la porta di casa a qualcuno che è sconosciuto: ma Gesù
ha costantemente corso tale rischio, pur di incontrare una creatura di Dio. Il
nostro più grande nemico è la paura, che ci fa chiudere la porta del nostro
cuore e la mantiene serrata.
Il testo scelto
ci aiuta dunque a riflettere sul significato dell’unità come comunione con
tutti e particolarmente con i poveri. Non in via teorica, ma concreta e
fattiva. Comprendere la natura trinitaria del Dio che crea, salva, guarisce,
ascolta la supplica dei poveri, rompe il tabù del silenzio, rende noi cristiani
in grado di prendere sulle nostre spalle la responsabilità di tutta la
creazione, di tutta la famiglia umana. Creati a sua immagine e somiglianza,
anche noi dobbiamo essere in comunione gli uni con gli altri, per poter entrare
in comunione con Dio. Questa era l’armonia che regnava alle origini, prima che
il peccato entrasse nel mondo.
L’UNITÀ
DI CUI PARLIAMO
Infine. Quale unità
è quella di cui parliamo, o che speriamo, quando parliamo di ecumenismo? È
un’unità, quella voluta dall’ecumenismo, che innanzitutto non è contro
qualcuno, che non deve significare uniformità, bensì un’unità plurale in cui le
chiese, da vere sorelle, si riconoscono e si pongono al servizio l’una
dell’altra. È vero, del resto, che non di rado oggi l’ecumenismo, dopo gli anni
rigogliosi attorno al concilio, ci appare in crisi, talvolta in panne,
tal’altra ridotto a un dialogo di forme e non di sostanza (c’è chi parla, con
preoccupazione, del dialogo dei salamelecchi…). Ma è altrettanto innegabile che
in molti ambiti – da quelli scientifici di chi studia la Bibbia sempre più
assieme a quelli che erano i fratelli separati, a chi sperimenta l’accoglienza allo
straniero o il dialogo interreligioso senza chiedere carte d’identità di quanti
operano al suo fianco – l’ecumenismo è sempre più sentito come la normalità
dell’essere cristiano: soprattutto in un pianeta ormai definitivamente
globalizzato, in un’Europa smarrita, caratterizzata da appartenenze liquide
(Z.Bauman) e preoccupata di distruggere il passato più che di elaborare
saldamente un futuro, oltre che da smanie identitarie che favoriscono
l’insorgere della violenza più che di indispensabili segni di pace. In fondo,
l’ecumenismo è un frutto, privilegiato, del nostro appartenere o meno al
vangelo!
Lo ricordava in
continuazione Matta el Meskin, il grande monaco copto scomparso lo scorso anno,
sostenendo che più i cristiani sono fedeli al Vangelo, più facilmente si
incontrano e trovano unità e comunione: la trovano, appunto, nel loro Signore,
guidati dallo Spirito nella pratica quotidiana del Vangelo.
Brunetto Salvarani