P. MARTINEZ AL
CAPITOLO GENERALE DEI PASSIONISTI
UNA SPIRITUALITA’ PER LA RISTRUTTURAZIONE
Senza
spiritualità, nessuna ristrutturazione. Occorrono cambiamenti a livello
istituzionale, ma anche a livello personale. Inutili certi “esercizi di
sopravvivenza”. Ma cambiare perché convinti, non perché costretti. Non bastano
i documenti scritti.
«Non credo d’aver nulla da aggiungere a quanto
già sapete o su cui non abbiate già seriamente riflettuto». Con queste parole
il domenicano p. Felicísimo Martinez ha iniziato il suo lungo intervento ai
padri capitolari dei Passionisti, riuniti nell’ottobre scorso, per il loro 45°
capitolo generale sul tema della ristrutturazione. Proprio perché sulla VR
ormai è già stato detto tutto, non è più possibile, però, eludere domande
dirette, sincere e personali. «Che cosa siamo disposti a fare per
“ristrutturare” la congregazione? In che cosa siamo disposti a cambiare?».
Come vedremo, il relatore è rimasto molto legato
alla realtà dei fatti. Pur non sottovalutando le tante critiche mosse oggi alla
VR, ha inteso pronunciare soprattutto parole di incoraggiamento, cercando di
coniugare la sincerità da parte sua e la possibilità di un qualche aiuto per
coloro che lo ascoltavano.
IL CASO SERIO
DELLA SPIRITUALITÀ
Per essere più efficace ha cercato di articolare
e sintetizzare tutto il discorso in una serie di convinzioni, la prima delle
quali riguarda la spiritualità, un problema che va preso molto sul serio. «Se
il problema di fondo della vita religiosa è oggi un problema di spiritualità,
allora abbiamo bisogno anche di una spiritualità per il cambiamento, di una
spiritualità per la ristrutturazione». Diversamente, pur continuando a fare
tante cose e illudendosi di cambiare tutto, potrebbe anche non succedere nulla.
Senza una prioritaria e fondamentale esperienza di Dio, si può essere
tradizionalisti oppure progressisti, rimanendo però, in tutti e due i casi,
intransigenti e intolleranti.
Per affrontare il cambiamento serve una certa
audacia. «Il volontarismo, il semplice proposito di cambiare, le buone
intenzioni… sono tutte destinate al fallimento». Quante frustrazioni sono nate
da falliti tentativi di ristrutturazione. E questo è successo tutte le volte
che si è agito non per la volontà dichiarata di cambiare, ma solo perché
costretti dalle circostanze a farlo. Gli aiuti dei sociologi come quelli dei
mistici, anche in questo campo, possono essere utilissimi, soprattutto quando
si devono muovere i primi passi del cambiamento. Ma la ristrutturazione di un
istituto religioso avrà successo a una sola e prioritaria condizione, quella di
saperla affrontare «con molta fede, con molta speranza, con molto amore, vale a
dire nella pienezza delle tre virtù teologali».
La VR – è questa la seconda convinzione di p.
Martinez – sta oggi attraversando un momento molto critico. Non si tratta di
essere catastrofici o apocalittici, quanto piuttosto di «guardare con realismo
e lucidità i cambiamenti culturali e sociali in atto, compresi anche alcuni
cambiamenti ecclesiali». Sono cambiamenti che «interpellano radicalmente i
modelli esistenti della vita religiosa», fino al punto da dichiararli ormai
definitivamente superati. Da qui, allora, l’esigenza di nuovi modelli, in grado
di aiutare i religiosi a «riscoprire la bellezza del Vangelo». Diversamente
cadrebbe ogni fondata speranza di ri-evangelizzazione del mondo attuale.
Oggi, ad esempio, sono sempre più messi in
discussione alcuni fondamenti classici della VR, come ad esempio, i tre voti.
Così, mentre la sessualità è considerata un valore positivo e non un “nemico”
della vocazione umana, la povertà è vista, invece, come una disgrazia e non
come un ideale evangelico. L’obbedienza, dal canto suo, deve fare i conti con
l’autonomia della persona intesa sempre più come un ideale e un valore
irrinunciabile. Di fronte a questi cambiamenti si impongono alcune domande:
«Cosa significano i voti oggi? Che senso hanno? Possono continuare ad avere un
senso anche nella cultura moderna e postmoderna?». Mentre il mondo si sta
sempre più globalizzando, i religiosi non corrono, forse, il rischio di
diventare sempre più provinciali, “afferrandosi con i denti” alle proprie
strutture provinciali e vicariali, ai propri ristretti confini ambientali e
culturali?
IL RIMPIANTO
DEI TEMPI PASSATI
Nella VR oggi tante cose sono cambiate e stanno
cambiando molto più in fretta di quanto non si pensi, senza però essere ancora
arrivati al cuore di cambiamenti più importanti e decisivi. Si è passati da un
modello classico e disciplinato a quello liberale e postconciliare, ma anche
qui arrestandosi di fronte alle grandi sfide a cui è esposta la VR stessa.
«Siamo sempre di meno, e più anziani, eppure, continuiamo a conservare le stesse
opere». Il tempo è cambiato, «ma forse noi siamo rimasti sempre gli stessi,
senza neanche renderci conto – e questo è il peggio – dei cambiamenti
sopravvenuti».
Scarseggiano le vocazioni, eppure i religiosi
sono assolutamente incapaci di modificare il proprio modello di vita e di
rivedere e ristrutturare le proprie presenze e i propri ministeri. Si continua
a pensare al problema vocazionale come a una questione di “pesci”, “uova” e
“latticini”. Non si vede, invece, l’aspetto più grave che, insieme alla scarsità
di vocazioni, è dato dal rilevante abbandono della VR da parte di tanti
giovani. Evitando risposte troppo semplicistiche, ci si dovrebbe chiedere, con
molto realismo, il perché di un fenomeno del genere.
Una delle risposte semplicistiche, ad esempio,
con cui si tende a negare il momento critico della VR attuale, è quella data da
quanti non vedono altra alternativa, se non il ritorno ai vecchi tempi della
disciplina e dell’osservanza regolare. È inutile illudersi. «Il futuro della
vita religiosa non sta nel passato». Anche se è indispensabile riscoprire la
fedeltà al carisma delle origini, non bisogna trascurare il fatto che «non c’è
fedeltà senza attualizzazione». Basta pensare, ad esempio, agli inizi
dell’ordine domenicano. Solo 25 anni dopo la fondazione, Tommaso d’Aquino e
Alberto Magno hanno provato a consigliare ai confratelli domenicani di leggere
proprio quei libri dei pagani che, invece, erano stati proibiti da san
Domenico. E, guarda caso, lo hanno fatto animati esclusivamente dalla fedeltà al
carisma e all’ideale di Domenico: ricercare e servire la verità.
L’urgenza di certi cambiamenti è richiesta anche
dalle situazioni personali ed esistenziali di non pochi religiosi. Quante vite
sempre più connotate dalla tristezza, dallo scoraggiamento, dalla solitudine! È
in gioco la stessa “qualità” della loro esistenza umana. Non solo. Anche la
salute psichica di molti religiosi è spesso seriamente compromessa. I superiori
sanno per esperienza quanto sia difficile gestire le situazioni personali.
Nel contesto di tutte le crisi attuali della VR,
quella che riguarda la vita delle singole persone è sicuramente la più grave
per il semplice fatto che è la nostra situazione, che va affrontata come una
sfida spirituale vera e propria. Nessuno come i Passionisti, “esperti” nella
passione per Cristo e nella passione per il mondo, ha detto p. Martinez,
dovrebbe saper gestire positivamente questi momenti di crisi come un “momento
pasquale”. È importante «imparare a invecchiare», in modo tale che anche i
momenti di fragilità e di vulnerabilità possano venir letti come “segni dei
tempi” per la necessaria riattualizzazione del proprio carisma e la
ristrutturazione del proprio istituto religioso.
TROPPI DISCORSI
SULLA RISTRUTTURAZIONE
Enunciando la sua terza convinzione, p. Martinez
osserva che di fronte a questa situazione critica della VR di oggi c’è tutta
una serie di reazioni che spesso fa più male che bene. Come quando, ad esempio,
si tende a ignorare la situazione, qualificandola come “di transizione” e
aspettando ansiosamente che tornino i tempi di sempre. Ma intanto cosa succede?
«I vuoti sono sempre più ampi». Si può morire, infatti, anche semplicemente per
“inazione”, arrivando troppo tardi non solo nello stilare la diagnosi ma anche
nell’adottare la terapia giusta.
Un’altra reazione, poi, potrebbe essere quella
di imbarcarsi in una serie infinita di analisi dei problemi e di interminabili
spiegazioni. Purtroppo, questa è la tentazione di tanti capitoli, di tanti
sinodi, di tante assemblee dei religiosi. È sicuramente importante cercare
tutte le possibili spiegazioni, evitando il rischio, però, di cadere in uno
stato di frustrazione sotto il peso delle tante parole e dei tanti documenti.
«Quanti di voi, ha chiesto p. Martinez ai suoi interlocutori, non sono ormai
saturi dei troppi discorsi sulla ristrutturazione?».
Per importante che possa essere la ricerca delle
cause di un problema, non coincide necessariamente con la sua soluzione.
«Ragionare è una cosa, ma reagire è tutt’altra cosa». A questo riguardo, quanto
sarebbe importante avere nelle comunità e nei capitoli persone con un senso
pratico della vita, con un certo “fiuto”, per non perdersi in interminabili
discorsi e in proposte sempre provvisorie e mai definitive. E purtroppo, la
ristrutturazione è uno di quei casi che ha bisogno di una risposta urgente.
I problemi non si risolvono semplicemente
cercando colpevoli e capri espiatori, eludendo così le proprie responsabilità e
liberandosi di tutte le possibili frustrazioni personali e istituzionali.
Bisogna avere il coraggio di rispondere in prima persona delle responsabilità e
dei compiti che sono stati assegnati, a tutti i livelli, dal superiore
generale, al procuratore, al provinciale, a tutti i superiori maggiori e loro
consigli, ai singoli rettori di comunità. Anche quando ci si trovasse nella
necessità di cercare i colpevoli, lo si potrà fare senza mai abbandonare, però,
la presunzione di innocenza, puntando tutto e subito solo sulla cattiva
intenzione e non invece ammettendo la possibilità dell’errore e della fragilità
umana.
La colpevolizzazione preventiva non risolve
affatto i problemi. Rende più invivibile la convivenza. Ci sono degli “esercizi
di sopravvivenza”, personali e istituzionali, che non dovrebbero essere mai
trascurati. Si tratta per lo più di fatti inconsapevoli. Ma un capitolo
generale, a cosa serve se non a essere una “coscienza critica” di tutto ciò che
avviene, anche inconsapevolmente, nella vita di un istituto religioso?
Quante volte ci si ostina a riparare
materialmente le strutture, dimenticandosi delle tante, troppe opere ereditate
dal passato. Non ci si stanca mai di scrivere la propria storia e di enumerare
le glorie del passato. Non si è mai avuta tanta storia. Si continua a produrre
documenti, uno più bello dell’altro. Non si sono mai viste costituzioni così
straordinariamente ispirate come quelle postconciliari. Eppure «continuiamo a
mantenere in piedi, a tutti i costi, anche quelle opere che hanno ormai
esaurito completamente il loro ciclo vitale». Perfino un certo tipo di promozione
vocazionale fa seriamente pensare, come quando viene svolta «in maniera quasi
ossessiva e senza altro obiettivo che quello, appunto, della sopravvivenza
istituzionale».
ALLA RICERCA
DI CONSOLAZIONI SENSIBILI
Ma analoghi “esercizi di sopravvivenza” esistono
anche a livello personale, e non sono affatto meno numerosi e meno
preoccupanti. È il caso, ad esempio, di quanti, con sempre più frequenza, si
abbandonano alla tristezza, al pianto, oppure, come dice santa Teresa, vanno in
cerca di consolazioni sensibili. Questo rischio, particolarmente diffuso nelle
società del benessere, è presente anche negli ambienti della VR. Quante volte
poi ci si rifugia facilmente nell’individualismo all’insegna del “si salvi chi
può”. Oppure, ci si abbandona all’attivismo più sfrenato, legittimandolo e
chiamandolo impropriamente col nome di zelo apostolico. Peggio ancora, quando
ci si abbandona alla più assoluta “routine conventuale” o alla “noia
monastica”, cercando in qualche modo di “ammazzare il tempo”. Non sono un po’ troppi
gli hobby, «non esclusi quelli legati all’uso indiscriminato del computer e di
internet», che riempiono sempre di più la giornata di tanti religiosi?
Di fronte a tutti questi esercizi di
sopravvivenza, che cosa si può dire? La risposta è immediata: «sopravvivere non
significa vivere con dignità». E quante volte i religiosi rischiano di vivere
male, di trascorrere un’esistenza “senza qualità”, priva di ogni significato.
Se come diceva V. Frankl, il problema dell’essere umano non è il piacere ma il
senso, allora è il caso di convincersi che mentre si può vivere senza piacere,
non si può vivere senza senso. «Molti dei nostri contemporanei, e forse anche
molti dei nostri confratelli, lo sanno molto bene». Agli esercizi di
sopravvivenza si dovrebbe rispondere con gli “esercizi di sincerità” con sé
stessi. Un capitolo generale non dovrebbe mai lasciarsi incantare dalla
bellezza della parola o dalla facile retorica di certi documenti. La sua prima
preoccupazione non dovrebbe mai essere quella della propria “immagine”.
Nel momento in cui si propongono degli obiettivi
è importante essere molto chiari, cercando di affrontare i problemi senza
troppi giri di parole. E la ristrutturazione è uno di questi problemi. È
importante, però, non lasciarsi suggestionare dalla possibile retorica di una
parola come questa. Gli ostacoli sono tanti. «Non è corretto nascondere queste
difficoltà ai propri confratelli». Sono in gioco nientemeno che l’ideale
evangelico di vita e la ricerca della verità. In un capitolo non si dovrebbe mai
dire più di quello che si crede realmente o più di quanto si è decisi
seriamente a fare o, almeno, a cercare di fare. «Una maggiore sobrietà nelle
parole, nei discorsi e nei documenti non sarebbe mai fuor di luogo».
Ma più concretamente ancora, che cosa si
potrebbe fare? Si potrebbe, ad esempio, incominciare a convincersi seriamente,
a tutti i livelli, dell’urgenza della ristrutturazione. Invece di rimanere con
le mani in mano, in una specie di lenta agonia, e ben sapendo quali possono
essere le conseguenze dei ritardi nell’affrontare i problemi, «sarebbe
preferibile prendere comunque delle decisioni, anche con il rischio di
sbagliare».
QUANDO SI È POVERI
SOLO PER FORZA
La quarta convinzione di p. Martinez è ancora
tutta incentrata sui cambiamenti nella VR. «Non è bene, dice, che avvengano
solamente su pressione di circostanze e fattori esterni. Sarebbe un peccato
scoprire la povertà solo in conseguenza di una espropriazione dell’una o
l’altra delle nostre opere». Che senso avrebbe, infatti, se questi cambiamenti,
più che per volontà esplicita delle persone interessate, avvenissero in
conseguenza dei condizionamenti ambientali e culturali? Sarebbe come dire che
la VR è semplicemente il prodotto di circostanze storiche e culturali. Se
privata delle sue motivazioni evangeliche e teologiche originarie, non avrebbe
più nessun significato.
I condizionamenti storici, culturali e
ambientali esistono sicuramente, anche nei conventi. Ma proprio per questo si
parla di discernimento, di assoluta libertà nell’affrontare certi cambiamenti,
anche andando in controtendenza rispetto ai condizionamenti esterni. Sarebbe
molto triste, ad esempio, «essere poveri solo per forza». E lo sarebbe ancora
di più «se le nostre virtù fossero un prodotto della necessità contingente». A
che serve essere virtuosi ma tristi?
Già Aristotele negava il grado di virtù a una
continenza vissuta nella tristezza. Ma sarebbe ancora più triste vedersi
costretti a ristrutturare le proprie opere solo perché obbligati dalle
circostanze. «Sono personalmente convinto, osserva p. Martinez, che la vita
religiosa potrà cambiare ed evolvere nella giusta direzione, vale a dire nella
direzione del Vangelo, solamente quando potrà contare su delle solide basi
teologali, su una reale spiritualità del cambiamento. Molti cambiamenti,
infatti, potranno aver luogo solo a partire dalla fede».
Quello che manca alla VR oggi, molto spesso, è
proprio la lucidità evangelica e il coraggio nell’assumere in positivo alcuni
valori della cultura attuale, quali la democrazia, la libertà, l’autonomia, la
tolleranza. Ma ci vorrebbe altrettanto coraggio anche per opporsi decisamente
ad alcuni controvalori, come l’assolutizzazione del mercato, la competitività,
l’individualismo. Hanno perfettamente ragione quanti affermano che la ristrutturazione
«non deve mai nascere solo come risposta immediata a delle necessità
impellenti».
UNA “PORTA APERTA”
SUL FUTURO
Esplicitando la sua quinta convinzione, p.
Martinez, ancora una volta ritorna sull’urgenza di una nuova spiritualità.
Diversamente è impossibile ogni ristrutturazione, ogni cambiamento
istituzionale e personale. Cambiare o ristrutturare solo perché tutti lo fanno,
quasi si volesse rincorrere la moda o, peggio ancora, eludere la noia, è un
palese segno di instabilità e di incostanza. Il vero cambiamento «è quello che
ci mette in cammino verso la ricerca della verità». Cosa ben diversa «dal
cambiamento di comunità solo perché siamo dei disadattati o perché non
sopportiamo la convivenza con l’uno o l’altro dei nostri confratelli». Il vero
cambiamento, come si dice nei documenti capitolari dei Passionisti, è una
“porta aperta” sul futuro.
Ma dal momento che ogni cambiamento comporta
delle rinunce, senza una profonda spiritualità e delle solide basi teologiche
non si va da nessuna parte. Ed è proprio questa la ragione per cui non si può
ipotizzare nessun cambiamento istituzionale senza un preventivo cambiamento
personale, senza, cioè, un cambiamento di mentalità, di usi e di costumi di
vita, di comunità, di ministeri, di opere. I superiori lo sanno molto bene.
Quanti piani istituzionali ben concepiti, infatti, «rimangono lettera morta
solo perché manca la disponibilità a realizzarli da parte delle persone».
Tutte queste difficoltà nascono spesso da una
mancata armonizzazione tra autonomia della persona, discernimento comunitario
ed esigenze della missione. Ha perfettamente ragione il superiore generale dei
Passionisti quando, enunciando il programma della ristrutturazione, afferma che
«non si forzeranno le cose, tutto sarà gestito con rispetto e amore». Mai come
in questi momenti è necessario porre la congregazione in stato di dialogo e
discernimento. Nello stesso tempo, però, vanno ripensati seriamente il
significato dell’obbedienza e il ruolo dell’autorità, tentando di armonizzare
l’esercizio dell’autorità con la libertà solidale. Se l’unico criterio di
attuazione fosse una totale “autonomia personale”, tanto varrebbe chiudere
subito il capitolo e rinunciare a ogni tentativo di ristrutturazione.
È preoccupante un certo modo di pensare sempre più
diffuso nelle comunità religiose, come quello di certi superiori che lasciano
le persone che si sentono a loro agio dove sono, semplicemente perché si
sentono a loro agio. «Ma sappiamo veramente che cos’è la felicità in genere e
la nostra personale felicità in particolare?». Non si dovrebbe lasciare nulla
di intentato affinché «i cambiamenti non siano mai ispirati da una fuga dalla
responsabilità, dalla convivenza, da noi stessi, bensì dalla ricerca di una
vita e di una missione più evangelica».
Spesso la resistenza personale ed istituzionale
al cambiamento è prodotta dalla paura, anche se a volte mascherata, della
rinuncia al proprio “provincialismo” nel modo di vivere e di pensare. Ma
proprio per il fatto che la maggior parte delle paure sono infondate, una volta
di più si comprende come il problema del cambiamento nella VR sia
sostanzialmente un “problema di fede”. Questa, infatti, nonostante i
cambiamenti, garantisce alla VR stessa il suo irrinunciabile fondamento.
RECUPERO DELL’IDENTITÀ
CARISMATICA
Nella sua sesta e ultima convinzione, p.
Martinez sintetizza i tre obiettivi o sfide centrali verso cui dovrebbero
orientarsi e tendere tutti i cambiamenti nella vita religiosa: recuperare
l’identità carismatica, recuperare la dimensione profetica della missione,
creare le condizioni istituzionali per rendere tutto questo possibile.
Nel postconcilio un po’ tutti gli istituti si
sono attivati per moltiplicare a dismisura i propri impegni apostolici e
pastorali. E spesso, anche oggi, lo sanno fare molto bene. Ma con quali
conseguenze? A tutto scapito, spesso, del significato di fondo della propria
consacrazione. Si è lodati quasi esclusivamente per il tanto lavoro che si
riesce a produrre. Eppure la storia insegna che la testimonianza della propria
consacrazione religiosa è significativa anche se non supportata da opere
impegnative sul piano apostolico.
Ora, questo la dice lunga sul futuro della VR e
sull’urgenza di un recupero della sua identità carismatica. «Non siamo un
gruppo di funzionari ecclesiali o di operatori pastorali. La nostra missione
fondamentale non è “fare” molte cose, bensì “essere” realmente vita religiosa,
tentando di esprimere in ciò che facciamo la nostra identità carismatica». La
missione fondamentale e prioritaria, pertanto, dei religiosi nel mondo attuale
e nella Chiesa, è una sola: essere testimoni del Vangelo, ricordare l’Assoluto,
indicare la trascendenza, essere “maestri di spiritualità”. Anche le comunità
religiose dovrebbero essere sempre di più “centri di spiritualità” per la Chiesa,
per la società, centri «dove giungono i ricercatori della verità e di Dio,
coloro che vogliono iniziarsi nell’esperienza di Dio, coloro che vogliono
imparare a pregare».
Ora, che cosa è rimasto di tutto ciò nella VR?
Molto poco. Una falsa secolarizzazione e l’adattamento indiscriminato ai valori
del mondo hanno l’hanno resa sempre più “insignificante”. Bisogna, allora,
imparare di nuovo ad annunciare il Vangelo in un mondo secolare, ma senza
rinunciare al Vangelo stesso. Gli uomini di oggi hanno tutto il “diritto” di
ricevere dai credenti, e quindi anche dai religiosi, risposte credibili alle
loro domande su Dio. Queste domande però presuppongono una profonda esperienza
di Dio, o quanto meno, una sincera ricerca di Dio.
Per importanti e necessarie che possano essere,
le sole dimensioni ascetiche, disciplinari e morali non bastano se prive di un
fondamento teologale. Del resto, già molti anni fa padre Tillard parlava della
sfida della “fede radicale” come del problema fondamentale della VR. Oggi,
anche nel contesto di un ritiro spirituale, non è facile chiedere a una persona
quanto tempo dedichi alla preghiera. «Ma perché una domanda del genere non si
dovrebbe avere il coraggio di porsela durante i lavori di un capitolo?».
IL PERICOLO
DEL PARROCCHIALISMO
Al recupero della dimensione carismatica segue
necessariamente anche quello della dimensione profetica della missione della
VR. Quante volte, oggi, capita di lamentarsi del fatto che la gerarchia non
permette alla VR di essere e di svolgere la sua missione profetica. Eppure
«questo non è sempre vero». C’è una domanda, però, ancora più “radicale”. Prima
ancora di lamentarsi del fatto che i vescovi strumentalizzano i religiosi per
compiti diocesani e parrocchiali di supplenza, «non ci siamo mai chiesti se per
caso non sia la vita religiosa stessa che si sente più a suo agio proprio in
questi compiti, dal momento che non sa fare nient’altro di più impegnativo, di
più creativo e forse, anche, di meno gratificante?».
Da certe indagini sociologiche si sa con certezza
che spesso i religiosi sono portati a identificarsi molto di più con i valori
del clero diocesano che non con quelli della VR. «Non ci siamo mai chiesti cosa
potrebbe succedere se, per ipotesi, un domani ci venisse tolto il presbiterato
e rimanessimo semplicemente religiosi?». Già molto tempo fa J. B. Metz aveva
denunziato in certe forme di parrocchialismo la “morte” della VR e la causa
dell’indebolimento della sequela di Cristo nella comunità cristiana. Ma quello
che si fatica maggiormente a comprendere è il fatto che il fenomeno del
parrocchialismo incide negativamente non solo sulla VR, ma anche su quella
della Chiesa e della società.
La denuncia di questo fenomeno, però, non
giustifica assolutamente, da parte dei religiosi, il loro disinteresse nei confronti
della chiesa locale e della pastorale d’insieme. Semplicemente sta a ricordare
che il contributo della VR in campo pastorale non può prescindere dalla sua
prioritaria identità carismatica e dalla sua missione profetica. Solo in questo
modo potrà efficacemente contribuire alla vita della chiesa locale, senza
diventare un suo semplice “supporto” strumentale e funzionale.
Qui, però, le congregazioni «devono stare molto
attente al proprio carisma, considerandolo criterio primario della propria
missione». I compiti di supplenza dovrebbero rimanere tali, rispondendo solo a
situazioni di emergenza ed evitando il rischio di una loro permanente
istituzionalizzazione. «Bisognerebbe chiedersi con onestà cosa cercano i fedeli
nelle nostre parrocchie o nei nostri collegi. Siamo proprio così sicuri che
insieme ai servizi pastorali da una parte e alla professionalità accademica
dall’altra, non ci chiedano anche e soprattutto una concreta proposta di vita
evangelica?».
La “sfida” principale di fronte alla quale si trova
oggi la VR obbliga a una esplicita assimilazione di tre caratteristiche
fondamentali della vita cristiana tout court: la dimensione contemplativa e
l’esperienza di Dio, il ritorno reale ed effettivo alla povertà evangelica,
l’esperienza teologale e non puramente sociologica della comunità. Si tratta di
tre grandi valori evangelici che corrispondono ad alcune grandi carenze del
mondo contemporaneo: il secolarismo, la nostalgia dell’esperienza religiosa,
l’idolatria del vitello d’oro, il bisogno di solidarietà, la tristezza della
solitudine, l’individualismo chiuso in se stesso e, infine, il bisogno di
comunicazione e di comunità. La missione profetica richiede alla VR un coraggio
speciale nel diventare un movimento anticulturale non solo all’interno della
società ma, se necessario, anche all’interno della chiesa locale, privilegiando
nelle sue scelte apostoliche le periferie, i poveri, gli esclusi.
Tutti questi problemi sono strettamente
connessi, a quello della ristrutturazione. Quando si tratta di porvi mano, è
troppo facile trincerarsi dietro un «non sappiamo, non possiamo». Le buone
intenzioni, le belle dichiarazioni, non mancano di certo in tutti i capitoli
generali, provinciali, vicariali, conventuali di tutti gli ordini e di tutte le
congregazioni religiose. Di fatto, però, a meno che non ci siano pressioni
esterne, di cambiamenti radicali nella vita religiosa se ne vedono in giro
pochi. «Anche se dispiace dirlo, questa, è la realtà dei fatti». È una sfida da
guardare seriamente in faccia. «O c’è realmente la volontà di avviare
cambiamenti anche istituzionali, scontrandosi con tutti i meccanismi di difesa
quali possono essere l’individualismo, l’imborghesimento, la ricerca del
benessere, oppure non si va da nessuna parte».
NON BASTANO
LE BUONE INTENZIONI
Non è possibile avviare nessuna ristrutturazione
senza prima risolvere i problemi strettamente legati allo stile di vita di
tanti religiosi e alla loro sopravvivenza in determinate opere. «Bisogna avere
il coraggio di ridurre le nostre opere, alleggerendone la struttura materiale o
le infrastrutture che le sostengono». I grandi edifici esigono, con sempre
maggior frequenza, pesi finanziari “insopportabili” e risorse umane oggi
impensabili. Alcune di queste opere rischiano, addirittura, di accelerare nei
religiosi che le devono gestire un processo di invecchiamento fisico e
spirituale, un ritiro prematuro, un preoccupante isolamento dalla gente. A
parte ogni reale e concreta possibilità di “contro-testimonianza”, l’urgenza di
ridurre e semplificare la struttura materiale di tante gloriose opere ereditate
dal passato si impone anche per un’altra semplicissima ragione: la gente crede
sempre meno a tante dichiarazioni di povertà fatte, spesso, solo a parole sia
da parte degli istituti religiosi che da parte della Chiesa.
Non si può continuare a caricare sulle spalle
delle persone pesi sempre più insopportabili. Quante volte i pochi religiosi
disponibili, spesso anziani, si vedono obbligati a dedicare tutte le loro
scarse energie solo per mantenere in vita certe opere, col rischio garantito di
un esaurimento fisico e spirituale. Parlando dei periodi sabbatici, un autore
americano, con un po’ di malizia, ha osservato che a volte si bruciano le
persone per poi riciclarle e bruciarle di nuovo.
L’attivismo a tutti i costi non è assolutamente
compatibile con la dimensione carismatica e profetica della VR. Quante volte,
certe opere vengono mantenute in piedi solo per una questione di immagine. Oggi
c’è una insidiosa sfida in più da fronteggiare, quella di non sacrificare la VR
ai valori del lavoro, dell’efficientismo e dell’utilitarismo sociale perseguiti
dal mondo in cui viviamo, un rischio non meno grave del dolce far nulla e del
prematuro e immotivato pensionamento.
Solo alleggerendo tutte le strutture
burocratiche su cui si regge l’organizzazione delle opere e delle varie
istituzioni, una congregazione religiosa potrà recuperare in vitalità. Un mondo
globale, internazionale e sempre più interculturale come il nostro, esige oggi
un’organizzazione decisamente meno provinciale e regionalistica. «Avete
perfettamente ragione quando dite che per realizzare la ristrutturazione
bisogna pensare la congregazione nella sua totalità e non solo nelle sue
singole province, separatamente». Un ex superiore generale dei domenicani aveva
dichiarato, una volta, di temere il momento in cui tutti i suoi confratelli,
quotidianamente impegnati in una delle tante commissioni sulla predicazione, di
fatto, poi, più nessuno poi avrebbe trovato il tempo di predicare.
L’UBICAZIONE
DELLE CASE RELIGIOSE
Anche l’ubicazione territoriale delle singole
comunità ha la sua importanza. Non sempre sono state operate scelte
evangeliche, lasciandosi condizionare, invece, da pregiudizi ideologici o
politici. Come non rendersi conto del fatto che anche una scelta di questo
genere può avere un suo determinante influsso sul recupero della propria
identità carismatica e della propria specifica missione profetica ed
evangelizzatrice? Come non riconoscere che, a volte, alcune dimensioni
essenziali della VR, quali preghiera comunitaria, riflessione teologica
condivisa, progetto apostolico comune, vita fraterna, sono state rivitalizzate
proprio da una missione apostolica accanto alla gente?
La scelta di un posto piuttosto che di un altro
può aprire significative prospettive di futuro per la VR. Ne guadagna la vita
comunitaria, ma insieme anche l’animazione vocazionale, la solidarietà con i
poveri, addirittura il recupero di una povertà più evangelica. Dal momento che
oggi la VR, a causa proprio della ristrutturazione, in molti casi si trova
nella necessità di dar vita a nuove realtà comunitarie e a nuove fondazioni,
perché non vedere in tutto questo una straordinaria occasione “favorevole”? Non
basta lavorare in difesa di ciò che esiste, come se si fosse destinati inevitabilmente
alla morte. È fin troppo evidente il fatto che molte strutture appartengono a
tempi contrassegnati da esigenze culturali e geografiche totalmente diverse da
quelle odierne.
Oggi, ad esempio, l’internazionalità e
l’interculturalità sono parole chiave anche in tutto il discorso sulla
ristrutturazione. È maturato il tempo, ormai, di cercare un nuovo modo di stare
insieme, di entrare realmente nella cultura dell’altro, una cultura che esige
per forza di cose l’arte del dialogo e della comunicazione. Ma questa
riscoperta della solidarietà comporta anche una maggiore attenzione a quelle
entità della congregazione che hanno maggior bisogno di consolidamento, in
funzione diretta della missione e non tanto delle personali esigenze dell’uno o
dell’altro religioso. «La ristrutturazione, ha detto p. Vital, è una risposta
carismatica alla missione che ci è stata affidata». Non si può ristrutturare
imponendo tutto dall’alto e prescindendo dal consenso e dalla partecipazione
dal basso. Da qui l’esigenza di porre tutta la congregazione in uno stato
dialogo e di discernimento, riflettendo sempre come congregazione e non solo
come province.
Ogni processo di ristrutturazione, tra i
Passionisti come in tutti gli altri istituti religiosi, non può assolutamente
prescindere dal rapporto sia con la chiesa locale che con i giovani.
Valorizzando al meglio la propria esperienza interculturale, sarebbe un
peccato, per un istituto religioso, non contribuire alla missione e alla
internazionalizzazione, ad esempio, della chiesa locale. Così come oggi non è
più possibile prescindere dalla presenza dei laici, soprattutto dei giovani.
Anche questo è un segno dei tempi nella Chiesa, pur rimanendo ancora molto
spesso un segno più teorico che pratico. Più che una questione di vita o di
morte per tante congregazioni, conclude p. Martinez, «è una questione di
disponibilità ad aprirsi alla novità e ad assicurare un futuro al carisma e
alla spiritualità nella Chiesa e nel mondo d’oggi».
Angelo
Arrighini