EVANGELIZZARELA
SOFFERENZA
La sofferenza
costituisce il caso serio dell’esistenza. Di fronte al bambino morto,
all’inerme ucciso, all’uomo torturato, a chi nasce malformato, la realtà
diventa un enigma. Occorre ripensare i discorsi cristiani su malattia,
sofferenza e morte, radicandoli nella rivelazione evangelica e nella
concretezza dell’umano sofferente.
In un contesto
culturale che si muove tra rimozione della morte e spettacolarizzazione del
macabro, va ritrovata una cultura dell’ascolto: «Educati come siamo alla
cultura dell’applauso, non sappiamo neanche dove sta di casa la cultura
dell’ascolto. Distribuiamo farmaci per contenere la depressione, ma mezz’ora di
tempo per ascoltare il silenzio del depresso non lo troviamo mai» (U.
Galimberti). In fondo si innalzano barriere perché la sofferenza non passi da
chi la vive a chi l’ascolta. Ascoltare è dare soggettività, permettere di
realizzare il proprio nome e il proprio volto. Urge insomma anche una cultura
dello sguardo, visto lo scialo di esibizione delle sofferenze e delle morti sui
mass media.
Un libro di
Luciano Manicardi può essere prezioso per questo ministero di accompagnamento
del sofferente (L’umano soffrire, Ed. Qiqajon, 2006, pp. 224, €13,00). L’idea
chiave e che l’umanità di Gesù può umanizzarci. Divenire umani per il credente
è l’opera della fede e implica l’obbedienza alla parola del Creatore che ha
detto “Facciamo l’uomo” (Gen 1,26). L’uomo è chiamato a collaborare con Dio
affinché cresca in lui quella umanità che è il vero riflesso della luce divina
nel mondo.
GUARIRE
CON LA
SOLIDARIETÀ
In primo luogo
allora viene l’annuncio della malattia come risveglio di una dimensione
spirituale che si pone sul piano del senso della vita. La malattia è
ri-centramento che passa per la paralisi di fronte alla disgrazia,
l’elaborazione del lutto, la speranza che chiama all’azione.
Illuminanti in
proposito i racconti di guarigioni operate da Gesù. Hanno una struttura
dialogica: egli non guarisce in modo magico, ma costruendo una relazione
autentica col malato, che opera in sinergia con la sua fede e preghiera. La
fede segnala poi la volontà di guarire, la collaborazione per guarire, la
preghiera, l’abbandono fiducioso, credere quando tutto sembra perduto,
l’intercessione. Elementi preziosi per un “accompagnamento del malato” come
nuovo stile nelle nostre comunità. Non si tratta di una relazione tra funzioni,
ma tra persone. Non è tanto una buona azione, quanto una buona relazione.
Si può così
entrare nella logica del “guarire con la solidarietà” secondo la parabola del
buon samaritano. Per incontrare il sofferente dobbiamo riconoscere ciò che si
oppone in noi alla solidarietà (sacerdote e levita che passano oltre)
incontrare la nostra sofferenza e averne compassione (il mezzo morto sulla
strada). Il samaritano, a differenza degli altri viandanti, fa diventare
ascolto la visione del ferito. Si lascia ferire dal ferito. Solo un io
vulnerabile può aiutare a guarire completamente colui che ha subito il male,
accompagnandolo nella elaborazione del perdono.
RIPENSARE
LA SPIRITUALITÀ
Manicardi offre
un interessante capitolo su come attraversare, dentro la sofferenza, la crisi.
La crisi è forma di iniziazione e spesso maestra di vita. L’elaborazione della
crisi consiste nel ridefinire la propria identità. Ciò contempla fasi
successive: dall’incertezza alla certezza, dall’aggressione-collera alla
trattativa, dalla depressione all’accettazione. La crisi del superamento della
metà della vita è di fatto crisi del desiderio. In essa è lo Spirito che opera
per condurre a maggiore autenticità e unità.
Infatti Dio
incontra l’uomo nel corpo e la salvezza è ottenuta da Cristo mediante la via
esistenziale dell’offerta di sé. Il corpo, libro del tempo su cui restano
incise crisi, emozioni ed esperienze, nella visione biblica è luogo in se
stesso buono (1 Cor 3,16). Da qui deve partire una rinnovata spiritualità della
sofferenza, superando deviazioni doloristiche o espiatorie.
Un luogo chiave
è il passo della Lettera ai Colossesi (1,24) normalmente tradotto così:«Sono
lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello
che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa»: così
si insinua l’idea che la passione di Cristo sia incompleta e insufficiente. In
realtà il testo dice: «completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella
mia carne, per il suo corpo, che è la Chiesa»: insufficiente è allora la nostra
partecipazione alle sofferenze di Cristo, manca cioè qualcosa all’itinerario di
vita fatto di sofferenza per l’annuncio del Vangelo. Ma c’è di più. L’amore
salva, non la sofferenza. Dunque offriamo a Dio non le sofferenze, ma il
processo d’amore che esse provocano in noi; al malato non diciamo più che è
“volontà di Dio”, perché Dio non vuole e non provoca il male. La giustizia di
Dio infatti è con-sofferenza di fronte all’oppresso, sofferenza di fronte al
fallimento dell’uomo. Dio che soffre diviene Dio che s’offre in nome del suo
amore per noi.
M.C.