LE SINTESI DEL CONVEGNO ECCLESIALE DI VERONA

AMBITI DI SPERANZA

 

La sintesi dei cinque ambiti su cui si è riflettuto durante le giornate del convegno di Verona contengono le grandi linee su cui la Chiesa italiana intende muoversi in questo prossimo decennio. Sono il risultato di una riflessione corale in cui non si può non percepire la voce dello Spirito.

 

Affettività, lavoro e festa, fragilità, tradizione e cittadinanza: su questi cinque ambiti si sono confrontati nei gruppi di lavoro i delegati presenti al IVº convegno ecclesiale della Chiesa italiana celebrato a Verona dal 16 al 20 ottobre 2006. Qui si è giocato il dato più innovativo dell’assise, che dovrebbe avere forti ricadute nei prossimi anni a livello di formazione e di progettazione pastorale. La Traccia preparatoria del convegno sottolineava infatti l’opportunità che «l’esercizio della testimonianza presti attenzione ad alcune grandi aree dell’esperienza personale e sociale. In tal modo si potrà dare forma storica alla testimonianza cristiana in luoghi di vita particolarmente sensibili o rilevanti per definire un’identità umana aperta alla speranza cristiana. Questi ambiti hanno una valenza antropologica che interpella ogni cristiano e ogni comunità ecclesiale».

E il presidente della CEI, cardinal Camillo Ruini, in sede di conclusioni ha rimarcato questo passo in avanti ecclesiale: «Benedetto XVI ha sottolineato che l’educazione della persona è questione fondamentale e decisiva, per la quale è necessario “risvegliare il coraggio delle decisioni definitive”. Per parte mia vorrei solo confermare che il nostro convegno, con la sua articolazione in cinque ambiti di esercizio della testimonianza, ognuno dei quali assai rilevante nell’esperienza umana e tutti insieme confluenti nell’unità della persona e della sua coscienza, ci ha offerto un’impostazione della vita e della pastorale della Chiesa particolarmente favorevole al lavoro educativo e formativo. Si tratta di un notevole passo in avanti rispetto all’impostazione prevalente ancora al convegno di Palermo, che a sua volta puntava sull’unità della pastorale ma era meno in grado di ricondurla all’unità della persona perché si concentrava solo sul legame, pur giusto e prezioso, tra i tre compiti o uffici della Chiesa: l’annunzio e l’insegnamento della parola di Dio, la preghiera e la liturgia, la testimonianza della carità».

 

UN ANNUNCIO

NEL QUOTIDIANO

 

Il primo ambito riguardava la vita affettiva e come superare l’emotività, la fragilità dei sentimenti che hanno origine in molte crisi della famiglia, la frammentarietà, l’incapacità soprattutto dei giovani a superare l’effimero, a dare durata ai sentimenti. Il secondo ambito riguardava il lavoro e la festa e cosa fare perché la necessaria flessibilità non si traduca in precarietà, il riposo settimanale e le feste non siano esposti a ogni tipo di alienazione e di stordimento, ma anche che lo svago serva alla crescita spirituale e umana. Il terzo atteneva alla fragilità umana: come accogliere i deboli, i nascituri, i bambini, i malati, i poveri, gli immigrati, i carcerati, gli anziani, i morenti. Il quarto ambito riguardava la tradizione, il problema della trasmissione dei contenuti teologici, morali, culturali del cristianesimo; come trasmettere ai giovani la formazione morale e intellettuale adeguata. Infine la cittadinanza: come educare a pensare globale mentre si agisce nel locale, come partecipare da cittadini del mondo alla soluzione dei problemi che affliggono l’umanità: fame, ingiustizia, emigrazione forzata, assenza di pace, degrado ambientale.

Si intuisce subito un progetto di evangelizzazione che vuole far crescere soprattutto i laici e la loro coscienza missionaria.

La vita affettiva è stata definita «banco di prova per una testimonianza credibile della speranza cristiana» da Raffaella Iafrate, docente associato di psicologia dei gruppi e di comunità all’Università cattolica del Sacro Cuore. Nell’introdurre l’ambito dell’affettività ha sottolineato come esperienze affettive sempre più vissute come esperienza esauribile qui e ora vengano confuse «con emozione, sentimento, soddisfazione effimera». In realtà, un’autentica vita affettiva umanizzante «non può che essere un’esperienza di relazione, congiunta a una dimensione etica».

«Il modo in cui ci rapportiamo al mondo attraverso il lavoro è soggetto a radicale trasformazione e anche la festa è trasformata in puro momento d’ozio, spesso vuoto e carico di noia… viene meno la relazione tra lavoro e festa come modo in cui l’uomo può vivere il tempo, volgersi al mondo, rapportarsi agli altri uomini, aprirsi a Dio»: con queste parole Adriano Fabris, docente di filosofia morale, ha invece introdotto i lavori sul tema lavoro e festa.

La fragilità è ambito da vivere come dono e responsabilità: così per Augusto Sabatini, presidente vicario del tribunale dei minori di Reggio Calabria, «gli uomini soffrono, si ammalano, muoiono: per molti anni della propria vita l’esistenza di tanti è una scommessa, esposta a rilevanti precarietà, senza sicurezze di benessere e di sopravvivenza. Molti lottano per la sopravvivenza ma anche i ricchi hanno perso la speranza nel futuro».

«Come può l’uomo del nostro tempo, più di duemila anni dopo la venuta di Gesù Cristo nella carne, raggiungere una certezza ragionevole su questo avvenimento… come è possibile verificare che, attraverso la vita della Chiesa, questa presenza mi raggiunga lungo il corso del tempo e riaccada ora, nel presente?». Sono gli interrogativi posti da Costantino Esposito, storico della filosofia all’Università di Bari, nell’aprire lo scambio sull’ambito della tradizione.

Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono i primi, ma non gli unici responsabili, di una intollerabile situazione di deficit civile in Italia: ad affermarlo è il sociologo Luca Diotallevi, introducendo i lavori sulla cittadinanza. La comunità dei fedeli è chiamata a interrogarsi sulla qualità della propria vita ecclesiale, sulla rinnovata responsabilità per la città, «una responsabilità che non autorizza alcun disegno egemonico, che non cancella la possibilità del pluralismo e soprattutto è una responsabilità che ci giudica, come un talento».

Queste relazioni introduttive non hanno imbrigliato il dibattito e, in diversi casi, hanno stimolato una vera e propria elaborazione alternativa che si è fatta sentire in sede di sintesi finali.

 

VITA

AFFETTIVA

 

I tempi in cui viviamo sono quelli che Dio ci ha donato e in quanto dono di Dio vanno vissuti nella dimensione della speranza. La speranza da testimoniare è il vangelo dell’amore. Sulla scia dell’enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est è importante rendere visibile la dimensione teologale della vita affettiva fondata sull’amore-carità. È questo fascino del divino che traspare dall’amore umano ciò di cui ha fame e sete l’uomo contemporaneo. La psicologa Iafrate è partita da questa origine per affermare che «fondare la vita affettiva su Cristo morto e risorto significa porre le premesse per una piena umanizzazione. Tale esperienza è struttura portante dell’esistenza umana ed è la modalità privilegiata attraverso cui le donne e gli uomini cercano risposta alla propria domanda di felicità e di senso».

Per quanto riguarda la riflessione sull’esperienza, i gruppi hanno sottolineato sia gli aspetti di rischio e fragilità, sia gli aspetti di risorsa e potenzialità della vita affettiva. Sul primo versante, un primo nodo riguarda la cultura dell’individualismo che rende l’affettività fragile perché, fuori dall’orizzonte etico e religioso, essa è ridotta a sentimentalismo ed edonismo. Eros e agape vanno invece posti in un dinamismo circolare. Ricorrente è inoltre l’espressione “analfabetismo affettivo” per significare lo stato di immaturità personale diffuso in particolare tra adolescenti, ma anche tra giovani o adulti, in difficoltà ad assumersi impegni e responsabilità, in particolare quando devono compiere scelte che richiamano il “per sempre”.

La condizione di immaturità affettiva emerge anche nelle stesse comunità cristiane, spesso caratterizzate da relazioni formali e che faticano a pensarsi come luoghi di relazione affettiva e di condivisione delle responsabilità e a volte anche tra quanti aspirano alla vita religiosa e al presbiterato. Uno dei volti della fragilità affettiva inoltre è il rifugiarsi nel virtuale che interessa soprattutto le nuove generazioni e che sembra presentare più rischi che possibilità di sana intesa comunicativa. «La speranza nella vita affettiva, ha continuato la relatrice, è messa alla prova anche da numerose sofferenze e dolori che vanno dalle gravi crisi o dai fallimenti delle relazioni familiari alla solitudine degli anziani, a condizioni di povertà strutturale (precarietà lavorativa, immigrazione ed emergenze) che paralizzano la progettualità affettiva. A fronte di questi aspetti problematici della vita affettiva, si registra però un profondo bisogno di relazioni autentiche e una volontà e desiderio di vivere legami e amicizie significative. C’è l’esigenza ineludibile di ritrovare il senso delle esperienze affettive che si vivono (da questo punto di vista conforta la segnalazione di esperienze di fraternità tra famiglie e anche di esperienze di fraternità tra sacerdoti e famiglie)».

In questo ambito è chiaramente risultato un principio fondamentale della nuova evangelizzazione: prima l’antropologia, poi l’etica. Ciò vale in particolare per la famiglia che è stata da molti sottolineata come luogo per eccellenza generativo di affetti: ogni suo componente impara in essa gradualmente a vivere le relazioni negli errori come nelle esperienze riuscite.

Sul piano degli interventi pastorali, è emersa innanzitutto l’importanza di un compito culturale per la Chiesa. Le è chiesto il servizio della verità, decisivo di fronte all’attacco all’identità dell’uomo che nella vita affettiva trova un punto di fragilità forte. Ci si aspetta dalla Chiesa una riflessione “alta” che non abbassi il livello e che sappia “rendere ragione” della bellezza dell’esperienza cristiana nella vita affettiva. Una proposta condivisa e prioritaria è quella di una formazione non settoriale, che sappia cogliere tutta la persona nella varietà delle sue condizioni esistenziali. Una pastorale unitaria dunque che non divida i contesti di vita.

Pare insufficiente occuparsi dei soli passaggi “consolidati” del percorso di iniziazione cristiana: occorre accompagnare la vita tutta. A questo proposito va evidenziato che in quasi tutti i gruppi sia stata sottolineata l’importanza della direzione spirituale come accompagnamento della persona. D’altra parte è stato anche rilevato che i sacerdoti sono anch’essi “figli del nostro tempo” e quindi spesso poco attrezzati a rispondere a questo difficile compito. La formazione va concepita prima di tutto come formazione di tipo antropologico e fruibile non solo da giovani, adulti e famiglie, ma destinata anche a consacrati, presbiteri e seminaristi oltre che a educatori e operatori della pastorale. Particolarmente auspicabile al proposito è una maggiore valorizzazione della presenza educativa della donna, con la sua risorsa di femminilità e di attenzione alla vita.

Si è sottolineata anche la necessità e l’urgenza che le famiglie si associno tra loro, proponendosi come testimonianza di solidarietà interna e sostegno reciproco, e diventino erogatrici di servizi per le altre famiglie in una reale attuazione del principio di sussidiarietà. La comunità ecclesiale, in particolare la parrocchia, è chiamata essa stessa a essere luogo di vita affettiva: ciò significa che essa sia poco “struttura”, ma luogo di vita, ambito aperto, comunità cristiana viva, capace di fare rete, incarnata nel territorio, in grado di ospitare e valorizzare le diversità di ruoli, vocazioni e carismi. In questo senso, sono da valorizzare tutti quei luoghi e momenti capaci di mettere stabilmente in dialogo laici, religiosi e presbiteri. Il dinamismo pastorale inoltre deve essere sempre più orientato in senso missionario, per incontrare gli uomini dove vivono, amano, soffrono e lavorano. La cura pastorale va rivolta anche alle situazioni difficili e di disordine morale, oggi così frequenti. Al proposito, ha detto la Iafrate in conclusione, «si è usata l’espressione “pastorale della vicinanza” e si è proposta la metafora della comunità cristiana come “locanda dell’accoglienza”. È importante che il linguaggio dell’annuncio esprima il calore proveniente da relazioni affettive profonde anche nella vita ecclesiale».

 

LAVORO

E FESTA

 

«Il primo aspetto che salta subito agli occhi dalla lettura dei risultati dei lavori di gruppo sull’ambito lavoro e festa è, secondo il filosofo Fabris, la loro sostanziale convergenza, sia nella consapevolezza dei problemi generali, sia nell’assunzione di ciò che oggi risulta prioritario, sia nelle proposte che vengono avanzate». Tutti i gruppi, con differenti accentuazioni, per un verso sottolineano il carattere plurale, addirittura “ambiguo”, del tema del lavoro e, dunque, la necessità di una “visione realistica” dei cambiamenti intercorsi nella società italiana; per altro verso segnalano la perdita di significato dell’esperienza della festa. Per esemplificare, i problemi riguardano, nel caso del lavoro, la sua fragilità: il lavoro che non c’è o che non è consono alla dignità della persona; il difficile rapporto tra lavoro e famiglia, la questione del lavoro femminile e delle attività svolte dalle donne in casa e fuori casa; la disoccupazione, specialmente giovanile; il divario territoriale: il lavoro che manca al sud e i lavoratori che mancano al nord; le esperienze drammatiche del lavoro nero, dello sfruttamento, la presenza della malavita organizzata, fino a vere e proprie “strutture di peccato”, da riconoscere e combattere; il lavoro come modalità decisiva di promozione della cittadinanza, ad esempio nel caso degli immigrati; la molteplicità delle forme di produzione, nella consapevolezza che oggi è sempre più necessario agire sui modelli organizzativi del fare impresa.

Analogamente sono tanti i punti nevralgici relativi alla festa. Essa è un bisogno, prima che un dovere ed è evento che perviene alla comunità; ciò nonostante s’impone oggi una sua deriva individualistica e consumistica. E così emergono nuovi luoghi di aggregazione, che non possono essere trascurati. Ecco la necessità di invertire, da un punto di vista cristiano, il rapporto tra lavoro e festa: non è soltanto il lavoro a trovare compimento nella festa come occasione di riposo, ma è soprattutto quest’ultima il giorno della gratuità e del dono che ‘risuscita’ il lavoro a servizio dell’edificazione della comunità.

Riflettendo poi su come la comunità cristiana vive oggi queste problematiche, sono emersi soprattutto tre punti. Anzitutto vi è l’esigenza di un effettivo recupero della dottrina sociale della Chiesa, come via per superare la scarsa attenzione che la comunità cristiana, nelle sue diocesi e nelle sue parrocchie, sembra dimostrare nei confronti del mondo del lavoro. In secondo luogo, questo recupero va collegato a una vera e propria voglia di uscire fuori dalle parrocchie, di produrre una pastorale più missionaria. Questo comporta un’esigenza di testimonianza cristiana in luoghi (e, magari, non-luoghi) che solitamente non sono avvezzi a riceverla. E insieme comporta la necessità di fortificare questa testimonianza grazie a un’etica sociale, grazie a un’etica e a una catechetica del lavoro, per non consegnare questi processi alle pure logiche del mercato. Infine c’è l’indicazione che questa testimonianza è compito primario dei laici: si delinea così «un itinerario che parte dalla piazza, viene rivisitato – nel discernimento personale e comunitario della Parola e della comunione di vita – all’ombra del campanile, per poi tornare a provocare la piazza, con il valore aggiunto della fede».

«A partire da qui, ha ribadito il relatore, possono emergere proposte concrete, che si integrano e s’intrecciano inevitabilmente con gli altri ambiti della vita dell’uomo. Sintetizzo le principali. Emerge anzitutto la necessità di far conoscere la dottrina sociale della Chiesa. Perciò si chiede siano rilanciate le scuole diocesane di formazione sociale: per un’educazione consapevole dei diritti di cittadinanza… Emerge poi, l’istanza di un accompagnamento, di un ascolto dei disagi che sono propri di un territorio: anche là dove non vi siano ricette immediatamente operative. Si propongono esperienze come quella di un osservatorio sociale permanente o di veri e propri tavoli di ascolto. E ciò può essere pensato e vissuto anche come occasione di dialogo con altre realtà, sociali o religiose, che, al di fuori della Chiesa, si occupano di tali problemi.

Tutto ciò comporta un radicamento nel territorio, che fa leva sulla struttura delle parrocchie e delle associazioni locali, le quali vanno rivitalizzante e rimotivate. Ma comporta anche la necessità di favorire forme concrete di collegamento e coordinamento non solo per conoscere, ma anche per promuovere forme imprenditoriali alternative. Il Progetto Policoro, a cui molti gruppi si sono richiamati, è proposto qui come un modello. I cristiani, insomma, sono chiamati a incidere sulla realtà anche attraverso l’esperienza di nuove forme di lavoro e d’impresa, e attraverso la loro capacità di “fare rete” (come sta dimostrando RetInOpera)… In ultimo, emerge in molti gruppi il richiamo a vivere insieme con coraggio e realismo il giorno di festa. Con coraggio: disposti anche a boicottare lo shopping nel giorno del Signore. Con realismo: rivisitando i nuovi areopaghi del tempo libero – sport, turismo, ecc. – come luoghi di senso e di testimonianza».

 

AMBITO

DELLA FRAGILITÀ

 

L’apprezzato magistrato Sabatini ha ricordato che tutti i gruppi hanno riprodotto con cura meticolosa l’ampio spettro delle fragilità umane più evidenti o emergenti,sperimentate nei singoli contesti territoriali italiani; ne hanno riconosciuto il valore di risorsa idonea per attingere il vero significato e valore della persona umana; hanno ribadito e puntualizzato il bisogno che la Chiesa sia ciò che deve essere, ossia maestra d’umanità autentica e piena. Da qui l’invito a coltivare l’esperienza della personale e comunitaria condivisione della vita soprattutto con i più poveri e a cercare luoghi e tempi per far confrontare, collegare, promuovere e sostenere esperienze e carismi molteplici.

Nella seconda sessione, parte dei gruppi ha sottolineato alcuni atteggiamenti, o stili, ritenuti indispensabili per relazionarsi con le persone fragili e per farsi illuminare dall’alta dignità di ognuna: la vicinanza; l’impegno particolare nell’attenzione e nella cura personali (il saper stare in compagnia); la ricerca della verità, della riconciliazione e del perdono; un servizio generoso, amorevole, umile ma competente; la sobrietà e l’essenzialità nell’uso della ricchezza (segnatamente da parte di presbiteri e vescovi); l’assunzione da parte delle comunità ecclesiali, in quanto tali, e non da singoli loro settori, dell’ascolto come naturale stile per la vera condivisione nel quotidiano. Sono stati, in particolare, auspicati: la riaffermazione della specificità della missionarietà della Chiesa, che porta l’amore di Cristo Risorto quale speranza per il mondo; il ripensamento dei percorsi educativi e catechetici; la “comunicazione” dell’antropologia cristiana e dei suoi fondamenti; la valorizzazione del servizio dell’approfondimento teologico, anche per la formazione personale integrale e alla carità (soprattutto dei presbiteri e dei consacrati); il potenziamento dei luoghi di studio delle questioni antropologiche e sociali, come momento propedeutico sia all’orientamento vocazionale e motivazionale che all’intervento sociale e all’esercizio responsabile della cittadinanza civile; il maturo riconoscimento dei limiti della supplenza nei confronti delle istituzioni pubbliche in materia di politiche sociali ma anche del valore di profezia del volontariato autentico.

Dalla terza sessione del suo ambito, infine, il relatore ha evidenziato concrete proposte di “ministero di umanità di condivisione”. Tra queste spiccano «il riconoscimento del valore e dello straordinario rilievo attuale, tra i ministeri, del diaconato, “per il” e “nel” servizio alle persone fragili, con invito al suo pieno impiego… il superamento della pastorale “per settori”; il sostegno e la valorizzazione capillari delle forme e strutture di promozione della vita dal concepimento al suo termine naturale, in particolare verso le età più vulnerabili; il sostegno massimo alle famiglie e alle reti di famiglie; la diffusione e promozione della cultura dell’accoglienza, nelle specifiche forme dell’affidamento etero-familiare (e del sostegno stabile alle famiglie accoglienti) e di “scuole di carità” (per associazioni, gruppi e movimenti, oltre che di operatori della cosiddetta pastorale della strada e del marciapiede); la previsione di percorsi di accoglienza, sostegno e compagnia verso i separati e i divorziati, e in particolare verso i divorziati risposati… l’elaborazione e avvio di iniziative di recupero nei confronti di persone coinvolte nella malavita, in particolare quella dedita al crimine organizzato; la formazione e valorizzazione di un volontariato competente, particolarmente motivato, già nella dimensione parrocchiale, negli ambiti più urgenti (come quello sanitario, dell’accoglienza agli immigrati, del recupero e reinserimento sociale degli ex detenuti)… la redazione di un documento sulla pastorale carceraria e la creazione di una Consulta ad hoc (e, in sede diocesana, di una commissione permanente per il mondo penale)… l’invito alle scuole cattoliche all’accoglienza dei più svantaggiati».

 

TRADIZIONE

A UN DUPLICE LIVELLO

 

La riflessione predominante e condivisa, nelle sintesi provenienti dai gruppi di studio sulla tradizione, è che quest’ultima va sempre concepita a un duplice livello: come il deposito della fede e insieme come la stessa esperienza della vita cristiana. Ma si tratta di due livelli indissolubilmente uniti. La fedeltà al depositum fidei, infatti, non va mai scambiata con la semplice ripetizione intellettuale di una dottrina, ma va vissuta come il racconto di una testimonianza personale e comunitaria. E così anche l’oggetto della trasmissione della fede non potrà mai essere separato dalla dinamica esperienziale che esso genera. Il soggetto della tradizione cristiana è la comunità ecclesiale nel suo insieme, innanzitutto a partire dall’ascolto della parola di Dio. Da questo punto di vista è costante il richiamo al ruolo primario e insostituibile della famiglia nella generazione e nell’educazione alla fede: un ruolo da recuperare e sostenere in maniera sempre più decisa in un momento storico in cui essa appare indebolita al suo interno (lo scollamento tra le generazioni) ma anche nella sua funzione sociale, con la conseguente crisi di comunicazione dei valori essenziali per le giovani generazioni. «Ma al ruolo della famiglia, secondo lo storico Esposito, va affiancato senz’altro quello svolto dalla comunità ecclesiale, nei suoi percorsi di iniziazione e di formazione permanente; nei suoi diversi livelli pastorali, come quelli della liturgia, della catechesi e della carità; nelle sue specifiche forme territoriali (a partire dalla parrocchia)».

Di qui si ricava poi un’altra riflessione sul metodo peculiare della trasmissione della fede: l’inculturazione (o mediazione), secondo la quale la tradizione è sempre una “traduzione” nei diversi contesti e nei differenti linguaggi dell’oggi, e più specificamente nei mezzi e nei luoghi della formazione e della comunicazione della mentalità pubblica, sino a incontrare la vita di tutti. Da questo punto di vista solo in un dialogo aperto e sincero (tra le persone e tra le generazioni, tra la traditio ecclesiae e le tradizioni della comunità civile) si può realizzare una testimonianza autenticamente vissuta. Una formulazione sintetica di queste diverse dimensioni è “cura educativa” o “sfida dell’educazione”, intesa quest’ultima come una vera passione per le donne e gli uomini del nostro tempo – e in special modo per le giovani generazioni –, ai quali va sempre nuovamente offerta la proposta del Vangelo e la sua risposta alle attese della ragione e del cuore di ciascuno.

Proprio il tema dell’educazione ha fatto da filo conduttore nel lavoro di riflessione e di valutazione sull’esperienza. La prima e più condivisa sottolineatura, a questo riguardo, è stata decisamente quella antropologica, individuando come prima urgenza nella trasmissione della fede, quella di intercettare, valorizzare e farsi carico delle domande, dei problemi e delle attese degli uomini di oggi. Se questo è vero sempre, oggi è ancor più evidente di fronte a due tipi di bisogno che ci interpellano in modo particolare: quello dei giovani, affamati di un senso per la vita e quello degli stranieri che vengono come immigrati nel nostro paese e chiedono accoglienza e rispetto. Si dovrà riconoscere sempre – pur attraverso il disagio, la frammentazione e la perdita di senso dell’umanità contemporanea – la positività che è presente nel nostro tempo, e “tirarla fuori” (e-ducere) come un dono di Dio.

All’opposto di questa apertura e di questa sfida educativa sta invece il rischio di un’auto-referenzialità della proposta cristiana, che chiede di essere superata attraverso un dialogo continuo con la cultura, o meglio con le culture odierne, nei loro diversi linguaggi, con la moltiplicazione e insieme la perdita di centro dei valori di riferimento nei diversi ambiti dell’esistenza. Ciò si mostra tanto più urgente, quanto più la nostra società diviene pluralistica negli aspetti culturali e religiosi. Tutto ciò con la consapevolezza che il dialogo si nutre di un’identità vissuta, che richiede a sua volta un legame vivente e ininterrotto con le sorgenti della vita cristiana: di qui l’esigenza di una formazione permanente alla scuola della Parola biblica, una ripartenza sempre rinnovata dal luogo centrale di tutta la tradizione e di tutta l’esperienza del cristianesimo, vale a dire la liturgia. Interessante poi il fatto che la scuola, quella pubblica e ancor più la scuola cattolica, vengano individuate come un luogo privilegiato per l’elaborazione e la trasformazione culturale alla luce del Vangelo, in una prospettiva che superi le fratture tra l’intellettuale e l’affettivo e tenga conto dell’integralità dell’esperienza umana.

Diverse proposte, ha concluso Esposito, si incentrano sulla «necessità di aiutarsi a una continua rielaborazione dei linguaggi della comunicazione, nei diversi livelli della formazione, dai seminari, agli istituti di scienze religiose alle facoltà teologiche. E c’è chi suggerisce anche di incrementare momenti organici di educazione all’impegno politico. Ma è soprattutto la parrocchia a essere individuata come scuola di educazione e di comunione permanente, e quindi anche ambito di confronto, assimilazione e trasformazione dei linguaggi. Al che va aggiunta l’istanza di uno scambio comunicativo tra le diverse forme di presenza e di espressione delle aggregazioni ecclesiali». Infine si è puntata l’attenzione sul patrimonio di fede e di spiritualità che è presente nella religiosità popolare, nelle feste e nei luoghi particolari di culto: può divenire, adeguatamente evangelizzato, un momento ancora efficace di trasmissione della fede.

Tutto questo sforzo educativo è stato collegato esplicitamente al Progetto culturale della Chiesa italiana, che si chiede di sviluppare come vero e proprio progetto formativo permanente.

 

LA CITTADINANZA

E LE SUE SFIDE

 

I verbali dei gruppi di lavoro dell’ambito cittadinanza documentano un confronto vivace e ricco di accenti critici, anche grazie a un relatore come il sociologo Diotallevi, particolarmente provocatorio (per taluni anche irritante). C’è un nucleo di richieste e di proposte assai condiviso.

Generale è la domanda di formazione ai temi e alle sfide della cittadinanza.. È proprio l’aver già riflettuto su pace, solidarietà, impegno sociale, o sulla mondialità e la globalizzazione, o sulle forme delle governance, o sui valori e sul valore storico della Costituzione italiana del 1948, che fa sorgere l’esigenza di approfondire questi temi sempre più e meglio ed insieme la dottrina sociale della Chiesa, la sua storia e quella del movimento cattolico, in modo più qualificato e scientificamente rigoroso. La domanda di formazione permanente e integrale comunque esprime la voglia di non limitarsi a ripetere principi: si cerca una risposta alla esigenza di identità attraverso la pratica continua della mediazione e non attraverso le scorciatoie pericolose e sterili del fondamentalismo.

Costante poi è stato il richiamo a un’attenzione prioritaria agli ultimi, a coloro che fanno fatica, a una strenua partnership al fianco delle loro battaglie per una piena inclusione nel regime civile di diritti, doveri ed opportunità. L’attenzione si è concentrata sulla questione della presenza degli stranieri: una presenza nuova, che non manca di porre problemi anche seri, da trasformare in opportunità vitale attraverso un percorso di dialogo, di rispetto, di corresponsabilità nella laicità dello stato e nel riconoscimento delle istanze del diritto naturale. In terzo luogo, con sorpresa del relatore, dai gruppi proviene un respiro politico assai ampio che fa dire come il “luogo dell’unità dei cristiani è la Chiesa e non la politica”.

L’attenzione è insomma protesa verso nuovi modelli culturali e organizzativi che l’impegno politico richiede oggi, rispetto al passato, a tutti e non solo ai cattolici. « Il presente assetto del sistema politico italiano, le sue regole, i suoi attori, a partire dall’attuale bipolarismo, sono accettati come un dato di fatto e nello stesso tempo considerati suscettibili di ulteriori evoluzioni. Semmai, questo regime di bipolarismo rende ancora più urgente la difesa e lo sviluppo di un ethos condiviso, non solo nella Chiesa ma anche nella società. Contemporaneamente, forte è la critica all’attuale legge elettorale del Parlamento, e determinata è la denuncia delle drammatiche condizioni in cui la legalità versa in tante aree del paese».

Proprio mentre si richiede una maggiore attenzione di tutta la comunità ecclesiale ai problemi e alle istanze di quest’ambito, si contrasta preventivamente l’idea che questi vengano affidati a un nuovo, ennesimo ufficio. Si richiede che essi siano innestati nel cuore della pastorale ordinaria. In questo senso ricorrono tre proposte. Oltre le esperienze del Progetto culturale, delle scuole di formazione socio-politica, delle commissioni Iustitia et Pax si vogliono, ai diversi livelli della vita ecclesiale, luoghi permanenti di discernimento comunitario, laboratori di un nuovo cattolicesimo politico, aperti a competenze e professioni, a uomini, donne e giovani. È attraverso queste sedi che si ritiene sia possibile evitare che il bipolarismo e il pluralismo politico dei cattolici producano una abitudine alla delegittimazione reciproca. Si chiede, in secondo luogo, che la responsabilità per la città sia portata al cuore delle celebrazioni eucaristiche, al cuore della ricerca della Parola nelle Scritture, che risuoni nella normale omiletica, che sia tenuta presente nella catechesi ordinaria e sin dai primi passi della iniziazione cristiana. Infine, ancora una volta, sono proprio le parrocchie e le diocesi, i consigli pastorali parrocchiali e diocesani, a essere indicati come i luoghi decisivi di questa integrazione pastorale, della quale anche la responsabilità per la città vuole essere anima e dalla quale sola sente di poter trarre nuovo alimento spirituale.

 

A cura di Mario Chiaro