“VI ANNUNCIO

UNA GRANDE GIOIA”

 

Portare il Vangelo ai giovani di oggi significa entrare in certo senso nel loro mondo, accettandoli così come sono, nei valori in cui credono e persino nelle loro ferite e rotture per far poi vedere come esso sia la vera risposta alle loro aspirazioni più profonde.

 

Il titolo di questo Speciale ha una forte risonanza natalizia: riecheggia infatti l’annuncio gioioso dell’angelo ai pastori la notte della nascita di Gesù a Betlemme. Ci è sembrato un titolo quanto mai adatto per rispondere all’interrogativo che p. Timothy Radcliffe, autore della seguente riflessione,1 si è posto durante il congresso di Bruxelles sull’evangelizzazione nella città che si è tenuto in concomitanza con la festa di Ognissanti, sul tema “Venite e vedete”, ossia: come annunciare oggi il Vangelo della gioia ai giovani della nostra generazione? Come far sì che diventi anche per essi una “Buona Notizia”?

P. Radcliffe ha preso le mosse dall’episodio del vangelo di Giovanni dove si parla della vocazione di Natanaele e ha definito i giovani a cui annunciare il Vangelo i “Natanaele” dei nostri giorni. Dove trovarli? Che cosa è importante per loro? Come condurli, a partire dai valori in cui essi credono, ad accettare anche i nostri valori?

Dove sono oggi i giovani Natanaele e le loro sorelle? Essi vivono in un mondo di musica popolare. Per essi, almeno in Inghilterra, è importante il clubbing. Milioni di giovani si riuniscono insieme ogni settimana per danzare e cantare. Un adolescente diceva: «Io penso che per noi più giovani che non abbiamo grande interesse per la religione cattolica, c’è qualcos’altro a cui attaccarsi. Per la maggioranza di noi, è il clubbing. È qui dove si ritrovano “milioni di amici in un solo locale”.

Io sono troppo anziano per andare al clubbing, ma come può la Chiesa essere presente in questo ambiente? Dobbiamo andare là dove i giovani si ritrovano nell’Internet, nelle loro chat rooms2 (spazi dove chiacchierare insieme)e nei blogs.3 Essi distinguono tra “digitali nativi” per i quali la rete è la loro casa, e gli “digitali immigranti”, come me, che fanno solo qualche visita occasionale. Dobbiamo essere presenti dove essi si riuniscono per lo sport. I domenicani hanno fondato la Juventus e il Newcastle United e personalmente mi ha fatto piacere di vedere i gesuiti alla maratona di Londra. Congratulazioni all’Italia per aver vinto la coppa del mondo e, per la Francia, la mia simpatia. Ma dov’era la Chiesa durante questo torneo?

 

ENTRARE

NEL LORO MONDO

 

Trovare Natanaele vuol dire entrare nel suo mondo. Significa abbandonare il nostro territorio sicuro per andare in un luogo di cui non abbiamo il controllo e che forse ha dei valori che non condividiamo. Come afferma Roger Schroeder, vuol dire “entrare nel giardino di un altro”, essere ospiti in casa sua. I nostri fratelli e le nostre sorelle cattolici potrebbero avere il sospetto di accostare persone ambigue. Il padre Ricardo Bailey, un sacerdote di 32 anni di Atlanta, in Georgia, partecipa a uno show radiofonico popolare. Egli si serve del linguaggio della strada, il linguaggio della musica hard core e hip hop. Io non capisco una sola delle parole che dice, ma migliaia di Natanaele invece le capiscono. Alcuni hanno osservato che lavorava in una stazione radio che non si preoccupa dei valori cattolici. È conosciuto come padre crunk (contrazione delle parole crazy – matto, e drunk, ubriaco). Ma Gesù non è forse stato trattato da mangione e beone? Noi dovremmo essere così appassionati nella nostra ricerca da rischiare di essere mal compresi.

 

La prima reazione di Natanaele è di rifiutare Gesù. “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?” Egli giunge a riconoscere Gesù solo perché Gesù lo riconosce: “Ecco davvero un israelita in cui non c’è falsità”. “Io ti ho visto quando eri sotto il fico”. Incontrare Gesù vuol dire incontrare qualcuno che già ci riconosce. Egli riconosce Zaccheo su un sicomoro. Nel giardino, riconosce Maria Maddalena la quale a sua volta può riconoscerlo: “Maria”; “Rabbuni”.

L’evangelizzazione comincia con il riconoscere coloro a cui ci rivolgiamo. Il risentimento nei riguardi della chiesa cattolica non è, io credo, un rifiuto dei valori cattolici. È il disagio di sentirsi invisibili. Lo psicologo e filosofo americano William James ha scritto di non poter immaginare un castigo più infermale, se ciò fosse fisicamente possibile, di quello di sentirsi trascurati nella società e del tutto ignorati dagli altri. Se nessuno si voltasse quando si entra, se nessuno rispondesse quando parliamo o non prestasse alcuna attenzione a quello che facciamo, ma ci ignorasse e agisse come se non esistessimo, saremmo ben presto presi da una specie di rabbia e affiorerebbe in noi un’impotente disperazione in confronto della quale la tortura fisica più crudele ci sembrerebbe un sollievo. Molte persone, in seno alla Chiesa e fuori di essa, soffrono di questa specie di invisibilità: donne, minoranze etniche, poveri, omosessuali.

Cosa può significare per noi riconoscere coloro ai quali portiamo il Vangelo? Nella sua enciclica Deus caritas est, Benedetto XVI scrive che «se io vedo con gli occhi di Cristo, posso dare all’altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno» (18). Questo sguardo d’amore deve riempire di gioia le persone, cominciando col riconoscere l’identità che esse rivendicano. Solo allora possiamo invitarle a scoprire un’identità più profonda nel Cristo. Solo perché Gesù ha guardato il giovane ricco e l’ha amato così com’era (Mc 10,21), egli ha potuto invitarlo a farsi povero e a seguirlo. Così, l’annuncio della buona Novella ai giovani comincia con il riempirli di gioia, attirandoli poi nella vita del Figlio nel quale il Padre si è compiaciuto: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Mc 1,11).

 

LA LORO STRANA

IDENTITÀ

 

I giovani costruiscono la loro identità essenzialmente in due maniere: attraverso gli acquisti e le relazioni. I vestiti che indossano, la marca di fabbrica dei loro jeans, il piercing del corpo, il taglio dei capelli, tutto questo proclama: «sono io». David Lyon ha scritto che «l’immagine e lo stile sono attualmente centrali nel determinare l’identità. Le scarpe Nike, i jeans Levi, la Coca-Cola, questi ed altri, sono prodotti che contribuiscono a dare forma a ciò che uno è. È tutt’altra cosa che legare la propria identità al lavoro o all’impiego… questo innalza la capacità di fare acquisti a livello di virtù. Allo stesso modo, è probabile che la cerchia sociale, il gruppo dei compagni condividano i modelli di consumo, più di ogni altra cosa. I loro genitori trovavano la propria identità nell’impiego, in quanto produttori. I loro figli scelgono ciò che vogliono essere, in quanto consumatori. Il consumismo promette una specie di redenzione. Ciò che uno compera indica il tipo di persona che vorrebbe essere.

La seconda maniera di rivendicare la loro identità è costituita dalla cerchia degli amici e dalla famiglia. Si sente spesso dire che i giovani sono molto individualisti e hanno perso del tutto il senso della comunità. Un libro recente Making sense of Generation Y, (Capire la generazione Y) mette in questione questa idea. La generazione Y è composta di giovani che attualmente si trovano tra i 15 e i 25 anni, ma le loro idee sono ampiamente condivise dal gruppo tra i 10 e i 30 anni. Il libro sostiene che, per questi giovani, l’amicizia e la famiglia hanno un’importanza assolutamente cruciale. Essi sono molto instabili e perciò le loro amicizie sono a volte brevi. Provengono da famiglie disfunzionali, infrante e profondamente ferite. Ma questo non impedisce loro di farsi un’idea idealizzata della famiglia, spesso lontana dalla realtà.

Gli acquisti, gli amici e la famiglia, tutto conferisce un’identità nel senso che questi elementi definiscono a chi si vuol appartenere. Se i vestiti indicano che siete punk, goth, o studenti di Oxford, è perché si trovano qui le persone con cui condividere la vita. Bisogna anzitutto amare i giovani così come si presentano, prima di amarli per qualcosa che va oltre, ossia come figli di Dio. Il nome di Natanaele significa “Dio ha donato”. Ma noi possiamo accettare questo dono che Dio ci offre nella persona di Natanaele solo se prima accettiamo il modo con cui Natanaele si dona a noi. L’aspetto con cui si presenta è quello che dobbiamo vedere, anche se, in definitiva, si tratta di una maschera che può essere rimossa.

 

LA PRIMA SFIDA

PER L’EVANGELIZZAZIONE

 

È qui che troviamo una prima grande sfida per l’evangelizzazione. Molti sono i giovani la cui identità si radica in famiglie infrante e “irregolari”. I loro genitori possono essere single, o vivere con dei partner che hanno figli da diverse persone, o in una relazione omosessuale. Riconoscere questi giovani vuol dire anche tenere conto delle loro relazioni. Essi ci dicono: «Per accettarmi, dovete accettare anche coloro che mi appartengono”. La Chiesa deve, certamente, avere a cuore di difendere il nostro modello ideale di famiglia: quello di un uomo e una donna impegnati l’uno per l’altro per sempre. Questo modello, in effetti, è l’elemento fondamentale della società umana, e le conseguenze della sua scomparsa sarebbero drammatiche. Ma come fare senza apparire di voler negare le famiglie naufragate e e infrante che sono quelle di tanti giovani? Per essi, ciò vorrebbe dire rifiutare di accettarli e di riconoscerli nelle fedeltà che definiscono ciò che sono.

Come ha mostrato il papa nel suo recente viaggio in Spagna, tutto questo richiede una immensa delicatezza e discrezione. Se lottiamo per la difesa della famiglia fino a far apparire che neghiamo tutti gli altri legami e appartenenze, certamente possiamo combattiamo per la famiglia e la fedeltà, ma saremo capiti come persone che si oppongono ad essi. Inoltre, daremmo l’impressione di voltare le spalle alla metà dei Natanaele d’Europa. Come possiamo riportarli nella comunità e attorno all’altare senza chiedere loro di mancare di lealtà nei rapporti che ad essi sono cari? Come potrebbero sentirsi a casa loro nella Chiesa se le loro case ordinarie sembrano essere negate?

L’incontro con i giovani richiede qualcosa di più del riconoscimento della loro identità. Dobbiamo capire ed entrare nelle storie che ci raccontano di se stessi e del loro mondo. La maggior parte crede in Dio, ma in un Dio che rimane in secondo piano nel risolvere i loro problemi e le loro crisi. Alcune inchieste recenti rivelano che, per gran parte del tempo, sono contenti di vivere senza riferimento a una trascendenza. La maggioranza non avverte nella propria vita questo vuoto di Dio, questa aspirazione profonda. Sono contenti di vivere nel mondo di tutti i giorni e trovano qui il senso della loro vita. I loro antenati cristiani si nutrivano di una lunga storia che porta al paradiso. I loro antecessori secolarizzati si nutrivano della lunga storia del progresso. La maggioranza si accontenta di vivere alla giornata.

Ciò non costituisce un rifiuto aggressivo della religione. Come diceva un giovane: «se la fede ti aiuta, bene, altrimenti, lasciala perdere». Può darsi che quando avranno dei figli o saranno confrontati con la malattia e la morte, non sarà più loro possibile vivere a breve termine. Allora avranno bisogno di trovare una storia che conduce a Dio. Ma la maggior parte di essi non si trova ancora in queste situazioni, ed è adesso che noi dobbiamo incontrarli. I racconti che hanno significato per la loro vita e nei films, in TV e nella musica popolare contengono certi valori essenziali. L’evangelizzazione è l’incontro del Vangelo con i valori che stanno loro a cuore, accettandoli, ma nello stesso tempo mettendoli in questione. I valori fondamentali per la loro vita sono la felicità, la libertà e l’autenticità. Come possono questi valori incontrare la libertà e la felicità di Cristo, colui la cui verità rende liberi?

 

Felicità

 

I giovani vogliono soprattutto essere felici. Ciò non sorprende. Sant’Agostino ha scritto: «Tutti vogliono essere felici. Non c’è nessuno che non sia d’accordo con me su questo prima ancora che queste parole escano dalla mia bocca». Ma la felicità che i giovani cercano è fragile e minacciata. Essi devono lottare per difenderla in un mondo in cui c’è molta violenza, dove ci sono gli abusi sessuali, la droga, la desolazione delle città e il crollo della famiglia. È una felicità che è anche un obbligo. Negli Stati Uniti, i negozianti quando uno compera qualcosa dicono Enjoy (godetela). È obbligatorio. Uno non è nemmeno libero di sentirsi infelice di tanto in tanto! Chi si sente triste, deve cercare di dissimularlo. È una cosa vergognosa. L’inchiesta sulla generazione Y conclude: «La tristezza non è facilmente riconosciuta di fronte a una felicità “realizzabile”. Per questa ragione, per i giovani la tristezza può rappresentare un forte motivo di vergogna e di solitudine». Una delle cause dell’epidemia di suicidi tra i giovani è l’imperativo insostenibile di essere felici.

La testimonianza più convincente della Buona Novella è perciò la nostra gioia. I russi hanno un’icona di Nostra Signora chiamata “Madre di Dio, gioia inattesa”. La Vergine volge uno sguardo penetrante verso coloro che le rivolgono delle preghiere. Questa dovrebbe essere la nostra inspiegabile ed enigmatica felicità. Non si tratta dell’allegria forzata di certi gruppi evangelici i quali dicono che uno deve essere felice perché Gesù lo ama. È quanto il celebre poeta irlandese Seamus Heaney chiama il “sorriso fisso sul luogo già riservato in Paradiso”. Trovo tutto questo assai deprimente. La prima predicazione del vangelo è quella di Gesù che fa festa, mangia, beve e gode della compagnia degli altri. Si dice che quando san Francesco predicò ai pesci, questi se ne andarono via felici. Come domenicano, mi domando come si fa a distinguere un pesce triste da un pesce contento!

Il seme della mia vocazione di religioso e sacerdote probabilmente è dovuta alla gioia inattesa di un benedettino, mio prozio. Era un mutilato della prima guerra mondiale. Pur avendo perso un occhio e la maggior parte delle dita, era pieno di gioia. Io scommettevo, benché fossi ancora fanciullo, che l’origine di quella gioia era Dio. Dom Notker Wolf, abate primate dei benedettini, aveva invitato alcuni monaci buddisti e shintoisti a trascorrere due settimane nell’abbazia di St. Ottilien, in Baviera. Quando fu chiesto loro che cosa li avesse maggiormente colpiti, risposero. “la gioia”. “Perché i monaci cattolici sono così gioiosi?” Ma non solo i monaci dovrebbero essere pieni di gioia. Essa non è che uno sprazzo della beatitudine per la quale siamo stati creati. È l’esuberanza di coloro che hanno bevuto il vino nuovo del Vangelo. Il vino nuovo che inebria era la metafora evangelica preferita dei primi domenicani. Ma io ho l’impressione che non apprezzassero solo la metafora!

Questa gioia sconcerta perché non si oppone alla tristezza. Non si fonda sulla esclusione o la sua negazione. Il contrario della gioia non è la tristezza, ma la durezza di cuore che esclude ogni sentimento, è il cuore di pietra. I santi più gioiosi sono anche i più tristi, come san Domenico che rideva di giorno con i suoi fratelli, ma piangeva la notte con Dio. La gioia cristiana può contenere in se stessa la tristezza perché la gioia del momento presente è la gioia di una storia che ha le dimensioni della vita di Cristo, che va dal battesimo fino alla Risurrezione, che abbraccia il Venerdì santo, come un momento in tutto un movimento.

Nella nostra cultura, c’è la tendenza a vivere solo per il momento presente. Perciò la gioia e la tristezza hanno un carattere assoluto poiché non c’è nient’altro. La nostra gioia inattesa proviene dal fatto che poniamo la nostra vita nella storia più ampia di Cristo, che abbraccia anche la tristezza. Dobbiamo naturalmente proclamare questa storia, ma questo non basta. L’autorità di questa storia è più ampia del presente e pertanto può sopportare la sua contraddizione. Questa storia è quella di Cristo il quale «in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio» (Eb 12,2).

 

Libertà

 

Le inchieste sui valori degli europei hanno ampiamente mostrato che uno dei principali valori dei giovani è la libertà. Ci sono diverse specie di libertà. C’è la libertà del consumatore, quella di acquistare ciò che desidera. In generale i giovani apprezzano il denaro non perché siano dei materialisti, in effetti non lo sono. Piuttosto, perché dà loro la libertà d’andare dove vogliono e di essere ciò che desiderano. La libertà è intesa anche come autonomia personale…

In realtà i giovani sono sempre meno liberi e sempre più controllati, sono sorvegliati dalle telecamere a circuito chiuso, registrati e persino imprigionati. Di qui la bella libertà di internet che permette di abolire le distanze, di ricreare se stessi, di essere ciò che vogliono. I navigatori di internet possono collegarsi in una chat room con della gente all’altro capo del mondo e di sconnettersi quando se ne hanno abbastanza. Se un programma della TV annoia, si può saltare su un altro canale. Ciò non è invece possibile durante una predica noiosa…

Se la Chiesa vuole annunciare il Vangelo, dobbiamo intercettare questa sete di libertà, comprenderla, accettarla e guidare le persone alla libertà più profonda di Cristo. È un compito arduo, poiché la Chiesa è generalmente percepita come un’istituzione ostile all’autonomia personale, che emana delle norme, e dice alla gente ciò che non è permesso fare. Secondo lo studio sui valori europei, i giovani si rivolgono alla Chiesa per avere una guida spirituale, ma non accettano nessuna religione che limiti la loro autonomia personale. Hanno paura di una religione che sia sinonimo di “Tu non devi…”. Questo mi fa venire in mente un domenicano che era cappellano di un reggimento polacco durante la battaglia di Montecassino nella seconda guerra mondiale. La sera prima dell’ultimo assalto, migliaia di soldati desideravano confessarsi. Cosa poteva fare? Questo prima che l’assoluzione generale fosse presa in considerazione, per non dire proibita. Egli allora invitò i soldati a mettersi con la faccia a terra in modo da non potersi vedere l’un l’altro. Quindi cominciò a ripassare la lista dei comandamenti. Coloro che avevano infranto uno di questi dovevano alzare la gamba sinistra e indicare con la destra il numero delle volte che avevano peccato!

Se vogliamo parlare ai Natanaele della nostra generazione, bisogna che sia chiaro che l’obbedienza a colui che ci invita a seguirlo rende liberi. La gente dovrebbe rimanere stupita della libertà dei discepoli di Gesù. Ciò richiede da parte nostra il coraggio di cogliere questa libertà e di mettere da parte ogni prudente timidezza, così frequente nella Chiesa. Mi ricordo di essere stato invitato da una personalità eminente del Vaticano ad avvicinarmi alla finestra del suo ufficio. Mi indicò due altre congregazioni vaticane e mi disse: «Io non sono libero di fare quello che vorrei».

 

Infine, dobbiamo incarnare la libertà inebriante di Gesù, il quale ha dato la sua vita. È una libertà che ho costatato, specialmente nei missionari, uomini e donne che si recano spesso in ambienti pericolosi, soffrono privazioni e rischiano la vita per annunciare il Vangelo. Ancora una volta si tratta di una libertà priva di significato per coloro che vivono solo il momento presente. È una libertà che anticipa il Regno, così come il Giovedì santo annuncia la domenica di Pasqua. È la libertà del santo piuttosto che quella dell’eroe. Come la gioia cristiana, essa ha la capacità di abbracciare il suo contrario.

Noi consideriamo gli eroi come persone capaci di risolvere i problemi, di compiere atti coraggiosi, di vincere ogni avversario. Ma noi dobbiamo incarnare una verità più profonda, che è quella dei santi. L’eroe è al centro della scena, e noi ci aggrappiamo alla sedia quando lo vediamo all’opera. Gli eroi sono condannati a riuscire. I santi, al contrario, non svolgono che un ruolo secondario nella scena più grande della storia di Dio. Samuel Wells, della Duke University, ha scritto che «un santo può fallire in una maniera tale che l’eroe non può permettersi, poiché il fallimento di un santo rivela il perdono e le nuove possibilità che Dio offre e che il santo non è che un personaggio di secondo piano in una storia che fondamentalmente riguarda sempre Dio».

 

Autenticità

 

Il terzo valore di cui vorrei parlare brevemente è l’autenticità. Questo valore, da una parte, è fondamentale per i giovani e, dall’altra, suscita il dubbio. Esiste un’attesa profonda che uno sia autentico in questo senso: egli deve essere vero con se stesso. Deve esprimere con sincerità le proprie convinzioni e vivere di conseguenza. Questa sincerità corrisponde all’autenticità ed è a sua volta legata alla ricerca dell’identità. Il filosofo e politogolo del Quebec Charles Taylor ha scritto: «Essere autentici verso se stessi significa essere fedeli alla propria originalità, ma questo è qualcosa che solo io posso articolare e scoprire. Articolandola, io definisco me stesso. Realizzo questa potenzialità che è propriamente mia. È la comprensione di fondo dell’ideale moderno dell’autenticità e degli obiettivi di autocompimento o di autorealizzazione in cui essa abitualmente si esprime».

D’altra parte, c’è anche una profonda mancanza di fiducia verso qualsiasi pretesa di verità assoluta. Nel mondo cibernetico, la verità è multipla. Siamo bombardati da verità incompatibili tra di loro. La rete è un vasto supermercato di opinioni in cui ciascuno sceglie ciò che sente come vero “per me”. Nel film Il Codice Da Vinci, Langdon, un professore dell’università di Harvad, afferma: «La sola cosa che importa è quello che tu credi». Se piace l’idea che Gesù era sposato ed è stato padre e marito, ebbene questo è ciò che lui è per me! La storia è irrilevante. Nella realtà virtuale, la verità è quella che tu fai. Quindi, di fronte alle pretese di verità del cristianesimo sono le persone a decidere, come si dice in inglese, se “comperarle oppure no”.

Se vogliamo rispondere a questa sete di autenticità e di scetticismo verso la verità allora la Chiesa si trova davanti a due sfide. Anzitutto, bisogna che siamo riconosciuti come persone autentiche, coerenti con le proprie convinzioni, sincere nei loro dubbi e interrogativi, testimoni la cui credibilità sta nella loro autenticità personale. Dobbiamo dire ciò che pensiamo realmente e vivere in base alle nostre convinzioni. Paolo VI diceva che i nostri contemporanei sono più disposti ad ascoltare i testimoni che i maestri, e se capita di ascoltare questi ultimi è perché essi sono dei testimoni. Se i giovani sospettano che noi nascondiamo ciò che pensiamo realmente, e diciamo ciò che ci è stato insegnato di dire, o che non viviamo in conformità con le nostre convinzioni, allora non saremo dei testimoni.

 

LA SECONDA

GRANDE SFIDA

 

La seconda sfida sta nel pretendere di possedere la verità assoluta in un mondo in cui una tale pretesa è considerata con sospetto. Questa pretesa dà l’impressione di opprimere ciò che è sentito come “la mia verità”. Come può un’istituzione qualsiasi avere il diritto di mettere in questione “la mia verità”? Ciò equivale a rifiutarmi. Inoltre, c’è il sospetto che tutte le istituzioni siano impegnate a nascondere la verità, si tratti del governo, della stampa, della polizia, e soprattutto della Chiesa.

L’enorme successo del Codice Da Vinci mostra il fascino popolare verso le teorie del complotto. Come dice uno dei personaggi del film: «E se la più grande storia mai raccontata non fosse che una menzogna?».

Al cuore della nostra evangelizzazione si trova la buona notizia che la verità è una. In un mondo che lascia campo libero a opinioni frammentarie e contraddittorie noi crediamo nell’unità della verità in Cristo. Se vogliamo essere una testimonianza credibile a questo riguardo, bisogna che siamo visti come persone che riconoscono effettivamente ciò che è vero nelle convinzioni e nelle esperienze di coloro a cui annunciamo il Vangelo. Come ha scritto mons. Pierre Claverie, vescovo di Orano: «Io non possiedo la verità, ho bisogno delle verità degli altri». Io sono un mendicante della verità. Noi dobbiamo annunciare con risolutezza il Cristo, ma essere umilmente attenti a ogni traccia di verità che scopriamo in coloro che non credono o che credono in maniera diversa. Come ha detto mons. Christopher Butler al concilio: «Ne timeamus quod veritas veritati noceat» (non abbiamo paura che la verità metta in pericolo la verità).

Se crediamo realmente nell’unità della verità, non avremo paura di riconoscere anche verità che sembrano, a prima vista, contraddire ciò che a noi sta a cuore. Non dobbiamo avere paura se scopriamo di ritenere come verità cose che sembrano in partenza incompatibili, sicuri che, alla fine, la riconciliazione sarà possibile, ma forse in una maniera che ci metteremo del tempo a scoprire. Rifiutare o disprezzare ciò che altri ritengono come verità perché questa convinzione sembra contraria all’insegnamento della Chiesa, equivale in definitiva a disprezzare colui in cui si trova tutta la verità. Vuol dire ridurre la verità di Dio alla ristrettezza del nostro spirito.

 

Natanaele riconosce Gesù perché Gesù l’ha prima riconosciuto. Egli può proclamare: «Rabbi, tu sei il Figlio di Dio. Tu sei il Re d’Israele» perché Gesù l’aveva visto prima sotto il fico e aveva riconosciuto in lui un israelita in cui non c’era nulla di falso.

La nostra evangelizzazione si fonda su un tale riconoscimento pieno di amore. Certamente alla fine dobbiamo mettere in questione l’identità e i valori delle persone a cui a cui ci rivolgiamo, ma unicamente perché le abbiamo prima riconosciute e abbiamo amato coloro che coltivano questi valori. Ma non ci riusciremo se prima non si vedrà che noi stessi viviamo realmente i valori che proclamiamo. La gente deve percepire in noi una felicità che li interpella, una libertà che li seduce e un’autenticità che è ospitale verso ciò che è vero nella loro esperienza. L’evangelizzazione esige perciò un profondo rinnovamento della Chiesa: bisogna morire e rinascere, se vogliamo essere dei testimoni credibili. Possiamo spendere tutto il denaro che vogliamo nell’evangelizzazione, ma se non moriamo e rinasciamo come testimoni credibili, benché fragili, sarà uno sperpero.

Bisogna riconoscere che condividere la Buona Novella con degli estranei è sempre difficile. Il Signore risorto ha inviato gli Undici dicendo loro: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo» (Mt 28,19). Ma gli Atti degli Apostoli lasciano intravedere come essi fossero particolarmente restii nel compiere questa missione. In effetti, dopo il dramma della Pentecoste, essi si sono installati a Gerusalemme, senza intenzione di spostarsi. Ci sono volute le persecuzioni per dinamizzare la prima evangelizzazione fuori di Gerusalemme, e anche allora, gli Apostoli si sono fermati (At 8,1). È perfettamente comprensibile perché andare incontro ai pagani, voleva dire in certo senso far morire la comunità giudaica originale. Bisognava abbandonare un’identità appena acquisita, per farla diventare qualcosa di nuovo. Ogni volta che tendiamo la mano a degli estranei per presentare loro il Vangelo, dovremmo morire un po’, come i genitori devono morire alla vita che avevano quand’erano una semplice coppia. I bambini sconvolgono la vita, ed è ciò che faranno i giovani se li accogliamo. L’evangelizzazione ci porta sempre a scoprire che siamo incompleti fintanto che non abbiamo accolto l’estraneo, poiché queste persone fanno parte di ciò che siamo in Cristo.

 

È SEMPRE UN MORIRE

E UN RISORGERE

 

L’evangelizzazione, come il trasmettere la vita, è sempre fatta di gioia e di sofferenza. È un nuovo inizio e una morte a ciò che era prima. Quando i cristiani dell’impero romano si sono aperti ai barbari, c’è stata una perdita di identità da parte della Chiesa che era installata nell’ambiente romano. La Chiesa ha vissuto una crisi simile con l’arrivo degli europei nelle Americhe. Il cristianesimo dovette trascendere la cristianità. Ed è così anche oggi, in cui la Chiesa per la prima volta nella sua storia è diventata veramente globale; bisogna morire un po’ sulla strada verso il Regno.

Michael Ramsey, grande arcivescovo di Canterbury, ha detto che il conforto dello Spirito Santo non era sempre molto confortante, un po’ come una bottiglia d’acqua calda. Lo Spirito Santo ci spinge fuori dalla nostra “zona di comfort”, fuori dal nido. L’arazzo di Bayeux, che ricorda l’ultima invasione dell’Inghilterra, nel 1066, raffigura il re William che “conforta le sue truppe”. Lo fa puntando la lancia sulla schiena di un soldato per costringerlo ad avanzare. Questo a volte volte è il modo con cui lo Spirito Santo ci conforta. Una coppia di falchetti aveva costruito il nido sopra la mia finestra a Santa Sabina. Ogni anno ero distratto dalla scena dei giovani uccelli che imparavano a volare. I loro genitori li spingevano fuori dal nido, obbligandoli a prendere il volo. Era impossibile riuscire a concentrarmi vedendoli lottare contro la forza di gravità, a un metro da me. Alla stessa maniera, lo Spirito Santo ci spinge all’avventura.

Evangelizzare perciò è sempre un morire e un risorgere. È una sfida più difficile per noi oggi? Penso di sì, per due ragioni. Per la prima volta dal tempo dell’imperatore Costantino, la nostra missione in Europa si rivolge alla popolazione dei nostri paesi e delle nostre città. Gli “estranei” sono tra noi. Sta qui una delle priorità del papa attuale. Come tendere la mano in segno di riconoscimento e di accoglienza a coloro la cui vita è così diversa da quella dei loro antecessori cristiani? Soprattutto, la sfida che rappresentano i diversi modelli di relazione in cui vivono gli europei d’oggi: divorziati e risposati, genitori single che convivono con dei partner o gay. Come fare per riunirli attorno all’altare, riconoscendo i legami che sono centrali nella loro identità e avendo a cuore la loro fedeltà agli impegni assunti, e tuttavia rimanere fedeli all’ideale di famiglia senza il quale la nostra società rischierebbe di sprofondare nel caos? Ma, giungendo ad abbracciare e ad avere a cuore questi nuovi europei così come sono, non rischiamo forse di sconvolgere ciò che è parte essenziale della nostra tradizione morale? Ma se non tendiamo loro la mano in piena accoglienza, non rischiamo forse di diventare una setta introversa, una piccola città fortificata? Come mettere insieme la fedeltà all’ideale cristiano della famiglia con un’accoglienza senza equivoci di coloro la cui vita è costruita attorno ad altri impegni?

Io non conosco la risposta a questo interrogativo e tuttavia è fuor di dubbio che noi dobbiamo accogliere calorosamente e senza riserva i nuovi europei della generazione Y. Un’accoglienza del genere cambierà la Chiesa in una maniera che non possiamo prevedere. Dio ci darà il modo di armonizzare l’innovazione e la fedeltà, anche se ora non siamo del tutto in grado di immaginare come. L’amore che Dio ha verso i suoi figli ci spinge alla missione. Le nostre chiese non possono trasformarsi in asili di rifugio al riparo dalla modernità. Devono essere delle case per tutta l’umanità, con i suoi drammi. Ciò comporterà una certa morte, ma abbiamo fiducia nella promessa divina della risurrezione. Come era solito ripetere un mio confratello, il teologo Herbert McCabe: «Se ami, sarai crocifisso, ma se non ami sei già morto».

 

LA SFIDA

DELL’IMMAGINAZIONE

 

La seconda grande sfida che pone l’evangelizzazione all’ora attuale è quella dell’immaginazione. Dobbiamo captare l’immaginazione dei giovani per la nostra fede. Negli anni sessanta, uno dei Beatles, John Lennon scrisse una canzone intitolata “Imagine”: «Immagina che il cielo non esista; è facile se ci provi: niente inferno sotto di noi, solo cielo sopra di noi». L’ateismo è prosperato nel 19° e 20° secolo perché era riuscito ad afferrare l’immaginazione di un gran numero di nostri predecessori europei. L’idea di un mondo senza Dio è eccitante. Ma dopo le terribili guerre e i massacri del 20° secolo, l’ateismo ha perso la sua attrattiva sull’immaginazione. Ha condotto spesso ai campi di concentramento. Se riusciremo a trovare dei modi di condividere la fede che toccano l’immaginazione, che accendono l’animo e il cuore, allora i giovani saranno attratti verso di noi. Dobbiamo condividere un po’ di avventura della fede, ciò che G.K. Chesterton chiamava “la romanza dell’ortodossia”. Il libro di JRR Tolkien Il Signore degli anelli è un romanzo profondamente cattolico che ha fatto presa sull’immaginazione di centinaia di milioni di persone. Avere fede, vuol dire vedere tutto in maniera diversa. “Alla tua luce noi vediamo la luce”. Quali sono i canti e i poemi, la musica e i racconti che possono trasformare la nostra immaginazione? Chi sono i giovani compositori e narratori, i romanzieri e gli scenografi in grado di mostrare l’avventura della fede?

Gesù vede Natanaele sotto il fico e lo riconosce. “Ecco un vero israelita in cui non c’è falsità”. La nostra predicazione comincia dal riconoscimento dei Natanaele del nostro tempo, i quali sono anch’essi “doni di Dio”. Questo riconoscimento è lo sguardo d’amore “che essi tanto desiderano”. Esso accoglie le persone così come sono, con la loro identità e i valori che amano. Se prima non c’è l’accettazione, non ci sarà nessuna sfida. Noi li riconosciamo anche come una parte di ciò che noi stessi siamo. Senza di essi, siamo incompleti. Dobbiamo imparare a essere visti anche da loro. La loro accoglienza richiederà una morte da parte nostra, ma crediamo che Dio ci darà una nuova risurrezione, anche se ignoriamo come. L’evangelizzazione ci cambia in una maniera che non possiamo prevedere. Cosa significa questo? Non lo sappiamo, ma anche a noi Dio dice: “Venite e vedrete”.

 

Timothy Radcliffe

 

1 Il testo che qui pubblichiamo è stato leggermente abbreviato in qualche passaggio secondario per esigenze di spazio.

2 Le chat rooms sono spazi virtuali (camere) dove ritrovarsi, soprattutto via internet, per chiacchierare insieme.

3# Blog è un termine nato dalla contrazione di Web e Log, ovvero internet e diario/traccia. Un weblog, o meglio un blog, è infatti nato come un diario personale dove l’autore, o gli autori narrano in ordine cronologico avvenimenti, fatti e notizie. Da semplice diario personale si è trasformato diventando tra il 2004 ed il 2005 uno dei principali strumenti di comunicazione in rete.