RITORNO
DEL TEMPO DI AVVENTO
AL
CENTRO IL MISTERO DI COLUI CHE VIENE
Nella celebrazione del tempo di avvento
la Chiesa, celebrando “la fine” della storia, già nel suo oggi può pregustarne
e viverne “il fine” con la disposizione della vigilanza, ripetutamente
ricordata nei testi liturgici e nelle letture bibliche.
Insieme
alla quaresima, l’avvento sembra il tempo liturgico maggiormente valorizzato
nella prassi pastorale delle comunità dopo la riforma liturgica del Vaticano
II. Sono infatti questi i due tempi liturgici che vengono generalmente
chiamati, con un linguaggio forse non molto corretto, “tempi forti”. Gran parte
delle attività pastorali vengono concentrate in avvento e in quaresima, mentre
molto meno significativi sembrano generalmente nella prassi pastorale, il tempo
di natale, il triduo pasquale e, purtroppo in modo particolare, il tempo di
pasqua. Probabilmente avvento e quaresima hanno avuto così tanto successo per
il loro carattere di preparazione al natale e alla pasqua, che li rende
particolarmente adatti per momenti di catechesi, per iniziative caritative o di
altro genere.
Tuttavia
occorre chiedersi: in una tale valorizzazione di questi due tempi liturgici è
veramente rispettato il mistero che in essi la liturgia celebra? A volte si
danno per scontate tante cose e si finisce per credere assolutamente ovvio che
ciò che facciamo sia il modo giusto per vivere i tempi liturgici. Ma spesso non
è così! A volte siamo noi, spinti da una certa spiritualità che ha poco a che
fare con la liturgia, a imporre ai tempi liturgici, o alla liturgia in genere,
dei contenuti, che essi non hanno o che non sono il centro più autentico del
mistero che in essi si celebra.
PREPARAZIONE
AL
NATALE?
Innanzitutto
occorre dire che oggi, nella liturgia romana riformata nel post-concilio,
l’avvento non è un tempo isolato. Infatti come la quaresima fa parte del ciclo
pasquale, composto anche da triduo santo e cinquantina pasquale, così anche
l’avvento fa parte del ciclo della manifestazione del Signore, composto da
avvento, natale ed epifania.
L’avvento
è il tempo dell’anno che si colloca nelle quattro domeniche che precedono la
celebrazione della natività del Signore (25 dicembre). La sua durata può
variare in base al giorno della IV settimana in cui ogni anno cade la solennità
del natale. Questo suo legame così stretto con la celebrazione del natale, come
già abbiamo accennato sopra, spesso genera una comprensione non corretta e
certamente più povera dell’avvento, che spesso viene ridotto a una semplice
preparazione al natale. Il legame con il natale c’è e anche l’aspetto della
“preparazione” alla celebrazione del natale. Ma in quale senso si può parlare
di preparazione? Può esistere una celebrazione liturgica che abbia come fine
unico quello di preparare a un’altra?
La
povertà di questa prospettiva purtroppo ha influenzato anche i testi liturgici
del Messale Romano di Paolo VI. Infatti in alcuni casi leggiamo testi di questo
genere: «O Dio, nostro Padre, la forza di questo sacramento ci liberi dal
peccato e ci prepari alle feste ormai vicine» (Post communionem, III dom.). Si
nota subito come sia debole il testo di questa orazione. Quando mai infatti il
frutto della celebrazione dell’Eucaristia può essere considerato la
“preparazione alle feste ormai vicine”? Questo vale per l’Eucaristia, ma vale
anche per l’intero tempo di avvento. Infatti nessun tempo liturgico può servire
come preparazione a un altro in senso di disposizioni morali o di conoscenza
intellettuale. La Chiesa nella celebrazione liturgica prima di tutto non si
prepara a vivere qualcosa, ma vive qualcosa. Così l’avvento! Esso non è
preparazione in vista del natale, ma è già celebrazione del mistero della
manifestazione del Signore, e quindi anche della vita cristiana, in uno dei
suoi aspetti fondamentali. È significativo che addirittura nella antica
liturgia romana, che fino al IV secolo non conosce la presenza nel calendario
liturgico di un tempo di avvento vero e proprio, nel mese di dicembre ci
fossero alcune domeniche di carattere escatologico senza un preciso legame con
la celebrazione del natale (cf. sermoni di s. Leone Magno).
IL
“MISTERO”
DELL’AVVENTO
Nella
costituzione del Vaticano II sulla liturgia Sacrosanctum concilium non si parla
dell’avvento, è invece l’Ordinamento generale dell’anno liturgico a definire
con precisione il significato di questo tempo. In questo documento, che delinea
i criteri generali della riforma dell’anno liturgico, a proposito dell’avvento
si afferma che «il tempo di avvento ha una duplice indole» (n. 39). Da una
parte si dice che l’avvento è “preparazione al natale”, ma subito si aggiunge
che esso è il tempo «attraverso cui lo spirito viene guidato all’attesa della
seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi». Queste due prospettive che caratterizzano
l’avvento non vengono trattate separatamente, bensì sono l’una strettamente
legata all’altra. Si afferma infatti che l’avvento è caratterizzato
«contemporaneamente» da entrambe e che è «attraverso» la tensione verso la
solennità che celebra la venuta del Figlio di Dio fra gli uomini, cioè il
natale, che il tempo di avvento diventa tempo di «devota e gioiosa attesa»
della venuta ultima del Signore. Non è corretto quindi parlare di due attese,
ma di un’unica attesa che la Chiesa oggi vive e che si radica sull’evento
storico della incarnazione del Verbo di Dio. In fondo si tratta del medesimo
rapporto che, da un punto di vista biblico e teologico, intercorre tra
escatologia (= discorso sulle ultime cose) e storia della salvezza.
La
tensione verso il natale diviene come lettura simbolica del tempo, che viene
così ad assumere il significato ulteriore di tempo dell’attesa escatologica,
del compimento del tempo e della storia. Non è possibile scindere queste due
attese l’una dall’altra, perché l’una non ha senso senza l’altra. Attendere la
venuta storica del Verbo sarebbe unicamente un nostalgico ricordo di una fatto
avvenuto nel passato e non più ripetibile; ugualmente slegare l’attesa
escatologica dalla venuta nella carne vorrebbe dire eliminarne le radici e
cancellare il fondamento e il linguaggio della speranza. Tutto il tempo di
avvento quindi – senza dare troppo peso alla distinzione che anche
l’Ordinamento generale (n. 42) delinea tra prima parte dell’avvento e ferie tra
il 17 e il 24 dicembre – è caratterizzato dalla celebrazione del “mistero di
colui che viene”, del Veniente. Non si tratta principalmente di preparare
nulla, ma di accogliere la presenza del futuro che nella celebrazione liturgica
si fa presente nell’oggi. Celebrare l’avvento significa scorgere nell’oggi
della vita della chiesa e del mondo il volto del Cristo che viene.
LA
“LITURGIA”
DELL’AVVENTO
Questa
prospettiva qui delineata la possiamo trovare anche nei testi liturgici del
tempo di avvento. In essi non troviamo generalmente la distinzione tra un primo
periodo caratterizzato dalla venuta escatologica e un secondo tutto incentrato
sulla venuta storica. Dall’inizio alla fine dell’avvento, sebbene con toni e
sfumature certamente differenti, l’attesa escatologica tratteggia tutto questo
tempo liturgico. Basta leggere la colletta della messa vespertina della
solennità di Natale (sera del 24 dicembre) per verificarlo. Mentre noi ci
attenderemmo unicamente il tema della prima venuta, il testo liturgico prega:
«O
Padre, che ogni anno ci fai vivere nella gioia questa vigilia del Natale,
concedi che possiamo guardare senza timore, quando verrà come giudice, il
Cristo tuo Figlio che accogliamo in festa come Redentore».
Leggendo
altri testi che la liturgia propone in questo tempo possiamo cogliere ulteriori
sfumature del mistero che la Chiesa celebra. I testi liturgici ci parlano di
una attesa che ha le sue radici nella storia (profeti, promesse messianiche,
incarnazione…), ma che si proietta nel futuro della seconda venuta di Cristo
alla fine dei tempi, compimento del tempo e della storia. Al centro di ciò che
la Chiesa celebra nell’avvento sta “il mistero di Colui che viene” (cf. Ap 1,8;
4,8). Nella celebrazione del tempo di avvento la Chiesa, celebrando “la fine”
della storia, già nel suo oggi può pregustarne e viverne “il fine” con la
disposizione della vigilanza, ripetutamente ricordata nei testi liturgici e
nelle letture bibliche.
C’è
un testo liturgico nel Messale Romano (II ed. italiana) che in modo particolare
può aiutarci a comprendere le molteplici dimensioni del “mistero dell’avvento”:
«Tu
ci hai nascosto il giorno e l’ora, in cui il Cristo tuo Figlio, Signore e
giudice della storia, apparirà sulle nubi del cielo rivestito di potenza e
splendore. In quel giorno tremendo e glorioso passerà il mondo presente e
sorgeranno cieli nuovi e terra nuova. Ora egli viene incontro a noi in ogni
uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore
la beata speranza del suo regno» (Prefazio dell’Avvento Ia).
In
questo testo vediamo come emergano insieme la dimensione escatologica e quella
storica (incarnazione) dell’avvento, a cui si aggiunge un “ora” che è il tempo
che la Chiesa vive nel presente. Questi tre riferimenti temporali non sono
accostati l’uno all’altro, ma trovano una “unitarietà celebrativa”, che prende
carne nella vita dell’assemblea che celebra. L’attesa dei credenti è radicata
nel passato, è proiettata in un futuro che dà senso al suo presente, porta
frutto nell’“oggi” del Veniente che “in ogni uomo e in ogni tempo” ci viene
incontro perché “lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata
speranza del suo regno”.
Questo
breve sguardo ai testi liturgici dell’avvento ci fa comprendere qual è il
mistero che la Chiesa celebra in questo tempo. Sia nella tradizione ebraica che
in quella cristiana la celebrazione della pasqua ha sempre avuto anche un
significato escatologico. Basta pensare, per quanto riguarda la tradizione
ebraica, al poema delle quattro notti, nel quale si afferma che la quarta notte
– che seguirà alla prima della creazione, alla seconda del sacrificio di Abramo
e alla terza della liberazione dall’Egitto – sarà la notte della venuta del
Messia che guiderà definitivamente alla salvezza e al compimento delle promesse
di YHWH. Nel cristianesimo, oltre al significato della pasqua ereditato
dall’ebraismo, troviamo tra i tanti aspetti che potremmo citare, un nome
particolare dato alla domenica, il giorno della risurrezione del Signore. I
cristiani chiamavano questo giorno l’“ottavo giorno”. La domenica era quindi
considerata il giorno che partecipa dell’eternità, uscendo dalla scansione
ordinaria del tempo, cioè della settimana di sette giorni. Se l’aspetto
escatologico, il rimando al compimento futuro, caratterizza la pasqua nella
tradizione ebraico-cristiana, questo tema, presente sia nella veglia pasquale
che nella celebrazione della domenica, è quell’aspetto del mistero pasquale,
che in modo particolare viene celebrato nel tempo di avvento.
COMINCIARE
DALLA
FINE
Dopo
aver brevemente interrogato i testi liturgici sul mistero che celebra
l’avvento, dobbiamo ora ritornare al nostro modo di viverlo. Celebrare il tempo
di avvento, lasciandosi guidare dalla liturgia e imparando da essa quale sia la
spiritualità dell’avvento, può essere un occasione particolarmente importante
per la vita delle nostra comunità, per rimettere al giusto posto
nell’esperienza cristiana l’attesa del Signore, il giudizio universale e
l’avvento del Regno… realtà che troppo spesso noi releghiamo nel futuro e
nell’al-di-là, quali «sterili capitoli finali della dogmatica cristiana», per
usare una espressione del teologo J. Moltmann. La riscoperta della centralità
della speranza e dell’“orientamento escatologico” è una delle più grandi
acquisizioni della teologia del XX secolo, che tuttavia non è ancora stata
sufficientemente recepita nella vita e nella spiritualità cristiana. Un testo
di J. B. Metz ci può aiutare a comprendere l’importanza di questa ricoperta.
Egli afferma:
«Domandiamoci
una volta in questi giorni di avvento e di natale: non agiamo forse
segretamente come se Dio fosse restato tutto alle nostre spalle, come se noi –
frutti tardivi di questo ventesimo secolo post Christum natum – potessimo
trovare Dio solamente in un facile e malinconico sguardo del nostro cuore, una
debole luce riflessa alla grotta di Betlemme, al bambino che ci era stato
donato? Abbiamo noi qualche cosa di più della visione di questo bambino negli
occhi, quando nelle nostre preghiere e nei nostri canti proclamiamo: è
l’Avvento di Dio?» (J. B. Metz).
È
facile capire quanto grande sia la portata di queste domande per la vita
cristiana che viene tutta illuminata dalla speranza e dal futuro. Il cristiano
per “dire Dio” ha bisogno di questa riscoperta. Infatti solamente guardando al
volto del “Dio della speranza” (Rm 15,13), possiamo comprendere che Dio «non lo
possiamo mai “avere”, ma soltanto attendere in una speranza attiva» (J.
Moltmann).
Questa
riscoperta della teologia contemporanea, così centrale per la vita della Chiesa
e dei credenti, può essere incontrata in ciò che la Chiesa vive nella
celebrazione dell’avvento. L’avvento – se lo lasciamo parlare senza imporre il
nostro sguardo tutto rivolto al passato e se siamo disponibili a mettere in
discussione le nostre prassi pastorali, liturgiche e catechetiche – può
divenire il luogo nel quale alla Chiesa è donato di re-imparare “il linguaggio
della speranza” e di rimettere sulle proprie labbra il grido che conclude le
Scritture ebraico-cristiane: «Vieni, o Signore Gesù!» (Ap 22,20). Celebrando
l’avvento possiamo divenire uomini «che hanno nel cuore l’urgenza della venuta
di Cristo e con gli occhi che spiano cercando negli orizzonti della propria
vita il suo volto albeggiante» (J. B. Metz).
Matteo Ferrari OSB Cam
matteoosbcam@tin.it