46a ASSEMBLEA GENERALE CISM
FORMAZIONECANTIERE APERTO
La formazione,
uno degli impegni primari del superiore maggiore in dialogo con tutti i
formatori. La “lontananza” dei religiosi dal mondo giovanile. Progetti
formativi a partire dalla soggettività dei candidati. Il manuale educativo è
ancora da inventare. Un decalogo “fuori” solo dal coro o, come qualcuno ha
osservato, anche dalla realtà?
«Prevenire è possibile, curare è difficile,
guarire è talvolta impossibile». In questo passaggio della relazione dello
psicoterapeuta Lucio Pinkus, dei Servi di Maria, è in qualche modo possibile
sintetizzare i lavori dell’assemblea generale dei superiori maggiori italiani
(Cism), svoltasi a Olbia dal 6 al 10 novembre u.s., sul tema Discernimento e
processi formativi. Una responsabilità condivisa. Il ruolo del superiore
maggiore.
I partecipanti, una sessantina di superiori
provinciali, una trentina di vicari, una quarantina di formatori, si sono
confrontati sul tema del discernimento e dei processi formativi in un particolare
e sempre più preoccupante momento di scarsità, quando non di carenza assoluta,
di candidati alla vita consacrata, che aveva il sapore quasi di una
provocazione.
Don Alberto Lorenzelli, salesiano, presidente da
un anno della Cism, ha concluso i lavori richiamando, anzitutto, la precisa
responsabilità di valutazione e di accompagnamento di percorso a cui il
superiore maggiore non può assolutamente derogare. I processi formativi,
infatti, rientrano a pieno titolo tra le esigenze e gli impegni primari di un
provinciale, chiamato a essere, per formatori e candidati, una «presenza
discreta, rassicurante, capace di far sentire al giovane confratello la
solidarietà di tutta la comunità provinciale». E, come ricorda Vita consecrata,
i formatori devono essere «persone esperte nel cammino della ricerca di Dio,
per essere in grado di accompagnare anche altri in questo itinerario». Alla
sapienza spirituale si deve aggiungere quella offerta dagli strumenti umani, in
tutte le fasi del discernimento e dell’accompagnamento vocazionale.
Un ruolo di primo piano, a questo riguardo, come
è stato più volte ribadito, è quello del direttore spirituale. Si dovrebbe, in
qualche modo, «recuperare la figura classica del direttore spirituale:
testimone credibile, uomo di esperienza, di sapiente accompagnamento, evitando
equivoci sul suo inserimento all’interno dell’équipe formativa». Ma non basta
formare una “prima volta”. Senza formazione permanente non è possibile essere
«fedeli interpreti dello spirito dei fondatori in un contesto moderno che esige
una grande duttilità intellettuale e pastorale».
DUE CONTINENTI
ALLA DERIVA
A queste conclusioni si è pervenuti dopo un
articolato e impegnativo iter assembleare aperto da una prolusione sempre del
presidente don Lorenzelli. Quella che voleva essere una semplice “apertura di
pista” ai relatori, in realtà si è manifestata come una riflessione a tutto
campo sul tema dell’assemblea. Si tratta, ha affermato, di un “cantiere
aperto”, di sentieri che attendono ancora di essere in gran parte esplorati e
lungo i quali sarà possibile avventurarsi con «il coraggio dei pionieri, di
coloro che tentano di aprire strade nuove, sostenuti dalla speranza di essere
accompagnati dallo Spirito e dalla comunità.
Alcuni di questi “pionieri” sono entrati subito
in azione. Ha incominciato Giovanni Dalpiaz, camaldolese, illustrando le
conclusioni di una ricerca tra i giovani del nord-est su Giovani e vita
religiosa. Hanno continuato due psicoterapeuti, Lucio Pinkus e Giovanni
Salonia, cappuccino, riaffermando la necessità di una piena condivisione delle
responsabilità tra équipe formativa e superiore maggiore. Ha chiuso e
movimentato, in controtendenza, la serie dei relatori Lluis Oviedo ofm,
riproponendo e contestualizzando il tema degli abbandoni, già affrontato in una
precedente assemblea dei superiori generali.1
Giovanni Dalpiaz ha esordito osservando come
dall’inchiesta sui giovani e la vita religiosa risulti con molta evidenza il
fatto che i religiosi da una parte e i giovani dall’altra costituiscono una specie
di reciproco oggetto misterioso. Si tratta spesso di “due continenti alla
deriva”, incapaci di intercettarsi a vicenda in profondità. Il problema della
mancanza di vocazioni potrebbe diventare anche una opportunità. Nonostante
tutto, infatti, la vita consacrata continua a esercitare un certo fascino,
anche se problematico, sui giovani. Una ragione in più per non dare mai per
scontate le aspettative e le motivazioni in coloro che si avvicinano alla vita
religiosa.
Sopravvivere nella speranza che qualche “bravo
giovane” venga a bussare alle porte del convento, non è la scelta più
illuminata. Prima ancora che per le vocazioni i religiosi dovrebbero pregare
per essere se stessi, convinti e autentici nella propria scelta. I giovani
fiutano al volo la consistenza o meno della solidità spirituale di un
religioso. Anche se il distacco tra religiosi e mondo giovanile è reale, anche
se quanti si orientano verso la vita consacrata oggi sono sempre più pieni di
contraddizioni e arrivano in età sempre più adulta, non tutta la partita è
persa. Anzi, «è proprio quando la partita diventa dura che i “duri”
incominciano a giocare sul serio».
PROGETTI FORMATIVI
PERSONALIZZATI
Una delle caratteristiche più interessanti dei
nostri giorni, ha affermato, da parte sua, Lucio Pinkus, nel suo intervento sui
criteri di discernimento, è «l’emergere sempre più deciso del bisogno di una
spiritualità quale elemento necessario alla propria formazione umana
integrale». È un po’ illusorio parlare di criteri oggettivi. Quello, comunque,
a cui un progetto formativo non dovrebbe mai rinunciare è la sua piena
corrispondenza al vissuto reale di una comunità. Non si può promettere ciò che
una comunità non sa dare.
Aiutare un giovane ad accettarsi per quello che
è, sia nei suoi aspetti positivi che negativi, significa non solo favorire in
lui il “distacco dalle maschere legate all’immaturità”, ma anche stimolare la
capacità di saper gestire il proprio tempo, un tempo di continui cambiamenti
epocali inediti. E non sempre si è pienamente consapevoli di quanto queste
trasformazioni plasmino la soggettività delle generazioni in crescita. Si
tratta di modalità di comunicazione e di comportamento spesso quasi del tutto
sconosciute. Basti pensare a quanto sta avvenendo con internet. In assenza di
criteri oggettivi, ci si dovrà necessariamente accontentare di ipotesi da
sottoporre a verifica costante «con un’attenta vigilanza e apertura nel
cogliere nuove emergenze e nel riformulare in modo conseguente i percorsi
formativi».
La consulenza psicologica, per importante che
possa essere, non è sempre indispensabile ed essenziale per tutti i candidati.
È importante comunque che sia assicurata stabilmente una équipe formativa. È un
azzardo far cadere tutto sulle spalle di un unico formatore. È controproducente
invocare l’aiuto della grazia prima di interrogarsi seriamente sulle specifiche
responsabilità umane sia dei formatori che dei superiori maggiori. Da soli non
è possibile affrontare situazioni difficili. Ma certi casi personali
problematici non si possono assolutamente risolvere in comunità. Un consiglio
provinciale, di tanto in tanto, dovrebbe seriamente interrogarsi sul tempo
molto limitato riservato alla spiritualità e alla formazione e su quello molto
più ampio solitamente dedicato alla soluzione dei problemi pratici ed
economici.
IL DIALOGO
DEI “TANTI” FORMATORI
Il tema dei nuovi paradigmi dell’accompagnamento
e del discernimento è stato oggetto anche dell’intervento di Giovanni Salonia.
Ciò che fa problema non sono tanti i problemi quanto piuttosto il “modo” con
cui i problemi vengono affrontati e risolti. Dal momento che oggi la
soggettività dei candidati è diventata il punto di partenza di ogni processo
formativo, devono necessariamente cambiare anche i criteri di discernimento. Se
ad esempio, a livello normativo tutto dovrebbe essere chiaro per quanto attiene
alle specifiche responsabilità delle tante persone coinvolte nella formazione,
nella concretezza dei fatti, però, non mancano incomprensioni e
sovrapposizioni.
I tanti agenti nel processo formativo sono un
problema o una ricchezza? Le tante paternità che entrano nel gioco formativo
non potrebbero facilitare nei candidati un più o meno evidente tentativo di
evasione dalle proprie responsabilità? Anche a questo proposito e soprattutto
per evitare di inseguire l’emergenza, non saranno mai troppi gli sforzi di un
continuo e sistematico incontro tra superiore maggiore e formatori. La
prevenzione, il dialogo continuo fra i tanti responsabili della formazione sono
molto più efficaci di ogni intervento di “pronto soccorso”. Per Salonia,
comunque, la grande sfida non è quella dei contenuti del processo formativo,
ma del metodo, dal momento che il metodo precede sempre i contenuti.
Chiarendo il concetto di “metodo descrittivo”,
Salonia ha osservato che tutti i giudizi nascono necessariamente da cose viste
nei candidati. Il dialogo è sempre sulla soggettività. Non c’è niente di
oggettivo nell’educazione. Non ci sono cose assolute. Il manuale educativo non
esiste. Essere formatori rientra nel DNA di una persona. Proprio per questo il
coinvolgimento di tutti nel dialogo è indispensabile. Solo ascoltandosi
reciprocamente è possibile raggiungere un accordo. Anche nel campo della
formazione, il sogno più bello non è esclusivo di nessuno. Bisogna saper
“sognare insieme”.
UN DISCORSO
FUORI DAL CORO
Chi, invece, ha sognato fuori dal coro, e lo ha
detto espressamente all’inizio del suo intervento, precisando, oltretutto, che
è uno dei pochi a pensarla in questo modo, è stato Lluis Oviedo. Con una
imperturbabile serenità, soprattutto rispondendo alle domande provocate dai
contenuti e dal tono della sua relazione, ha elencato il decalogo delle sue
convinzioni.
L’accompagnamento psicologico, ha affermato, può
essere utile, ma non più di tanto. La conferma più clamorosa? Viene
dall’Argentina, dove dodici candidati alla vita consacrata, dopo il sistematico
accompagnamento di una psicologa, hanno cambiato tutti strada, seguiti, infine,
dal loro maestro innamoratosi della psicologa stessa. Non è giusto certo
generalizzare. Ma è indubbio il fatto che, spesso, i problemi sono più di
ordine disciplinare che psicologico. Oggi, ad esempio, non si ha più il
coraggio di opporre dei “no” anche di fronte a eccessive e disinvolte
familiarità di certi religiosi con persone dell’altro sesso. Quanto sarebbe
opportuno, ad esempio, controllare e ripulire a fondo, ogni tre-quattro mesi,
certe “banche dati” dei computer e dei server sempre più frequenti anche nelle
comunità religiose!
Che dire, poi, di certe forme di comunità
composte da religiosi e religiose? Che non possono durare! Lui stesso aveva
preventivamente scoraggiato un’esperienza del genere rivelatasi ben presto
fallimentare. Vivere una consacrazione religiosa mista in spazi ristretti e
contigui richiede una fatica enorme. Ma ne vale la pena? Vale la pena fare una
scelta celibataria definitiva per poi avventurarsi in esperienze discutibili
del genere? Le dimensioni antropologiche della persona umana sono delle
costanti. Sfidare le leggi della natura umana con un po’ di spiritualità è
illusorio.
Inoltre, quando un confratello lascia
l’istituto, una volta garantiti tutti gli aiuti economici, è bene tagliare
drasticamente i ponti alle sue spalle. A chi rimane, l’esperienza di chi
abbandona, serve a ben poco. Oltretutto, in una comunità, è difficile trovare
persone in grado di accompagnare e aiutare un confratello in difficoltà. Fino a
che punto, poi, è giustificato e non controproducente l’alone di privacy e di
segretezza che di solito gli si crea attorno prima del suo abbandono? Se prima
del Concilio si eccedeva nell’isolamento, oggi si è passati con troppa
disinvoltura sul fronte opposto.
È un po’ ingenuo pensare di risolvere anche
questi problemi con le tante iniziative di formazione permanente. Oviedo ha
conosciuto dal vivo l’esperienza più sistematica e organica del genere proprio
in una provincia spagnola del suo ordine. Non è servita assolutamente a nulla.
Più che un problema di metodi, di tempi e di programmi, la formazione
permanente come ogni formazione è soprattutto un problema di contenuti.
1 Testimoni, 21/2005
Angelo
Arrighini