VIAGGIO IN TERRA SANTA
PELLEGRINI ULLE TRACCE DI GESÙ
Come appare oggi la
Terra Santa al pellegrino che vi giunge mentre tutto attorno rumoreggiano le
armi? Ce lo descrive p. G. Ferrari che ha trascorso laggiù alcuni giorni
proprio nell’imminenza delle feste natalizie.
Fa parte del nostro programma di formazione permanente recarci in Terra
Santa per rinfrescare la vita cristiana alle sorgenti della nostra fede, là
dove si sente ancora la presenza del Signore, di sua madre, della sua famiglia,
dove il Mistero prende dimensioni umane, quelle dimensioni che spesso noi
smarriamo sui sentieri dello spiritualismo o del razionalismo che riducono il
Vangelo a un insieme di dottrine e di precetti. Camminare sulle strade di
Palestina rende il Vangelo più vero, attuale. Abbiamo ripercorso le strade
della Galilea, da Nazareth a Cana, dal Monte Tabor al Monte Carmelo, da Haifa a
Banias ai piedi dell’Hermon. Attraversando il lago di Tiberiade abbiamo
rivissuto la chiamata dei discepoli, con Gesù e con loro abbiamo soggiornato a
Cafarnao, a Tabga sul luogo della moltiplicazione dei pani e dell’ultimo
incontro dopo la pesca miracolosa, dove Gesù risorto ha preparato il pasto per
i discepoli e ha conferito a Pietro, rinnovato dal pentimento, il ministero di
primo pastore della sua Chiesa. Sul Monte delle Beatitudini abbiamo riascoltato
il discorso della montagna e, spingendoci fino a Banias, alle sorgenti del
Giordano, e a Cesarea di Filippo abbiamo rinsaldato la nostra fede in quella di
Simone figlio di Giovanni.
Con il Vangelo in mano abbiamo continuato la nostra strada e, discendendo
lungo il Giordano, abbiamo costeggiato quella Samaria che Gesù ha attraversato
nei suoi spostamenti dalla Galilea verso Gerusalemme e che noi, a causa della
guerra, non abbiamo potuto percorrere. Siamo giunti a Gerico, la città di
Zaccheo, da dove siamo saliti verso Gerusalemme percorrendo a ritroso la strada
del buon Samaritano, fermandoci a Betania nella casa di Marta, Maria e Lazzaro.
E poi siamo giunti a Gerusalemme, la città santa, contesa oggi tra le tre
grandi religioni. Lì abbiamo rivissuto i giorni santi della passione, morte e
risurrezione del Signore. Abbiamo sostato a lungo nel Cenacolo dove, se non si
può celebrare, abbiamo almeno potuto rimanere a lungo in preghiera nel ricordo
dei più grandi misteri della nostra fede. Certo ci sarebbe piaciuto poter dare
ancora più tempo alla preghiera nella Basilica della Risurrezione per rimanere
più a lungo sul luogo della crocifissione e vegliare presso il sepolcro vuoto.
Col passare dei giorni il tempo sembrava accelerare e accorciarsi …ma era
l’effetto del desiderio non appagato. Abbiamo celebrato la santa messa nel
deserto di Giuda, selvaggio e forte richiamo delle tentazioni del popolo e dove
Gesù ha sconfitto il tentatore. Ci siamo recati anche alle rovine di Masada, la
fortezza di Erode, luogo della resistenza ebraica ai Romani nella prima guerra
giudaica (70-73 d.C.) e a Qumran dove a partire dal 1947 sono stati trovati i
manoscritti del Mar Morto. Durante la permanenza a Gerusalemme abbiamo visitato
anche lo Yad Vashem e il Giardino dei Giusti, rispettivamente memoriale della
Shoah e di coloro che hanno salvato gli ebrei a rischio della propria vita,
partecipando così a quella tremenda storia di disumana violenza e di follia. Il
pellegrinaggio si è poi concluso con quattro giorni di esercizi spirituali a Betfage
sul monte degli Ulivi, alle porte di Gerusalemme, nella casa dei Silenziosi
Operai della Croce accolti con straordinaria ospitalità e gentilezza da quelle
sorelle.
IN UNA TERRA
DI SOFFERENZA
Il pellegrinaggio si è svolto in modo normale, malgrado le paure della
vigilia. La guerra del Libano, scoppiata alla fine di luglio, pur conclusasi
rapidamente, ha seminato nuova paura tra i possibili pellegrini e ha fatto
cancellare molti pellegrinaggi, impedendo anche la programmazione di quelli dei
prossimi mesi. Tutto questo è ben comprensibile, soprattutto per chi è
costretto a credere alle informazioni dei mass media, soprattutto di una
televisione in cui prevale ancora la tendenza allo scoop e al sensazionale
piuttosto che a fornire informazioni esatte e che confonde notizie della
Striscia di Gaza con quelle di Nazareth o di Gerusalemme. Noi abbiamo potuto
percorrere in tutta libertà l’itinerario del pellegrinaggio, senza dover
rinunciare, per paura di attentati terroristici o azioni militari, a nulla di ciò
che in questi ultimi anni si poteva vedere. Questo è certamente un fatto
positivo che nessuno poteva immaginare dopo la guerra del Libano e dopo
l’uccisione di quel volontario italiano a Gerusalemme durante l’estate.
Certamente non abbiamo trovato la folla dell’anno scorso, che aveva fatto di
nuovo sperare, dopo che i pellegrinaggi erano stati sospesi per quasi tre anni
in seguito alla seconda intifada. I grandi assenti sono gli americani del nord
e gli europei, ma la loro assenza è stata compensata da nutriti gruppi di
pellegrini provenienti dall’oriente, India, Sri Lanka, Filippine, Giappone e
dall’America Latina, soprattutto Brasile e Messico.
Che la Terra Santa sia un paese in guerra, questo lo si percepisce
nettamente e lo si vede da certi segni che non possono non impressionare, il
primo e più scandaloso di tutti, il muro che isola i territori palestinesi, Ma
non è l’unico. Mentre celebravamo la messa sul Monte delle Beatitudini, per
esempio, una formazione aerea d’Israele pattugliava il cielo sopra il lago di
Tiberiade riempiendolo con il rombo dei motori che risvegliava nei più anziani
di noi i ricordi dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Così pure i
giovani militari in borghese con il mitra in spalla che seguivano i gruppi di
studenti israeliani in gita, non poteva che ricordare che la sicurezza è
ancora, purtroppo, affidata alle armi. Va anche detto tuttavia che i controlli
ai check point sulle strade e alle frontiere sono stati molto più leggeri dello
scorso anno, dando quasi l’impressione che i poliziotti e i soldati israeliani
volessero far dimenticare la prepotenza e l’arroganza d’altri tempi. Forse ci
si sta rendendo conto che la durezza e la prepotenza non sono sempre i metodi
più efficaci per garantire la sicurezza di un popolo che vive nel terrore.
LO SPETTRO
DELLA POVERTÀ
Tutti sanno che i pellegrinaggi, oltre che un sostegno morale per le
comunità cristiane di Terra Santa, sono anche una fonte di guadagno per coloro
che lavorano, in modo diretto o indiretto, nell’accoglienza dei pellegrini e
nella produzione di articoli religiosi per le innumerevoli bancarelle dei
Luoghi santi. In questo modo i pellegrini, forse senza rendersene conto, danno
da vivere a molte famiglie che altrimenti non potrebbero tirare avanti in una
terra tanto travagliata da conflitti che durano ormai da troppi anni. Oggi la
vita a Betlemme e dintorni è difficile da sopportare nonostante le molteplici
iniziative di solidarietà dall’estero e dall’interno. L’impressione che si
coglie nei luoghi soggetti all’Autorità Palestinese è infatti di una crescente
povertà, un degrado della condizione della gente oltre che un’insicurezza ormai
insostenibile. La disoccupazione è in aumento. Sembra quasi che le cose, invece
di procedere pur lentamente verso una normalizzazione, stiano regredendo. E
probabilmente è proprio così. Ce l’hanno confermato, da punti di vista diversi
ma convergenti, il custode di Terra Santa, p. Pierbattista Pizzaballa OFM, il
p. Pierre Grech, segretario della Conferenza episcopale del Medio Oriente, e il
patriarca latino di Gerusalemme, S.B. Michel Sabbah, che abbiamo incontrato
durante i giorni della nostra permanenza a Gerusalemme.
La radice di tutti i problemi di questa Terra sta, come è noto,
nell’incapacità di trovare la formula di convivenza dello stato di Israele con
il popolo palestinese che alla proclamazione dello stato d’Israele si è trovato
privato della sua terra. Dal 1948 a oggi si sono susseguite tre guerre
combattute e una continua catena di attentati e di repressioni. Oggi siamo arrivati
di nuovo a un momento molto critico. Tutti sentono l’urgenza della pace. Questo
è quello che ha scritto nel messaggio di Natale il Patriarca latino di
Gerusalemme, mons. Michel Sabbah: «Anche quest’anno Natale arriva a Betlemme
nelle medesime circostanze di morte e di frustrazione, con il muro e con gli
sbarramenti sul terreno e nei cuori. Continuano da un lato l’occupazione e la
privazione della libertà, dall’altro la paura e l’insicurezza. Gaza resta una
grande prigione, un posto di morte e di dissensi interni palestinesi». Una
situazione disperata a peggiorare la quale il patriarca aggiunge che «tutti,
compresa la comunità internazionale restano impotenti a trovare i veri sentieri
della pace e della giustizia». Questo purtroppo è causa di una catena di
situazioni che fanno sì che «la paura dell’avvenire si estenda a tutta la
regione: Iraq, Libano, Siria, Egitto, Giordania. L’avvenire sta per essere
messo in gioco per tutti. E con tutto questo, il terrorismo mondiale trova di
che ben alimentarsi a tutte le piaghe aperte».
È sotto gli occhi di tutti che la strada della pace ci sarebbe, aperta e
praticabile: essa è stata tracciata alla fine di aprile del 2003 dal cosiddetto
«Quar-
tetto», ONU, USA, Russia e Unione Europea. Il loro progetto di pace, chiamato
Road map, mirava alla costituzione, per la fine del 2005, di due stati autonomi
e indipendenti di Israele e Palestina, con confini ben definiti e sicuri.
Purtroppo questa strada, come tutti sanno, è svanita come un torrente nel
deserto. Se la morte di Hasser Arafat aveva facilitato in qualche modo il
processo di pace, la malattia di Ariel Sharon e la vittoria di Hamas alle
elezioni palestinesi dello scorso anno, insieme con la non volontà di pace
delle grandi potenze, cui ora si aggiunge l’Iran di Ahmadinejad, hanno
complicato nuovamente le cose, per cui la Road Map è oggi un documento
d’archivio.
La recente guerra del Libano e i ripetuti raids israeliani nella Striscia
di Gaza hanno mostrato la potenza militare e nello stesso tempo la debolezza di
Israele il quale si trova a vivere in un crescente stato di terrore. I pochi
contatti avuti con qualche israeliano ci hanno confermato che, se Israele
mostra i muscoli e la sua potenza all’esterno, all’interno vive invece una vita
impossibile e sta pagando molto caro il conto della sua prepotenza. Tutti
sentono che bisogna chiudere la questione palestinese anche perché, come ha
insinuato il patriarca Sabbah nel suo messaggio di Natale, la guerra tra
Israele e i palestinesi è davvero la madre di tutte le guerre della regione e
non ci potrà essere pace finché i confini di Israele e della Palestina non
saranno fissati con giustizia e rispettati senza riserve mentali.
LA CHIESA
IN QUESTA TERRA
La Chiesa in mezzo a questi conflitti continua la sua missione di sacramento
universale di salvezza, cerca di tenersi al di sopra delle parti, per essere
aperta a tutti e di essere promotrice di pace, perché porta in sé colui che è
la Pace e che ha fatto dei due popoli un solo popolo abbattendo il muro della
separazione (cf. Ef 2, 14-16). Ma resta il fatto che la Chiesa nella regione
conta poco, anzi la sua consistenza numerica tende a ridursi, perché molti
cristiani, appena possono, se ne vanno altrove. Eppure è importante che resti
una comunità di cristiani in quella terra che è stata la terra di origine della
Chiesa di Gesù Cristo. Ed è altrettanto importante che la Chiesa possa essere
in comunione con il popolo di Israele che rimane sempre, in modo misterioso,
misconosciuto fino al tempo del concilio, una parte viva del cristianesimo.
Israele ha certo diritto di vivere sulla terra dei propri padri, come dice
Marcel-Jacques Dubois, un domenicano francese, cittadino d’Israele, ma è
altrettanto necessario chiedersi se per realizzare questa promessa divina
Israele abbia il diritto di usare «la violenza, la conquista, le ingiustizie
legate all’occupazione della terra» (Marcel J.-Dubois OP, Nostalgie d’Israël,
Cerf Paris 2006, p. 150).
C’è una contraddizione tra le promesse di Dio e la loro realizzazione
storica nello Stato ebraico che perseguita i palestinesi. «È per una vocazione
e una scelta di Dio – scrive P. Dubois – che Israele ha una posizione
singolare. E Israele regolarmente se lo dimentica. Credo che ci sia in questo
una contraddizione fondamentale che non può essere superata che nella fede e
nella pazienza richiesta da questa fede. Non vedo ora altra via che la
preghiera silenziosa insieme ad una immensa benevolenza… ma ci vedo anche i
conflitti che nascono» (p. 152). La speranza che non deve venir meno è che
Israele ascolti la voce degli oppressi e ricordi la sua vocazione di «luce per
le nazioni» (Is 49,6), di popolo attraverso il quale saranno benedette tutte le
generazioni. Non è forse vero che «i doni e la chiamata di Dio sono
irrevocabili» (Rm 11,29)?
Gabriele Ferrari s.x.