“SIGNORE DOVE ABITI?”
È la domanda che,
oggi, noi consacrati poniamo a Gesù, poiché abbiamo smarrito la sua abitazione.
Infatti, anche nella vita consacrata – come nella comunità ecclesiale – si sta
vivendo una stagione di smarrimento dell’abitazione di Gesù.
«Signore, dove abiti?» è la domanda posta dai discepoli di Giovanni Battista
a Gesù., dopo che Giovanni, “fissando lo sguardo su Gesù che passava”, lo
addita loro come “l’agnello di Dio”, cioè come il Messia atteso (Gv 1, 36-38).
I due discepoli, “sentendolo parlare così, seguirono Gesù”.
«Signore, dove abiti?», è la domanda che, oggi, noi consacrati poniamo a
Gesù, poiché abbiamo smarrito la sua abitazione. Infatti, anche nella vita
consacrata – come nella comunità ecclesiale – si sta vivendo una stagione di
smarrimento dell’abitazione di Gesù. Ne è una conferma l’istruzione del 19
maggio 2002 della CIVCSVA, intitolata: Ripartire da Cristo-Un rinnovato impegno
della vita consacrata nel terzo millennio (RdC). Perché viene proposto di
“ripartire da Cristo Gesù” proprio ai discepoli a lui consacrati, a coloro il
cui progetto di vita è, di natura sua, incentrato tutto su Gesù? La risposta a
questo interrogativo è una sola: perché è stata smarrita la sua vera abitazione
nella quale va ricollocato il proprio vissuto. Di conseguenza, occorre
ritrovarla per “dimorare” con lui in un clima di profonda comunione d’amore con
lui (VC 95).
In risposta a questa urgenza, la mia riflessione si snoda su due percorsi
strettamente connessi: lo smarrimento dell’abitazione di Gesù; le abitazioni di
Gesù segnalateci nel suo Vangelo.
LO SMARRIMENTO
DELL’ABITAZIONE DI GESÙ
I segni di questo smarrimento dell’abitazione di Gesù stanno davanti ai
nostri occhi. Ne indico alcuni, quelli che mi sembrano maggiormente evidenti.
1.Un vissuto quotidiano nel quale si rileva un progressivo annebbiamento di
ciò che è primordiale nella vita consacrata: tendere alla “piena configurazione
reale della propria vita terrena a quella di Cristo (VC 15), fino a poter dire
con l’apostolo Paolo: Per me il vivere è Cristo Gesù (Fil 1, 21). Di
conseguenza, si vive la propria consacrazione in modo ripetitivo e
superficiale, al di dentro di una esperienza di Dio poco coinvolgente, segnata
da vari compromessi, che rende il consacrato/la consacrata un «professionista»
di Dio, ma non un «affascinato e posseduto» da Dio. In proposito, p. Agostino
Gardin, un relatore nel convegno A 40 anni dal concilio ecumenico Vaticano II.
La vita consacrata nella chiesa locale. Tra memoria e futuro, celebrato a
Monselice il 22 ottobre 2005, ha sottolineato: «Io credo che abbiamo bisogno di
rimettere al primo posto delle nostre preoccupazioni di consacrati/e l’ansia di
essere veri cristiani»; pertanto, «dentro la grande comunità cristiana che è la
chiesa locale, le nostre piccole comunità religiose devono preoccuparsi di
essere vere comunità cristiane», collocando «Dio al centro della vita»... E ha
concluso: «A me pare che questo sia il contributo fondamentale che – prima
della ricchezza di ogni carisma specifico – possiamo dare alla chiesa locale,
prima ancora di ogni opera o attività, per quanto apprezzabile».
2. Una spiritualità piuttosto denutrita della parola di Dio, che «è la
prima sorgente di ogni spiritualità cristiana» (VC 81); prevalentemente
devozionista, che si consuma nel compiere le cosiddette pratiche di pietà, rese
troppo spesso un prodotto di consumo, perciò senza una loro ricaduta fecondante
nella vita; fortemente individualista, che si concretizza nell’attende tibi,
perciò carente di profonda comunicazione reciproca; tendenzialmente
egocentrica, resa visibile in una esasperata soggettività, che porta a dare il
primato a se stessi, alla propria sensibilità, alle proprie gratificazioni
umane, alla realizzazione dei propri piccoli progetti,1 che costituiscono i
«vitelli d’oro» ai quali si brucia l’incenso del proprio vissuto.
3. Una diffusa inamovibilità di mentalità e di prassi2 (= “si è sempre
pensato così”, “si è sempre fatto così”…), la quale: impedisce di andare «oltre
il presente», perché impastata di conservatorismo, che rende il proprio creduto
e il proprio vissuto un “archivio storico” piuttosto che “luogo dello Spirito”
innovatore3 (=pentecoste), implicante una continua conversione;4 accantona il
Dio che si è rivelato a noi come colui che “fa nuove sempre tutte le cose” (Ap
21,5), perciò ci sollecita continuamente a stare in cammino, tenendo il cuore
aperto ad accogliere la incessante seminagione delle sue novità.
4. L’invadenza della cultura secolarista, la quale – ha detto Benedetto XVI
– «è penetrata nella mente e nel cuore di non pochi consacrati», portando
«l’insidia della mediocrità, dell’imborghesimento e della mentalità
consumistica», relegando ai margini le esigenze della radicalità del Vangelo.5
5. L’attenzione primaria data ai servizi rispetto alla testimonianza di una
vita cristiforme. In proposito, annota A.Cencini, una delle ragioni principali
delle attuali difficoltà nella vita consacrata sta nel fatto che essa si è
trovata «più impegnata a fornire servizi che a tradurre in termini a tutti
accessibili le proprie ricchezze spirituali»... con la conseguenza paradossale
che «vicini e lontani prendono da noi, più o meno grati, servizi e prestazioni
varie, ma le ragioni per vivere le cercano altrove».6
6. L’annebbiamento della spiritualità di comunione fraterna, che ha
prodotto, tra l’altro, la carenza della gioia del vivere insieme, che è frutto
dello Spirito.
LE CAUSE
DELLO SMARRIMENTO
Fondamentalmente una sola: l’accantonamento progressivo dell’identità del
discepolo consacrato, così puntualizzabile: «un discepolo di Cristo, che, in
coscienza e in libertà, ha accolto da Dio, sotto l’azione del suo Spirito, il
progetto di vita di Gesù di Nazareth come il suo “progetto d’esistenza”,
assunto e realizzato, per i religiosi, comunitariamente» (RdC 22). Lo conferma
l’istruzione Ripartire da Cristo (12): «Davanti alla progressiva crisi
religiosa che investe tanta parte della società, le persone consacrate, oggi in
modo particolare, sono obbligate… a porsi non pochi interrogativi sul senso
della propria identità e del loro futuro». L’accantonamento esperienziale di
questa identità ha prodotto nel vissuto quotidiano l’assenza di un rapporto
intimo-profondo, appassionato, gioioso con Cristo Gesù, il Gesù del Vangelo,
dimenticando quanto notificato da lui stesso: “chi ama la propria vita la
perderà e chi perde la propria vita per me e per il Vangelo, la troverà” (Mt
10, 39). In proposito, afferma Giovanni Paolo II nell’esortazione post-sinodale
Vita consecrata (63): la «vera sconfitta» della vita consacrata sta «nel venir
meno dell’adesione spirituale al Signore e alla propria vocazione e missione»…
Ed è proprio questa sconfitta che si sta amaramente e progressivamente
assaporando oggi nel vissuto di tanti consacrati/e.
Dentro a questo “smarrimento” dell’abitazione di Gesù, emerge in profondità
l’anelito a ritrovarla per “stare” con lui in una profonda e coinvolgente
comunione d’amore (VC 95), mettendolo al centro e al vertice della propria
vita, perciò condividendone il suo modo di pensare e di agire. Questo anelito
sale dai disagi interiori e relazionali derivanti dallo smarrimento di Gesù: il
sentirsi insoddisfatti, frustrati, scoraggiati, angosciati, anche falliti.
Però, tali disagi, letti in un’ottica di fede: sono il “nostro Giovanni
Battista”, che ci orienta decisamente a seguire Gesù; si configurano come una
forte provocazione di Dio, che ci sollecita a porre a Gesù la stessa domanda
dei discepoli di Giovanni Battista: “Maestro, dove abiti”? Come a loro, così a
noi Gesù ci recapita la stessa risposta: «Venite» dentro il mio Vangelo e lì
«vedrete» dove abito.
LE ABITAZIONI
EVANGELICHE DI GESÙ
Accogliendo l’invito di Gesù, entriamo nel suo Vangelo. Qui Gesù ci offre
un variegato indirizzario delle sue abitazioni, inscindibilmente legate tra di
esse e interincidenti. Ne segnalo cinque, precisamente quelle che mi sembrano
più necessitanti di essere condivise con Gesù stesso: se stessi, cioè la
propria persona e la propria vita; l’amore divino, ricevuto e contraccambiato;
la propria comunità; il fratello “più piccolo”; l’Eucaristia.
Se stessi
La prima grande abitazione di Gesù è se stessi, cioè la propria persona e
la propria vita, poiché ciascuno di noi è “tempio di Dio”, cioè luogo dove
abita Dio, lo si incontra, lo si adora. Ce lo comunica s. Paolo nella 1ª
Lettera ai Corinti: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio
abita in voi?” (3,16)… e questo tempio è santo: “santo è il tempio di Dio, che
siete voi” (3, 17). Occorre ricuperare questo sguardo di fede su se stessi,
poiché esso fa scaturire alcuni impegni di vita, che ci consentono di abitare
con Gesù. Quali?
Avvertire in profondità la sua permanente presenza dentro di noi nel
vissuto quotidiano, sentendoci suoi conviviali...
Fare della vita quotidiana «il luogo per eccellenza dell’adorazione a Dio»,
poiché Dio abita in essa. È stato Gesù a recapitarci questa lieta informazione
nel colloquio con la samaritana: “È giunto il momento, ed è questo, in cui i
veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità” (=Gesù). Allora i veri
adoratori secondo Gesù sono coloro che vivono ogni frammento di vita “in
Cristo-con Cristo-per Cristo”, sostenuti dall’azione dello Spirito Santo. È
questa la vera adorazione di Dio chiesta da Gesù, adorazione che dà a Dio pieno
spazio nel proprio cuore e nella propria vita nel suo dipanarsi quotidiano (VC
25) … e “il Padre cerca questi adoratori”, ci ha detto Gesù.
“Camminare secondo lo Spirito” e non secondo “la carne” (Gal 5, 16-25),
consapevoli che “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro
sono figli di Dio” (Rm 8, 14) e “vengono edificati per diventare dimora di Dio”
in Cristo Gesù (Ef 2, 22). Questo «camminare secondo lo Spirito»: ci obbliga a
operare un costante discernimento del proprio vissuto alla luce dei prodotti
dello Spirito, chiaramente indicati da s. Paolo nella Lettera ai Galati in
contrapposizione alle opere della carne (5,19-22); ci impegna a non far morire,
incatenando nella nostra mentalità, nella nostra sensibilità e nei nostri
costumi, tante sue iniziative, poiché «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma
non sai di dove viene e dove va» (Gv 3, 8).
Avere dentro di sé il coraggio, come Adamo, di uscire dai propri vari
“nascondigli” (es. le tante giustificazioni delle proprie scelte, mascherate di
logica e prudenza umane, ecc.) per consentire a Dio, che abita in noi, di
operare in noi e tramite noi quanto ha in mente di compiere
(Gn 3, 9-10)…
Non profanare questo “tempio santo di Dio” facendolo una “spelonca di
ladri” (Mt 21, 13; Mc 11, 17; Lc 19, 48), cioè non dissacrarlo, costruendoci
«vitelli d’oro» e adorarli (=i propri desideri, i propri progetti, le proprie
attese, la propria mentalità, i propri sentimenti, ecc.). Si tratta, perciò, di
non compiere alcun “accordo tra il tempio di Dio e gli idoli” (2 Cor 6, 16), ma
di restituire alla vita la sua sacralità, in tutte le varie situazioni nelle
quali si esprime, rendendola un culto permanente a Dio, cosicché si possa
dirgli quotidianamente quanto dettogli da Gesù: “Padre… Io ti ho glorificato
sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare” (Gv 17, 4).
L’amore di Dio, ricevuto e contraccambiato
La seconda abitazione di Gesù è l’amore, amore ricevuto da Dio, amore
contraccambiato a Dio. È s. Giovanni a offrirci questo indirizzo: “Dio è amore:
chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4, 16). Allora, per
abitare con Gesù occorre aprire il cuore a questo amore, ricevuto da Dio e
contraccambiato a Dio.
a) Amore di Dio ricevuto
Scrive s. Giovanni nella 1ª Lettera: “In questo sta l’amore: non siamo
stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio
come vittima di espiazione per i nostri peccati.... Noi amiamo, perché egli ci
ha amati per primo» (4, 10.19). L’Istruzione Ripartire da Cristo (22) dichiara
in proposito: «È suo il primato dell’amore. La sequela è soltanto risposta
d’amore all’amore di Dio». Di conseguenza, l’accento di un autentico cammino di
fede, che ci consenta di “abitare” con Gesù, va posto primariamente non sul
nostro amore a Dio, ma sul suo amore per noi.7 Si tratta, allora, di coglierci
e sentirci sempre «sommamente amati da Dio». Ed è stato lo stesso Gesù a darci
questa “lieta notizia” nell’ultima cena: «Il Padre vi ama» (Gv16, 27).
Ma Dio-Padre come ci ama? Come ha amato Gesù. Lo ha affermato Gesù stesso
nella preghiera rivolta al Padre nell’ultima cena: Padre, li hai amati come hai
amato me (Gv 17, 23). Davanti a queste dichiarazioni d’amore – un amore
illimitato e gratuito, non paragonabile ad alcun amore umano per quanto grande
sia (Lc 11, 11-13) – non può esserci nel suo discepolo alcun dubbio non solo di
essere amato da Dio-Padre, ma di essere amato come il Padre ama Gesù (Gv 15,
9-11). Ed è questa la ragione prima che spiega come la gioia di Gesù di essere
amato dal Padre deve diventare anche e necessariamente gioia del discepolo:
Questo vi ho detto perché la mia gioia – di essere amato dal Padre – sia in voi
e la vostra gioia sia piena (Gv 15, 11).
Questo amore del Padre nei nostri confronti ha portato a rendere ogni
discepolo di Gesù un dono fattogli da lui stesso. È stato Gesù a dichiararlo:
“Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io” (Gv
17, 24). Perciò, il vero discepolo è colui che recepisce se stesso come: un
dono del Padre fatto al Figlio suo Gesù; un dono accolto da Gesù; un dono
prezioso per Gesù, tanto prezioso da non essere mai gettato fuori dal suo
cuore: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (Gv 15, 9); un
dono che ha condotto – e conduce – Gesù a mettersi il grembiule per lavargli i
piedi, facendosi “suo schiavo”; un dono che impegna Gesù a non perderlo mai
fino ad averlo per sempre nell’al-di-là: “Padre, voglio che anche quelli che mi
hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria” (Gv 17,
24).
Se davvero il Padre ci ama come ha amato Gesù, se davvero ciascuno di noi è
‘dono’ del Padre fatto a Gesù, se davvero Gesù non vuole perdere questo ‘dono’,
allora, ciascuno di noi è chiamato:
– a vivere – ogni giorno – la certezza di questo amore di Dio, che fa
germogliare il convincimento di non essere mai abbandonati da lui, anche quando
si vivono momenti nei quali si sperimenta “il silenzio-assenza” di Dio, che
mette a dura prova questa certezza, come l’ha sperimentato Gesù sulla croce:
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato (Mc 15, 34)... Ma subito ha
“gridato a gran voce”: Padre, nelle tue mani affido me stesso (Lc23, 46);
– a gustare in continuità la gioia di essere amati da Dio, gioia che
nessuno può togliere, perché niente può cancellare l’amore di Dio per noi....
neppure il peccato, poiché l’amore di Dio è più grande di esso (Rm 5, 8; 1Gv2,
1-2);
– a non lasciarci mai catturare da sentimenti di paura di lui – la paura di
Adamo – poiché sottolinea Giovanni: Nell’amore non c’è timore; al contrario,
l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi
teme non è perfetto nell’amore (1Gv 4, 18) (cf. AA.VV. L’amore vince la paura,
MI 1999);
– ad avere sempre nel cuore la certezza di un futuro ultraterreno
pienamente partecipante della gloria di Cristo Gesù, come assicuratoci da lui
stesso nella preghiera rivolta al Padre nell’ultima cena: “Padre, voglio che
anche quelli che mi hai dato siano con me, perchè contemplino la mia gloria”
(Gv 17, 24);
– a rendere grazie sempre a Dio per questo suo amore, gratuito-fedele-
permanente.
Pertanto, occorre far nostra l’esperienza di s. Giovanni: “Noi abbiamo
riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta
nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4, 16).
b) Amore di Dio contraccambiato
L’amore di Dio a noi chiede una risposta d’amore a lui, la quale consente
di essere vera “dimora” del Padre e di Gesù, come da lui dettoci: “Se uno mi
ama”, io e il Padre “prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23). Ovviamente,
tale risposta d’amore deve essere idonea a farci vivere il rapporto con lui
come il “sommamente amato” (LG 44), implicante “una dedizione totale ed
esclusiva” a lui, con la quale si testimonia che il primato di Dio costituisce
l’«innanzi tutto» della propria vita (cf. Testimoni 13/2000 7-9), il centro di
gravitazione del proprio sentire, del proprio pensare, del proprio agire... non
altre cose che tentano di occupare indebitamente il cuore.
Ora, la condizione indispensabile per poter dichiarare di amare Gesù,
perciò di rimanere nel suo amore (Gv 15, 10), quindi di essere sua “dimora”, è
la messa in pratica della sua Parola. L’ha detto lui stesso: «chi accoglie i
miei comandamenti e li osserva, questi mi ama» (Gv 14, 21). L’adesione vitale e
profonda alla sua Parola si presenta, così, come prima e irrinunciabile
espressione dell’amore a lui, la prova indiscussa che lo si ama davvero. Ne
deriva che l’adesione, l’indifferenza o il rifiuto della sua Parola diventano
adesione, indifferenza o rifiuto di lui nella propria vita. D’altra parte,
puntualizza Gesù, l’accoglienza della sua Parola e la fedeltà a essa scaturiscono
dall’amore a lui: “se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv 14, 15) e
sarete davvero miei discepoli (Gv 8, 31). Pertanto, quanto più uno ama Gesù
tanto maggiormente vive della sua Parola e viceversa, poiché amore a Gesù e
amore alla sua Parola sono inscindibili e interincidenti. Di conseguenza,
secondo Gesù, il test specifico per verificare la qualità e l’intensità del
proprio amore a lui, la prova indiscussa perché ciascuno di noi possa dire a se
stesso: “amo Gesù” sta nel mettere in pratica la sua Parola, nel nutrirsi di
essa, come dettoci da s. Giovanni nella 1ª Lettera: chi osserva la sua parola,
in lui l’amore di Dio è veramente perfetto (1Gv 2, 5). Pertanto, scrive s.
Giovanni: “chi dice: «conosco Dio»” – cioè credo in lui, sono suo discepolo,
faccio esperienza di lui – ma “non osserva i suoi comandamenti”, vale a dire la
sua Parola, costui “è bugiardo e la verità non è in lui” (1Gv 2, 4). Pertanto,
la messa in pratica della parola di Dio: ci assicura l’esperienza d’una vita
profondamente radicata nell’amore di Dio, come affermato da Gesù: Se
osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato
i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore (Gv 15, 10); ci garantisce
di essere effettivamente sua ‘dimora’, come dettoci da Gesù: “Se uno mi ama,
osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23).
Ovviamente, lo spessore della risposta d’amore a Dio è profondamente legato
alla intensità della certezza di essere e di sentirsi amati da Dio. In
proposito, scrive il Papa in VC, quanto più intima e forte è «l’esperienza
dell’amore gratuito di Dio», tanto maggiormente la persona “avverte di dover
rispondere con la dedizione incondizionata della sua vita, consacrando tutto,
presente e futuro, nelle sue mani» (25), «approfondendo continuamente... un
amore sempre più sincero e forte in dimensione trinitaria: amore al Cristo, che
chiama alla sua intimità; allo Spirito Santo, che dispone l’animo ad accogliere
le sue ispirazioni; al Padre, prima origine e scopo supremo della vita
consacrata» (VC 21).
La comunità riunita nel nome di Gesù
La terza abitazione di Gesù è la comunità riunita nel suo nome. L’ha detto
Gesù: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro” (Mt
18, 20), quindi lì è mia abitazione.
Tutti siamo consapevoli che la comunità dei discepoli-consacrati è una
realtà generata dall’iniziativa personale e gratuita di Gesù (Gv 15, 16), con
la quale ciascun componente non è solo un «chiamato» con una sua vocazione
individuale, ma è un «convocato», cioè un chiamato assieme ad altri con i quali
«condividere» il progetto di vita consacrata tramite la professione religiosa,
nella quale ciascuno viene «reciprocamente donato dal Signore, accolto dai
fratelli e consegnato loro nel nome del Signore». Se sul piano oggettivo la
comunità dei consacrati è «una vera famiglia adunata nel nome del Signore» (cf.
VFC 8 e 44, RPU 25), questa sua identità è chiamata a tradursi in esperienza di
vita per essere effettivamente “abitazione di Gesù”.
Ora, perché l’unità nel Signore diventi esperienza di vita, perciò luogo
della sua abitazione, occorre dare una risposta concreta e coerente al sogno di
Gesù delineato da lui stesso nella preghiera rivolta al Padre nell’ultima cena:
“Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola,
perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 21). Questo sogno di Gesù,
nella sua formulazione orante, ci rimanda alla vita di unità delle Persone della
SS. Trinità, la quale va contemplata e assunta come l’archetipo e il dinamismo
unificante della propria vita comunitaria (VFC 10). Di conseguenza, ciascun
componente della comunità consacrata è chiamato a impegnarsi perché nel vissuto
quotidiano essa sia una immagine visibile dell’unità intratrinitaria, che rende
vera la propria unità con Dio.
Ciò comporta un costante impegno a far si che il rapporto interpersonale
nella comunità scorra sostanzialmente nell’alveo di una comunione d’amore
vissuta in una triplice modalità esperienziale:
a – L’uno nell’altro. Si tratta di sentirsi mutuamente carne della propria
carne, innestati l’uno nell’altro, cosicché la linfa vitale dell’uno diventi
linfa vitale dell’altro. Questa modalità del rapporto interpersonale si compie
nell’assunzione di una duplice logica.
La logica della consegna piena di sé all’altro, che scaturisce dalla
professione di vita consacrata, con la quale si accetta di consegnarsi a ogni
fratello/sorella, a tutta la comunità, all’intero istituto. Vissuta sulla
esemplarità di Cristo, il totalmente consegnatosi a noi per la nostra pienezza
di vita secondo il progetto di Dio, questa consegna domanda: di affidare, in
pienezza e con fiducia, se stessi e la propria vita, in tutti i suoi frammenti,
ai fratelli e alla comunità, con tutto ciò che può implicare tale affidamento;
di rifiutare ogni forma di privatismo, non mettendo su di sé, sul proprio
vivere, sulle proprie cose alcun cartello di proprietà privata, di riserva,
poiché tutto in sé e di sé appartiene ai fratelli e alla comunità, perciò,
quanto si trattiene per se stessi è infedeltà alla propria professione
religiosa.
La logica della reciproca accoglienza, che è il cuore dello stare e del
vivere insieme, la quale va vissuta alla luce dell’accoglienza di Gesù nei
propri confronti, come segnalatoci da s. Paolo: “Accoglietevi gli uni gli altri
come Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio” (Rm 15, 7). Solo a partire
dall’accoglienza di Gesù nei propri confronti si può comprendere e realizzare
l’accoglienza fraterna secondo Dio, la quale si presenta come la prima
dimensione dell’amore, l’atteggiamento primordiale e più fecondo della
relazione fraterna, poiché: tocca l’interiorità della persona prima ancora del
suo gesto; crea vicinanza, perciò immette nella spontaneità della relazione,
distruggendo ogni estraneità; abbatte ogni steccato divisorio tra persona e
persona, superando pregiudizi, discriminazioni, paure, diffidenze, sospetti,
distanze e indifferenza; rende pronti ad accogliere l’altro, senza giudicarlo
(Mt 7, 1-2), per quello che ciascuno è come persona umana, non per il suo
temperamento, per la sua mentalità, per il suo vissuto, per quello che fa, per
la stima che riceve, per i ruoli comunitari che ricopre.
b – L’uno con l’altro. Questa modalità esperienziale si attua nell’adottare
la logica della corresponsabilità, poiché la crescita di ciascuno e di tutti
insieme nell’esperienza di Cristo è un evento consegnato all’apporto e alla
responsabilità di tutti (VFC 11). Tale logica deve condurre all’assunzione di
puntuali impegni tendenti a far vivere «l’uno con l’altro». Tali impegni
possono essere così enucleati:
– far maturare nel cuore di ciascuno e vivere l’essere responsabile l’uno
dell’altro, poiché tutti siamo resi custodi dei nostri fratelli, tutti siamo
resi concostruttori della vita di ciascuno e della comunità.
– Educarsi e lasciarsi educare al coinvolgimento reciproco, eliminando
quanto ad esso si oppone, cioè il chiudersi nel privato, il rinserrarsi nella
passività, il trincerarsi nella delega, il murarsi nel disinteresse, ecc.
– Prendersi cura l’uno dell’altro, consentendo che l’uno intervenga nella
vita dell’altro, spianandogli la strada nel venire a sé per darci una mano a
essere fedeli alla propria vocazione specifica. In questo prendersi
reciprocamente cura s’innestano il compito e la responsabilità morale di un
duplice vicendevole servizio educativo, finalizzato a edificare nel Signore la
vita di ciascuno e di tutti insieme: la correzione fraterna, data con amore e
ricevuta con gratitudine, e la revisione comune di vita.
– Far recepire e vivere effettivamente la comunità come soggetto collettivo
di discernimento-di programmazione-di decisione-di attuazione-di verifica del
proprio vissuto e del proprio operato, cosicché fiorisca lo spirito di famiglia
e il mutuo sostegno.
c – L’uno per l’altro. È l’esperienza dell’amore reciprocamente oblativo,
la quale si attualizza nel dare corpo a una duplice logica.
– La logica del dono totale di sè all’altro, che trova la sua fondazione
ultima e la sua esemplarità di Cristo Gesù, fattosi nostro dono. Tale logica
comporta due fondamentali impegni:
donare all’altro tutto ciò che si è e si ha, «gratuitamente, senza
pretendere nulla per sé»:8 il dono dell’amore, dato su misura di ciascuno, vale
a dire misurato sulla situazione e sui bisogni di ciascun componente; il dono
del servizio vicendevole, offerto senza risparmio di energie, un servizio
scelto soprattutto dagli altri... che porta a un lasciarsi prendere a servizio,
cosicché siano gli altri a disporre di te, rivivendo l’atteggiamento del Cristo
eucaristico “prendete e mangiate”; il dono della testimonianza di vita; il dono
della parola di Dio, offerta con fede e amore; il dono delle proprie doti,
messe a disposizione; il dono della preghiera d’intercessione; il dono del
perdono, dato fino a “settanta volte sette” (Mt18, 22); il dono del rispetto e
della stima, ecc...; il dono della presenza fisica, che è grazia, perché un
segno corporale della presenza di Dio, il quale nella presenza fisica di ognuno
rinnova la sua presenza corporale’; il dono del proprio peccato…
liberarsi da ogni pretesa, poiché ogni pretesa messa davanti ai fratelli e
alla comunità è un segno di proprietà, che contraddice l’essere dono. Quali le
pretese più comuni? La pretesa della stima; la pretesa di essere ritenuto
qualcuno; la pretesa del riconoscimento del proprio operato; la pretesa della
gratitudine; la pretesa della comprensione (Gv 7, 12); la pretesa di vedersi
affidati certi ruoli; la pretesa dell’inamovibilità locale; la pretesa del
perdono. Si tratta di attuare «un vero cammino di liberazione interiore» (VFC
21), liberandoci «dal bisogno di mettersi al centro di tutto e di possedere
l’altro» (VFC 22).
– La logica della gratitudine per quanto si riceve dal singolo e dalla comunità,
senza mai dare ossigeno all’amarezza per ciò che non viene dato. In proposito,
scrive Dietrich Bonhoeffer: «Quanto più profonda è la gratitudine con la quale
accetti ogni giorno ciò che ti viene dato dai fratelli, tanto più certa e
costante sarà la crescita quotidiana della comunione secondo Dio».9
Un punto di riferimento irrinunciabile e costante di questo amore oblativo
è il «comandamento nuovo» del Signore: “Questo è il mio comandamento: che vi
amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15, 12). Gesù non dice
“amatevi gli uni gli altri come ciascuno ama se stesso”, comandamento dell’AT:
“ama il prossimo tuo come te stesso”, ma come io amo voi. Sta qui la grande
novità del comandamento sull’amore vicendevole dato da Gesù. Questo “come io amo
voi” ci dice che non dobbiamo essere noi a scegliere chi amare, a decidere come
dobbiamo amare e quando dobbiamo amare. Quel “come” ci dice unicamente che la
misura dell’amore fraterno, la qualità e l’intensità di questo amore vanno
declinate su quelle dell’amore di Gesù a noi. Pertanto, il discepolo vero è
colui che assume in proprio l’amore di Gesù a noi per donarlo al fratello
attraverso il proprio amore. Lo afferma S.Giovanni nella 1ª lettera: “Da questo
abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi, anche noi
dobbiamo dare la vita per i fratelli” (3, 16). Perciò, solo a partire da Gesù
si può comprendere e realizzare l’amore fraterno chiesto da lui: un amore che
rappresenta la «carta d’identità» del discepolo di Gesù: “Da questo tutti
sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv
13, 35); un amore che, vissuto, rende amici suoi… sarete davvero “miei amici”,
poiché “fate ciò che vi comando”, cioè vi amate come io amo voi (Gv 15, 14); un
amore che invera l’amore a Dio, come afferma s. Giovanni: “Chi… non ama il
proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4, 20).
Solo l’esperienza di questa unità fraterna attualizza il “Dove due o tre
sono riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20). E questa unità
costituisce il nucleo centrale della spiritualità della comunione fraterna,
fortemente proposta dall’Istruzione Ripartire da Cristo: «Se «la vita
spirituale che opera la trasfigurazione cristica deve essere al primo posto»
(VC 93)…, essa dovrà essere innanzitutto una spiritualità di comunione (RdC nn
28-29).
Il fratello più piccolo, accolto e servito nel nome di Gesù
La quarta grande abitazione di Gesù è il fratello più piccolo, accolto e
servito nel suo nome. Questa abitazione è segnalata da Gesù: “In verità vi
dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli
più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40). Soprattutto con loro Gesù si
identifica, perciò in loro abita in una maniera preferenziale.
Ma chi sono questi fratelli più piccoli? Ce li ha indicati Gesù nel suo
vangelo: coloro che sono affamati, assetati, forestieri, nudi, malati,
carcerati (Mt 25, 35-36), zoppi, storpi, ciechi, sordi (Mt 15, 30), gli
‘incappati nei ladroni’ (Lc 11, 30-37), i piccoli della società di Gesù (Mt 18,
5),10 cioè gli ultimi, coloro che Teresa di Calcutta chiamava «i non amati, i
non voluti, i non curati, i respinti, i dimenticati». In questi piccoli Gesù si
identica; questi ‘piccoli’ sono per Gesù carne della sua carne, esigente
rispetto-accoglienza-venerazione-amore solidale (Mt 25, 31-46); questi piccoli
sono la sua casa. L’ha affermato anche Giovanni Paolo II: «la casa di Gesù è
dovunque un uomo soffre per i suoi diritti negati, le sue speranze tradite, le sue
angosce ignorate... là, tra gli uomini, è la casa di Cristo, che chiede a voi
di asciugare, in suo nome, ogni lacrima e di ricordare a chi si sente solo che
nessuno è mai solo se ripone in lui la propria speranza» (XII Giornata M.
Gioventù, 1996).
Allora, se si vuole abitare con Gesù, è necessario: amare questi piccoli,
assumendo il suo modo di amare reso manifesto nei suoi molteplici incontri
evangelici e nelle sue proposte di vita. Si tratta, pertanto, di mettersi alla
scuola del Gesù del vangelo (il suo vissuto) e del vangelo di Gesù (=la sua
parola) allo scopo di rivestirci di Cristo Gesù (Rm 13, 14), facendo nostri i
suoi atteggiamenti e i suoi comportamenti nel rapporto con i fratelli più
piccoli. Del resto, è lo stesso Gesù a rivolgerci questo invito: «Imparate da
me» (Mt 11, 29)… «Vi ho dato… l’esempio, perché come ho fatto io, facciate
anche voi» (Gv 13, 15). Accogliendo questo invito di Gesù, davvero il proprio
vissuto diventa:
– un banchetto nuziale per tutti coloro che stanno “ai crocicchi delle
strade” (Mt 22, 9), un banchetto che colma la loro fame di soccorso, di
speranza, di sorriso;
– un offertorio vivente per i tanti Lazzaro che si incontrano lungo la
strada dei propri giorni, perché tale invito ci rende occhio che vede, orecchio
che sente, cuore che accoglie, mano che dona, piede che cammina verso chi è in
necessità, ginocchio che si piega sull’indigenza altrui per colmarla con il
proprio fraterno amore;
– un forte richiamo per tutti a scoprire che il rinnovo della società passa
inevitabilmente attraverso il sentiero della solidarietà, la quale fa sognare
che «un mondo migliore è fattibile».
L’Eucaristia
La quinta grande abitazione di Gesù è l’Eucaristia: “Chi mangia la mia
carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui (Gv 6, 56), ci ha detto
Gesù. Ciò che conta è come vivere l’Eucaristia, dimora di Gesù. cosicché
diventi effettivamente un’esperienza di convivialità con Gesù eucaristico. Qui
mi permetto di offrire qualche semplice indicazione, rimandando la riflessione
alla lettura dei tre ultimi documenti ecclesiali sulla Eucaristia: Giovanni
Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, Lett. apost. 17/4/2003; Mane nobiscum
Domine, Lett. apost. del 7/10/2004, Congregazione culto divino e disciplina
sacramenti, Anno dell’eucaristia. Suggerimenti e proposte, Nota pastorale del
15/10/2004.
L’Eucaristia, perché sia effettivamente per se stessi “dimora di Gesù”, va
vissuta:
– come il memoriale della morte e risurrezione di Cristo Gesù, che rende
visibilmente presente il suo grande amore salvifico per l’intera umanità. Si
tratta, quindi, di partecipare alla celebrazione eucaristica sentendoci immersi
nell’amore di Gesù:11 un amore carico di “grato stupore” (EdE 5-6) di fronte
alla consacrazione, com’è stato lo stupore di Maria nella natività di Gesù; un
amore che, attraverso l’azione dello Spirito, ci consente di ricevere il Corpo
di Gesù così come lo ha ricevuto Maria nel suo grembo verginale; un amore che
rende Gesù pane spezzato per noi, con il quale si dona totalmente a noi per
essere mangiato e diventare, così, una sola cosa con noi, come avviene per il
cibo che prendiamo; «un amore gratuito e senza misura» (EdE 11) nei confronti
dell’intera umanità, per cui, afferma il papa, «anche quando viene celebrata
sul piccolo altare di una chiesa di campagna, l’Eucaristia è sempre celebrata,
in certo senso, sull’altare del mondo» (EdE 8).
– Come esperienza di riconciliazione con Dio, accogliendo la supplica di s.
Paolo ai corinti: “lasciatevi riconciliare con Dio (2Cor 5, 20). In proposito,
ci ricorda il Catechismo della chiesa cattolica, n. 1393: «L’Eucaristia non può
unirci a Cristo senza purificarci, nello stesso tempo, dai peccati commessi e
preservarci da quelli futuri».
– Come partecipazione al convito nuziale preparatoci da Dio-Padre (Mt 22,
1-14): un convito scaturito dal suo amore non dai nostri meriti, offerto
gratuitamente perciò non pagabile; un convito il cui cibo è il pane
eucaristico, cioè la ‘carne e il sangue’ di Gesù, carne e sangue che, nel
linguaggio biblico sta a indicare la totalità della persona; un convito a cui
tutti sono invitati senza discriminazioni, perciò tutti possono diventare
‘commensali’ e sono chiamati a diventare commensali; un convito di festa,
perché con Dio c’è sempre festa nella vita, come afferma Giovanni Paolo II:
«Non c’è dubbio che la dimensione più evidente dell’Eucaristia sia quella del
convito» (MND 15), il cui clima è segnato dalla festa, perciò ci notifica e ci
ricorda che l’esperienza cristiana della vita è e deve essere interiormente
gioiosa, pur dentro alla molteplice e varia fatica del vivere. L’Eucaristia,
proprio perché banchetto nuziale divino, ci sollecita a coltivare e a irradiare
la gioia cristiana del vivere, a diventare «una presenza di gioia», alimentata
da una profonda e trasformante esperienza di fede. Ma se l’Eucaristia è questo
banchetto nuziale, occorre che il discepolo di Gesù senta fame di esso; vi
partecipi come esigenza di un amore ricevuto e corrisposto con il desiderio
profondo nel cuore di assimilare il cibo-Gesù offerto da Dio.
– Come esperienza di comunione fraterna, perché tutti i partecipanti sono
chiamati dal Signore e resi conviviali con lui e tra di noi. «L’Eucaristia è
sorgente dell’unità ecclesiale… ed epifania di comunione», afferma Giovanni
Paolo II in MND 21. Pertanto, l’Eucaristia sollecita a prender coscienza che
siamo ‘un solo corpo’ in Cristo Gesù (1Cor 10,17), perciò chiamati: a vivere
profondamente questa unità d’amore significata e realizzata nella
partecipazione all’unica mensa; a coltivare questa unità d’amore «con una spiritualità
di comunione che ci induce a sentimenti di reciproca apertura, di affetto, di
comprensione e di perdono”; a estirpare dal proprio cuore ogni sentimento di
estraneità o di contrapposizione nei confronti del prossimo; a rendere presente
il gesto supremo di Gesù, il gesto del suo amore totale, “che vi amiate gli uni
gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15, 12).
– Come sollecitazione a indossare la “veste nuziale” (Mt 22, 11-14), cioè a
“rivestirci di Cristo Gesù”, direbbe s. Paolo (Rm 13, 14), tramite l’impegno
d’una quotidiana coerenza tra chiamata divina al banchetto e risposta umana.
– Come richiamo all’incontro finale con il Signore, perciò invito a stare
quotidianamente e dinamicamente nell’attesa della sua venuta. «L’Eucaristia,
annota il papa – ci proietta verso il futuro dell’ultima venuta di Cristo, al
termine della storia. Questo aspetto escatologico dà al sacramento eucaristico
un dinamismo coinvolgente, che infonde al cammino cristiano il passo della
speranza» (MND 21).
– Come rendimento di grazie al Signore per il suo amore gratuito e
perdonante, per i doni offerti e ricevuti; un rendimento di grazie nel quale
deve rivivere quello di Gesù al Padre nell’ultima cena (Gv 17, 4-5) ; un
rendimento di grazie sentito come dimensione irrinunciabile del vivere
quotidiano, a cui ci richiama l’inizio del Prefazio: “È veramente cosa buona e
giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni
luogo a te, Signore, Padre santo” (MND 26).
Così vissuta, l’Eucaristia ci consente di percorre un itinerario spirituale
che va dalla vita all’Eucaristia e dall’Eucaristia alla vita. dal quale
scaturisce un’esistenza cristiana trasformata dall’amore. Pertanto, dal
quotidiano pellegrinaggio eucaristico di andata e ritorno nasce il grande
impegno che ogni singolo componente è chiamato a far sì che «le sue giornate
diventino veramente eucaristiche» (EdE 31), Solo così l’Eucaristia,
celebrata-adorata-vissuta, diventa fonte e culmine di tutto il vissuto e
l’operato del singolo e della comunità, perciò vera e feconda esperienza di
conviviale dimora di Gesù con noi.
«Signore, dove abiti?»: percorrendo il Vangelo, Gesù ci ha offerto un
indirizzario delle sue varie abitazioni, con le loro implicazioni vitali. Ora
si tratta di far nostra la scelta dei due discepoli di Giovanni Battista:
“Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di
lui; erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1, 39). Questo ricordo dell’ora
sta a dire che quell’abitare con Gesù ha segnato un cambio radicale della loro
storia individuale. Infatti, da quell’ora è partita la loro sequela di Cristo,
fatta di vita condivisa.
Ovviamente, ciò è accaduto perché si sono sentiti affascinati di Gesù,
perciò conquistati da lui (cf. Fil 3,12). È necessario, allora rivivere in se
stessi la seduzione del Signore sperimentata dai due discepoli, la quale
consentì loro di “dimorare” per sempre con Gesù.
Concludo questa mia riflessione con un’ultima annotazione. Alla domanda
“dove abiti” posta da quanti il Signore mette sul proprio cammino quotidiano,
il discepolo-consacrato dovrebbe poter rispondere, con la sua testimonianza di
vita, non tanto con la sua parola, “venite e vedrete”, vale a dire “venite e
vedrete” che la mia abitazione è Gesù, “venite e vedrete” «chi è Gesù per me»… Si
tratta di far abitare Gesù, prestandogli la propria carne, in coloro che
incontriamo lungo il cammino, riscrivendo così l’esperienza di Andrea, il quale
“incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: Abbiamo trovato il
Messia, e lo condusse da Gesù” (Gv1, 41-42).
Fr. Agostino Martini, ofm
1Cf. CENCINI A., «Un virus in rete. Narcisismo e Vita consacrata»,
Testimoni 10 (2002) 4-6.
2Cf. CIVCSVA, Ripartire da Cristo, nn. 12-13; cf. ARRIGHINI A., “Tra sfide
e opportunità. Congresso internazionale sulla Vita consacrata”, Testimoni 7
(2004) 22-28.
3Cf. DALL’OSTO A., «Non “archivi”, ma luoghi dello Spirito», Testimoni 2
(2000) 36-37.
4Cf. PAGLIA V., «Difficoltà e resistenze alla conversione», SdP 265 (1995)
20.
5Cf. BENEDETTO XVI, Intervento incontro con superiori e superiore degli
istituti di VC e società di VA.
6Cf. GUCCINI L., «La Vita consacrata di fronte al mondo. La via della
fraternità», Testimoni 8 (1992) 21.
7Cf. DALL’OSTO A., «Progetto di vita spirituale», Testimoni 12 (2001)
21-29.
8Cf. BRENA E., «Formare al dono totale», Testimoni 9 (1992) 4-6.
9Cf. BONHOEFER D., La Vita comune, 50.
10Secondo la mentalità ebraica i bambini, pur accolti come una benedizione
di Dio per la famiglia, erano senza diritti: religiosamente, il bambino restava
fuori del “regno”, poiché non conosceva ancora la legge, perciò non poteva
praticarla, quindi un escluso dall’esperienza religiosa; socialmente, non gli
veniva attribuito alcun diritto; era relegato alla fascia sociale degli
“ultimi” (donne, schiavi, forestieri).
11Cf. MOROSI E., «Pane spezzato per la vita del mondo», Testimoni 12 (1993)
18.