ESERCIZIO DELL’AUTORITÀ

DIRIGENTI D’AZIENDA O SUPERIORI?

 

Il problema di vivere significativamente la consacrazione in opere sempre più complesse.

La gestione d’impresa è inconciliabile con le esigenze della vita consacrata? Andare oltre il “buon senso” nella formazione dei responsabili e avere il coraggio di cambiare e, se è il caso, anche di chiudere.

 

Essere contemplativi in azione, nella vita cristiana in generale e in quella consacrata in particolare, saper passare da una visione umana a una visione di fede, è una di quelle affermazioni che tutti i maestri di spirito non si stancano mai di ripetere. «L’essere o il non essere del religioso nel secolo XXI – ha scritto p. Carlo Palmès –, è tutto qui». Solo in questo modo sarà possibile, infatti, vedere nel religioso, senza bisogno di tante spiegazioni, un testimone del Vangelo.1

Ma come seguire Cristo, come testimoniare il Vangelo, come incarnare una autentica visione di fede quando un istituto religioso, una comunità o il singolo religioso, si trovano sempre più frequentemente alle prese con delle opere che esigono specifiche competenze professionali, gestionali ed amministrative? Quante volte, oggi, soprattutto un superiore, di fatto, pur provenendo da esperienze totalmente diverse, è chiamato dall’obbedienza a svolgere più un ruolo di dirigente d’azienda, di manager, che non di animatore di comunità. Come essere, in queste e simili situazioni, contemplativi in azione? È un problema serio. Non lo si risolve confidando con troppa disinvoltura in qualche miracolo della Provvidenza. Bisognerebbe avere il coraggio, qualche volta, di affrontare anche questi argomenti con la dovuta attenzione. È quanto ha tentato di fare, ad esempio, il salesiano don Umberto Fontana nel convegno Cism, dell’aprile 2005, sul tema del potere e dell’autorità nella vita consacrata.2

Sempre più spesso oggi tante opere in campo scolastico, educativo, sociale, sanitario, editoriale ecc. gestite dagli istituti di vita attiva sono di fatto configurate come imprese vere e proprie. Il concetto di gestione di un’impresa, osserva Fontana, differisce notevolmente dal concetto di convivenza religiosa. I fini sono totalmente diversi. Un’impresa è finalizzata alla produzione e alla organizzazione delle risorse umane, confrontandosi con il mercato e le leggi dell’economia e soprattutto con una legislazione sempre in evoluzione. Un’impresa, i cui scopi devono essere sempre misurabili, visibili, verificabili, o produce o chiude.

In una comunità religiosa, invece, il fine primario è quello della santificazione dei suoi membri, qualunque sia il loro impegno apostolico. La persona che intende consacrare la propria vita al Signore in una comunità religiosa «non ha di mira quasi mai il lavoro produttivo ma la realizzazione di sé secondo una chiamata personale nella linea del Vangelo e della evangelizzazione». Coniugare il modello tradizionale di vita consacrata con le esigenze tipiche di un’impresa è un’operazione complessa, quando non addirittura impossibile. Un superiore, oggi, oltre a essere un animatore a tempo pieno della sua comunità, nella fedeltà al Vangelo, al carisma, alla Chiesa e agli uomini del suo tempo, dovrebbe essere nello stesso tempo anche manager di opere che necessitano di competenze professionali lontanissime dai contenuti della sua formazione religiosa. «Spesso (troppo spesso!) è costretto a gestire obbedienze per un’impresa complessa senza avere cognizioni di impresa».

 

CAMBIARE

INVERSIONE DI MARCIA

 

Per poter affidare a un religioso degli incarichi che richiedono competenze reali, c’è una sola strada, quella di cambiare marcia soprattutto nella preparazione dei superiori. «Per avere superiori preparati un domani bisogna prepararli oggi». Una competenza specifica, nella società si acquisisce sulla base di una solida preparazione e sotto la guida sapiente di chi ha già percorso quella strada. Nella vita consacrata, invece, può succedere che un religioso, dall’oggi al domani, si ritrovi a dover svolgere le funzioni di dirigente senza le dovute e specifiche competenze. Quante volte negli istituti maschili clericali, per diventare superiore basta che il confratello sia sacerdote, abbia un adeguato bagaglio di nozioni filosofiche, teologiche e pastorali, una certa età e qualche anno di permanenza nell’istituto. «Sarebbe ingenuo credere e sarebbe assurdo pretendere che una persona sia adeguata a tutti i compiti che il ruolo di superiore esige».

Non è possibile nessuna ristrutturazione di opere senza un piano di sviluppo o ridimensionamento delle opere stesse, senza un piano di formazione delle persone destinate alla gestione di quelle opere, senza un piano di conoscenza delle risorse umane ed economiche disponibili. Tutto questo non solo in funzione di una gestione ottimale delle opere, ma prima ancora in funzione del rispetto delle persone coinvolte. Fra i diritti inalienabili della persona c’è anche quello di divenire e rimanere se stessi nel corso della propria crescita e nella interazione con il proprio ambiente. «La crescita psicologico-spirituale non ha per tutti lo stesso andamento, non è per tutti uguale e mantiene tempi e ritmi anche notevolmente diversi, collegati sempre alla storia personale». Questo in netto contrasto con la diffusa convinzione che una persona consacrata cronologicamente adulta, sia anche psicologicamente tale.

Un servizio con ruoli dirigenziali, amministrativi o anche semplicemente pedagogico, esige competenze specifiche. E invece, cosa succede, spesso, nella direzione di un’opera che comporta interfaccia pubblico-privato, nel campo delle consulenze psicologiche con persone in difficoltà, nella pianificazione di strutture formative o assistenziali, nella partecipazione a progetti con finanziamenti pubblici? Si procede ancora “alla buona”. Chi ha iniziato la vita religiosa ed è vissuto a lungo in un certo modo,«non riesce a cambiare solo perché riceve l’obbedienza».

Ad una certa età anche il religioso obbediente non può, tutto a un tratto, quasi automaticamente, trasformarsi in un’altra persona. Il problema sussiste, per la verità, non solo quando si è investiti della responsabilità gestionale di un’opera-impresa. Che dire, infatti, di un confratello, che, solo per il fatto di essere sacerdote, diventa parroco senza un adeguato tirocinio di preparazione teologico-spirituale, liturgico-pastorale, giuridico-amministrativa? Che dire, ancora, di un confratello insegnante che si improvvisa operatore sociale, di un confratello che solo per il fatto di aver sempre fatto bene diventa automaticamente anche superiore di unI’opera che esige invece competenze del tutto particolari? «I tempi di un cambiamento interiore sono lunghi e il percorso del cambiamento è sempre travagliato, costellato da sintomi di disagio e da ansietà verso il futuro».

Sono molte le opere attualmente gestite da religiosi di vita attiva che se analizzate secondo i principi e le leggi dell’economia e dell’organizzazione, risultano pressoché ingovernabili. Si tratta spesso di opere esageratamente complesse, tremendamente povere di risorse, con finalità troppo vaste e generiche, caricate sulle spalle di persone troppo anziane, a volte ben oltre l’età pensionabile. Sarebbe interessante approfondire quanto Fontana dice a proposito dei non pochi gloriosi e ormai secolari ordini religiosi che «sono già passati per queste esperienze e hanno operato una distinzione chiara tra vita fraterna e lavoro apostolico». A suo dire questi ordini oggi «difficilmente accettano compiti nuovi che vanno strutturati secondo leggi sociali sempre più complicate e quasi mai fanno affidamento su laici stipendiati per tenere a galla le opere».

Penso che abbia sicuramente ragione quando afferma che negli istituti di vita attiva attuali, molto spesso, la distinzione tra convivenza fraterna e attività professionale non esiste per nulla. Ma a questo riguardo, potremmo spingerci oltre e chiederci se è un problema della comunità o non piuttosto del singolo religioso che spesso e volentieri vede nel suo impegno professionale un alibi per il disimpegno nel campo della vita consacrata. «Sembra addirittura, osserva Fontana quasi rispondendo a questa domanda, che molti religiosi siano identificati più nell’attività che svolgono che non nella chiamata-consacrazione, a scapito della linea di crescita personale e a scapito della vita fraterna».

È certo, in tutti i modi, che anche nella vita consacrata la persona non può dare più di quello che le sue forze comportano. Ma allora bisognerebbe, anche, che i superiori comprendessero il pericolo di vivere (o far vivere i religiosi) nello stress del dovere legato al lavoro. Potrebbe succedere, infatti, che sia proprio questo lavoro a spegnere «la gioia della consacrazione e della vita comunitaria, percepita spesso come alternativa al lavoro apostolico».

 

COMUNITÀ VIVE

NON “MUSEI DEI FONDATORI”

 

Non solo nella congregazione salesiana, ma anche in altri istituti di vita attiva, «spesso

un’opera sola accumula attività plurime e disparate, svolte, da pochi confratelli». Come è possibile affidare a confratelli spesso non più giovani un’opera in cui confluiscono attività diverse come una parrocchia, un oratorio, scuole di vario genere, laboratori veri e propri, spazi per l’accoglienza e l’assistenza a svantaggiati, insegnamenti diversificati a tutti i livelli, fino al punto da caricare, a volte, sulla stessa comunità la responsabilità per la formazione dei propri candidati alla vita consacrata? La bacchetta magica per creare risorse umane o anche solo i soldi per assumere e stipendiare dei laici professionalmente qualificati e anche sintonizzati sul carisma di un determinato istituto, non l’ha ancora inventata nessuno. «Il buon senso indurrebbe a pensare che opere simili, quando vanno in crisi per mancanza di risorse economiche o per invecchiamento delle persone, non abbiano più la base sufficiente per riprendersi e vivere». Come può, infatti, la sola obbedienza trovare persone in grado di gestire opere così complesse, al limite a volte della ingestibilità vera e propria? Semplificare coraggiosamente queste strutture ed enumerare con molta sincerità le risorse umane ed economiche disponibili rimane, in molti casi, l’unica strada da percorrere.

Qualcosa dalla storia, sembra dire a questo punto Fontana, la dovremmo pur apprendere. L’Italia, osserva, è piena di antichi conventi, molti dei quali, un tempo, erano fiorenti per la loro attività e per le loro ricchezze artistiche. Non pochi di questi conventi avendo «perso la sfida con le trasformazioni sociali dei tempi» sono diventati «monumenti storici» e hanno finito con l’ospitare via via scuole, ospedali, università, musei, biblioteche ecc. Ma ciò che più conta e su cui varrebbe la pena soffermarsi è che molti fattori che hanno portato più o meno repentinamente alla morte queste istituzioni «sono forse, ancora, gli stessi che influenzano la nostra società».

Da qui, allora, una triplice deduzione a cui non è possibile sottrarsi. Anzitutto, sempre più spesso abbiamo a che fare con strutture invecchiate che necessitano di indilazionabili interventi di adeguamento e di aggiornamento alle leggi di sicurezza. Ma tutto questo non si può affrontare senza ingenti mezzi economici. Insieme all’invecchiamento delle strutture c’è anche quello delle persone. Data la contestuale e cronica mancanza di vocazioni, come è possibile, allora, progettare qualche cosa di «nuovo» sul piano della continuazione storica del proprio carisma di fondazione? Infine, non si può ignorare il fatto che a causa dell’evoluzione dei tempi, tanti istituti religiosi sono stati costretti a cambiare le finalità iniziali per cui molte opere erano sorte. Il voler rimanere sul campo con dignità, oggi comporterebbe sforzi troppo gravosi, se non addirittura impossibili.

 

Prima, comunque, di impegnarsi nell’assistenza dei poveri, nell’aiuto a chi è in difficoltà, nell’accoglienza degli stranieri, nell’assistenza agli anziani, nell’alfabetizzazione o nell’istruzione della gioventù disagiata, si dovrebbe anche sapere che non sempre queste opere «sono richieste e sono possibili ai religiosi». La legislazione statale in tutti questi settori in cui si richiedono “ruoli lavorativi giustamente rimunerati” insieme ad una trasparenza delle assunzioni, è oggi talmente complessa ed esigente che difficilmente troverebbe religiosi disposti e preparati a gestirle.

Magari attingendo al proprio carisma, si impongono oggi nuovi approcci ai bisogni attuali della Chiesa, insieme ad un deciso cambio di mentalità. Tante opere dei religiosi non più adeguate ai tempi mancano troppo spesso di risorse vitali e sono, purtroppo, «destinate a chiudere i battenti o a trasformarsi ...in musei dei Fondatori». Con quale senso di responsabilità allora si possono sacrificare confratelli ancora validi in opere destinate a morire? Prima di affidare a certi confratelli la gestione di opere complesse si dovrebbe quanto meno procedere ad un ripensamento dell’opera stessa, ad un discernimento da parte della comunità locale e provinciale. È una strada molto impegnativa. «Se non fosse percorribile, conclude molto lapidariamente Fontana, significherebbe che la vita consacrata, così come è concepita nelle strutture di vita attiva oggi, non è più vivibile nella società attuale».

 

A. A.

 

1 Cf. Testimoni 16 (2006) 22.

2 NAVA P.L., (a cura), Servire la libertà nella sequela di Cristo, Il Calamo, Roma 2006; cf. Testimoni 16 (2006).