ACCOMPAGNAMENTO SPIRITUALE

IN DUE  SI VEDE MEGLIO

 

Un tempo si chiamava “direzione spirituale”. Oggi si preferisce parlare di “accompagnamento spirituale”. Parlando di questo argomento, padre Piet Van Breemen, sj, in un articolo sulla rivista di spiritualità ignaziana Itaici scrive che si ha l’accompagnamento spirituale quando una persona aiuta un’altra a crescere nella fede e a essere se stessa nel compimento della volontà di Dio. Si tratta di un aiuto che uno deve accettare liberamente e destinato a durare nel tempo.1 È perciò importante che non sia l’accompagnatore spirituale a prendere le decisioni, ricalcando la vecchia figura del “direttore”, ma lasci la persona che accompagna libera di decidere da se stessa. Lo scopo comunque è sempre quello di guidare la persona verso Dio, punto imprescindibile di ogni riferimento.

Occorre precisare fin dall’inizio che non è un servizio esclusivo del sacerdote. Nel secolo scorso abbiamo avuto laici, uomini e donne, che sono stati degli accompagnatori spirituali straordinari e questa tendenza oggi va consolidandosi. In particolare sono sempre più numerose le donne che assumono questo ministero.

 

INCONTRO

ALLA VOLONTÀ DI DIO

 

Per riconoscere la volontà di Dio abbiamo delle indicazioni ben precise nella Bibbia e nell’insegnamento della Chiesa. Ma come afferma sant’Ignazio, spesso questa volontà non è così facile da trovare. La chiave di accesso tuttavia ognuno la possiede nel proprio intimo e si chiama “coscienza”. Ma trattandosi di qualcosa di molto intimo e personale, ha bisogno dell’aiuto di un altro, ossia della presenza “maieutica” (in grado di decifrare) comprensiva e amorosa di un fratello o di una sorella.

Chi cerca un accompagnatore spirituale, scrive p. Van Breemen, si aspetta “un incontro di qualità con un tu”. Si sviluppa così un rapporto in cui ambedue si sintonizzano profondamente. La capacità di stabilire questo rapporto è indispensabile perché se uno ha difficoltà a entrare in una relazione profonda con l’altro, troverà grande difficoltà anche nell’accompagnamento. L’apertura ad un altro del proprio mondo interiore non è facile; di qui la tentazione della fuga.

Non basta avere la parola facile. Le persone siffatte, osserva il padre, hanno il vantaggio di saper esprimersi bene, ma facilmente cadono nella tentazione di nascondersi dietro alle molte parole.

Più importante della facilità di parola è la capacità di osservare i movimenti interiori, senza preconcetti né giudizi. I Padri del deserto erano dei fini osservatori ed erano pratici nel prendere coscienza non solo dei loro logismoi (letteralmente, pensamenti), ma anche dei sentimenti, inclinazioni, aspirazioni, fantasie e sogni. In se stessi, questi logismoi non erano dei peccati, ma al massimo delle tentazioni che potevano indurre al peccato.

Manifestare a qualcuno i propri logismoi, a volte repressi per lungo tempo, è un compito difficile, ma anche liberante. Non siamo infatti da soli a guardarli. Contemplati insieme con un accompagnatore e accolti affettuosamente, essi perdono parte della loro forza insidiosa. Ciò esige da parte dell’accompagnatore spirituale, scrive il padre, che sia sereno e fiducioso in questa relazione umana. Deve offrire un’atmosfera di accoglienza, ma senza legare l’accompagnato a sé, e senza per questo rinunciare alla franchezza. Tutto il suo comportamento deve irraggiare una fede discreta e autentica, unita a un sapere umano, frutto di esperienza e di studio. Forse in nessun altro campo, come questo dell’accompagnamento spirituale, c’è una interrelazione così stretta tra natura e grazia.

L’accompagnatore deve cercare con tutte le forze di aprirsi a Dio con tutta la sua vita e di configurarsi a lui, in modo da cercarlo, come dice il Vangelo, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente (cf. Mt 22,37). Ha bisogno di una conoscenza solida della teologia, psicologia, spiritualità e pastorale, sia nella teoria che nella pratica. Non però come settori separati, ma bene integrati tra loro nella sua persona. In questo modo sia l’esperienza biblica della salvezza sia la competenza personale coopereranno a far sì che l’incontro sia più profondo.

 

DIO È SEMPRE

PIÙ GRANDE

 

Al centro di questo incontro è la ricerca di Dio e della sua volontà. Ma non di un Dio “altissimo” o “lontano”, bensì di un Dio che è al cuore della nostra esistenza. È un Dio che continua a sedurre anche oggi non meno che in altri tempi. Scoprirlo in mezzo a noi può diventare sorgente di nuova vita e di fecondità; ma può condurre anche allo sconcerto e all’angustia. È qui dove si rivelerà molto importante l’“incontro con un tu”, con l’accompagnatore spirituale, per trovare la via giusta.

In questo cammino Dio si manifesterà “sempre il più grande”. Per quanto grande lo immaginiamo, egli è sempre più grande. Per questo l’essere umano è sempre pellegrino, è sempre una persona in cammino. Si tratta di un cammino singolare e imprevedibile per ciascuno. Se pertanto applicassimo solo delle norme oggettive e agissimo alla luce della semplice ragione umana, potremmo sbagliarci.

 

Il primo compito dell’accompagnatore spirituale, osserva p. Van Breemen, è di ascoltare per cogliere la voce del profondo. Ascoltare vuol dire “decentralizzare”, cambiare il centro di gravità, abitare nell’altro con tutto il proprio essere. Non si tratta di applicare le proprie esperienze, ma di mettersi nei panni dell’altro. Se, per esempio, un accompagnatore dicesse: «Questo capita anche a me qualche volta», ci sarebbe il rischio di non percepire l’inconfondibile singolarità dell’esperienza dell’altro, e di mettere al centro la propria esperienza, e con essa, se stessi. Al contrario, all’accompagnatore si chiede un’attenzione disinteressata alle parole che l’accompagnato dice e a quelle che lascia intravedere tra le righe.

Ciò richiede silenzio interiore, un silenzio non di chi aspetta con impazienza di poter rispondere e di giudicare moralmente l’altro. Cosa che suppone capacità di empatia che aiuti l’altro a chiarire le esperienze che lui vede in maniera confusa e involuta. L’ideale è che l’accompagnatore spirituale, magari attraverso domande appropriate, sgomberi il cammino dell’accompagnato verso la sua sorgente interiore aiutandolo nell’accettazione e interpretazione della sue esperienze, e disporlo, possibilmente, a prendere una decisione.

L’accompagnatore deve rimanere al suo posto, umile e modesto, che non è né quello di Dio né quello dell’accompagnato; pertanto non è lui che deve prendere la decisione.

Egli deve comunque possedere l’intelligenza e la prudenza necessarie per andare all’essenziale, senza lasciarsi illudere. Santa Teresa, a partire dalla sua esperienza personale, diceva di preferire un confessore intelligente, anche se non molto pio, a uno molto pio ma poco intelligente.

L’essenziale di cui si parla consiste in un sincero rispetto della persona accompagnata e in un’accoglienza incondizionata. Si tocca qui il campo dell’amore. Il rispetto è il cuore dell’amore e l’accoglienza ne è la sua forma. L’accompagnatore deve trasmettere qualcosa dell’amore di Dio. Da parte sua, l’accompagnato non è necessario che possieda dei particolari requisiti per essere degno di questo. Nessuna mancanza, nessuna debolezza o peccato lo deve privare della piena benevolenza. Se non è accolto fino in fondo, anche nell’aspetto peggiore di sé, rimane bloccato.

Carl Gustav Jung ha parlato in termini esigenti dell’empatia necessaria per l’accompagnamento, sia per il medico come per il pastoralista: «L’empatia nasce solo attraverso una oggettività senza preconcetti… Si tratta di qualcosa di umano, qualcosa come un rispetto davanti all’avvenimento, all’uomo che soffre, all’enigma di una vita umana. L’uomo veramente religioso si comporta secondo questa regola. Sa che Dio ha creato ogni genere di cose meravigliose e incomprensibili e che, attraverso vie insondabili, cerca di raggiungere il cuore degli uomini. Per questo avverte in tutte le cose l’oscura presenza della volontà di Dio. Per “oggettività senza preconcetti” intendo questa regola. È il servizio morale del medico che non sente ripugnanza davanti alla sofferenza né alla putrefazione. Niente si può mutare di ciò che non si accetta. Condannare, non libera, ma opprime. Io non sono un amico né un compagno compassionevole di colui che condanno. Ciò non significa che non si debba mai giudicare. Ma non si deve farlo là dove si desidera e si può aiutare e migliorare».

Non si esige né approvazione né conformità, ma solo comprensione. Non si richiede, nota p. Van Breemen, di approvare o di tranquillizzare (cercare una soluzione di compromesso), ma accogliere e partecipare. All’inizio dell’accompagnamento, la sincerità dell’accoglienza incondizionata da parte dell’accompagnatore è, più o meno coscientemente, messa alla prova. Aumenta anche una certa mancanza di propensione a esprimere questo genere di cose. Per molti, confidare all’altro il proprio mondo interiore è più difficile di quanto sembri.

L’accompagnatore spirituale non può assumere tutto questo con un semplice atteggiamento professionale, né può né deve preoccuparsi di se stesso come persona. L’accompagnato deve sapere con chi ha a che fare e come sintonizzarsi con lui. Ha diritto alla sincerità. Ciò non significa che l’accompagnatore dica tutta la verità, ma che tutto ciò che dice sia vero (Ruth Cohn) e che il suo comportamento esterno corrisponda al suo criterio interiore.

 

Questa accettazione incondizionata non ci sarà tuttavia se l’accompagnatore non accetta se stesso. Ciò è più importante ancora dell’intelligenza e della prudenza. Un accompagnatore molto intelligente e prudente, a cui manchi una sufficiente accettazione di se stesso, corre il rischio di fare molto danno. La sua insufficiente autostima lo espone a forti crisi. Egli tenderà inconsciamente a creare dipendenze, cercando la gratificazione necessaria per la propria auto-affermazione. Gli costerà esporsi a un sincero incontro, senza esagerati meccanismi di difesa. In situazioni difficili, sarà incapace di accettare senza condizioni l’accompagnato, perché egli stesso non si accetta sufficientemente.

Nell’attività pastorale, osserva il padre Van Breemen, spesso il problema fondamentale sta qui: nella povera fiducia in se stessi, nell’autocomprensione negativa e nella deficiente autoaffermazione, anche quando le apparenze sembrino mostrare il contrario. Tutto ciò ha a che fare con la psicologia, ma anche con la fede. Al cuore della fede c’è l’amore che Dio ha per noi (1Gv 4,16). Da qui riceve vita il modo di sentire e qui ha il suo fondamento la gioia.

Credere significa sapere non solo con la testa, ma anche con il cuore, che Dio mi ama. Sapere ciò rende la persona umana capace di amare se stessa con la medesima disposizione, vale a dire senza riserva né dubbi. In definitiva, l’accettazione di sé è per i cristiani la conseguenza diretta dell’atto di fede. Il presupposto più importante per l’accompagnatore spirituale nel suo ministero è che la fede sia diventata sua carne e suo sangue, e che egli abbia raggiunto un alto grado di accettazione di se stesso.

Su questa base, egli sarà capace di aiutare l’altro a percepire la comunicazione di Dio nella sua vita, ad accoglierla secondo le sue forze e viverla con coerenza. Per questo la preghiera, sia dell’accompagnatore sia dell’accompagnato occupa un posto insostituibile, anche se non si può ignorare l’umano. Anzi, l’aiuto è possibile solo nel concreto umano.

L’articolo di p. Van Breemen si diffonde a questo punto nel descrivere gli ostacoli soprattutto psicologici che si possono incontrare nella relazione umana e nella relazione con Dio, e conclude affermando che «la gioia è il sigillo chiaro dell’opera di Dio. Essere collaboratori di Dio vuol dire quindi anche “contribuire alla gioia” (2 Cor 1,24). L’accompagnamento spirituale deve avvenire sul ritmo della consolazione e della gioia, poiché in questi doni si rivela colui che è il vero accompagnatore, ossia lo Spirito Santo di cui ci sforziamo di essere suoi fedeli servitori».

A.D.

1 BREEMEN P.V., “O Acompanhamento Espiritual, Hoje”, Itaici 9 (2006) 41-52.